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 2015  marzo 17 Martedì calendario

LA PALLA PROMESSA

È notte e freddo, quando la gru della nave Dattilo cala l’ultima bara sulla banchina del porto di Augusta. Tre uomini con tuta bianca e mascherina caricano il feretro in un furgone. Dieci corpi ripescati e decine di punti interrogativi: «Credi davvero che siano affogati solo loro?» sferza la delegata di un’ong. Il primo a darle ragione è un padre di Damasco, sbarcato assieme a tre bambini. Racconta che in mezzo al Canale di Sicilia è scomparso il suo figlio più piccolo, un bimbo di due anni. Impossibile stabilire il numero dei dispersi, stimato intorno alle 50 persone. Badr, un ragazzo marocchino, ci descrive scene infernali: esistono prima e seconda classe anche su quei catorci, e troppo spesso la differenza la fa un salvagente in vendita per 50 euro. «Gli africani non hanno i soldi per comprarlo e non sanno nemmeno nuotare. Quando il gommone si è rovesciato chi non aveva il salvagente si è aggrappato a chi lo indossava, finendo per trascinarlo con sé». I 439 sopravvissuti vengono condotti in una tendopoli nel porto. Stanno in fila per la cena, sulle spalle una coperta di lana grezza per combattere l’umidità che ha vinto le ossa dopo giorni di mare. Un gruppo di palestinesi guarda incuriosito.
«Totti selfie, Inzaghi offside...»
Appena sentono la parola «calcio» distendono il sorriso più largo del mondo. Un ragazzo di 25 anni, una cicatrice sul collo che manco Tevez, comincia a saltellare frenetico: «Totti! Totti, selfie!» ride. «Inzaghi offside, Inzaghi offside! Ac Milan, Barbara Berlusconi!». È scappato dal Libano, orfano di padre («My father… Israel… bum bum bum»), e tale è l’entusiasmo che, dopo averci aggiornato sul risultato del Real Madrid, passa a elencare tutti i commentatori di Al Jazeera per il calcio italiano. A pochi centimetri due ragazzi ridacchiano imbarazzati. Farest ha 23 anni, è cresciuto in un campo per profughi palestinesi in Siria e a causa della guerra ha abbandonato l’università: «Non volevo essere ucciso, né diventare un assassino». Educato, timido, racconta che nel naufragio sono scomparsi almeno sette bambini. Il gommone si è rovesciato dopo l’aggancio a un mercantile giunto per i soccorsi. Contagiato dall’entusiasmo del vicino, Farest confessa un debole per Totti e il Barcellona. La prima partita che ricorda è Francia-Brasile 3-0, finale del Mondiale 1998. «Quando ha vinto il Brasile...» aggiunge un amico. Come il Brasile? «Noi tifavamo per loro: sai, avevano Ronaldo». Nel quarto d’ora scarso che trascorriamo fra le tende, facciamo in tempo a vedere un ragazzo con la maglia del Milan, un altro con una felpa del Barça e un terzo che indossa scarpe da calcetto: tutto ciò con cui hanno affrontato sole e sale, deserti e mari.
La Champions come Hollywood


Dopo giorni di burrasca i nuovi arrivi in Sicilia erano attesi col fatalismo di un’onda. Il 2015 si annuncia come nuovo anno dei record: al primo marzo sulle coste italiane sono sbarcate 7.882 persone, il 43% in più rispetto allo stesso periodo del 2014 (5.506), concluso con oltre 170 mila arrivi (circa quattro volte quelli del 2013, quasi 43 mila). Inevitabile, in una fase storica in cui per la prima volta dalla Seconda guerra mondiale più di 50 milioni di persone si trovano costrette a lasciare la propria casa, e le istituzioni della principale base di partenza per l’Italia, la Libia, sono collassate sotto il peso della guerra civile in corso da quattro anni. Scopo del nostro viaggio è capire quanto il calcio ha inciso nella formazione dell’immaginario di questi uomini. In che misura la Champions League si è fatta veicolo del mito europeo, un po’ come Hollywood per l’America, contribuendo a scolpire le attese per cui questi giovani hanno sfidato il Sahara, i predoni e il Mediterraneo. Una domanda che ci porterà a girare per mezza Sicilia e oltre, da Palermo a Lampedusa.
Il Milan di Aliou


«Nel deserto eravamo in 26, siamo arrivati in 13». Aliou è un ragazzo tranquillo, dallo sguardo dolce. Lo incontriamo in un centro di prima accoglienza per minori a Caltagirone. È tornato prima dal campetto in cui decine di ospiti ridono e litigano, chi esultando come Cristiano Ronaldo e chi giocando scalzo o quasi. «Non saprei dirti in che modo amo il Milan - racconta emozionato, governando a stento la voce -. Rappresenta un sacco di cose per me, è un po’ il sentimento che un padre deve provare per un figlio». Spinto dalle difficoltà materiali e da un sogno segreto, un giorno ha lasciato il Senegal: Mali, Burkina Faso e poi Niger, per attraversare il Sahara e raggiungere la costa libica. «Abbiamo passato 9 giorni nel deserto, ci eravamo persi. Per tre e mezzo siamo rimasti senza cibo e senza acqua. Era tutto finito: il pick-up rotto, abbandonato dal trafficante, e noi lì. C’era una bottiglia da un litro e mezzo per cinque persone: abbiamo bevuto un sorsetto tre volte al giorno», dice, stringendo pollice e indice per indicare una quantità minima. «Ci ha raccolti una pattuglia della polizia, siamo andati ad Agadez, nel Niger, e là abbiamo dovuto pagare di nuovo per riprendere il cammino. Ma nel Sahara non è stato peggio della Libia»: un anno e mezzo a spaccarsi la schiena nei cantieri, per subire quattro rapimenti e vedersi rubare i dinari risparmiati per il Mediterraneo. Non ti è mai venuta voglia di tornare a casa? «Mai. Ho deciso di venire in Italia per integrarmi e almeno un giorno - almeno un giorno – andare a San Siro a vedere il Milan. Amo il Milan, amo il Milan», ripete veloce, incespicando sulle parole più ancora di quando ricorda il Sahara. Ti piacerebbe diventare calciatore? «Non so cosa mi riservi il destino. Ma almeno una volta voglio vedere San Siro. È il sogno che più mi è caro al mondo, te lo dico dal fondo del cuore». Dopo il deserto, quattro giorni di mare, di cui ricorda soprattutto il freddo. «Col Milan ho imparato ad amare l’Italia: non so se sono mai stato felice come il giorno in cui ha vinto il Mondiale». «Pirlo deve continuare altri 30 anni, perché mi piace. Quando entrerà in campo a 60 anni dimostrerà ancora di sapere il fatto suo».
Renzi l’interista
Fra i suoi compagni non si contano quelli convinti di poter diventare professionisti. Slavin, gambiano di 17 anni, adora Muntari con buona pace di Salvini. Non credi che faccia troppi falli? «No, a centrocampo bisogna entrare duro», sorride un po’ imbarazzato. Definisce «tumultuoso» il suo viaggio, cominciato quando di anni ne aveva 15: una settimana nel deserto, i compagni che vomitavano sangue, un anno d’inferno in Libia («non voglio parlarne, alcune cose vanno tenute per sé»), e una traversata in balia delle correnti, stretto fra 100 profughi su un gommone malandato di dieci metri e poco più. Simpatizza per il Milan, ma tifa Manchester United, e in Gambia consacrava il weekend al calcio europeo. Dice di essere partito, oltre che per problemi di cui preferisce tacere, «per soddisfare la mia ambizione di diventare professionista». Calcio a parte, dell’Europa conosceva «i diritti umani». Sai chi è Silvio Berlusconi? «Certo, quello del Milan». E Matteo Renzi? «Come no! Gioca nell’Inter». La gara più bella, ricorda distendendo i lineamenti, è la finale di un torneo locale che la sua squadra ha vinto 2-0.
Abdoul e Supermario
Fra questi sognatori svetta un altro ragazzo gambiano, Abdoul, e non solo per l’altezza da prima punta. Stupisce la determinazione robotica con cui parla della sua «carriera». Un tono al titanio, inattaccabile, al punto che bisogna sforzarsi di guardarlo negli occhi per ritrovare il lampo del ragazzino. Per gli altri è ancora un gioco, per lui una missione, e si capisce dalla serietà con cui si muove sul campo, maturo e intelligente, mentre i compagni si fanno risucchiare dalla palla. Nel vivaio in cui è cresciuto lo paragonavano all’olandese Van Nistelrooy. «Sono partito perché la mia vita era in pericolo». Orfano di padre, investiva i pochi soldi che gli passava la madre per andare al cinema a guardare le gare europee, «e quando vedevo ragazzi di 16 anni mi dicevo: wow, posso far meglio di loro, quando arriverà il mio momento. Il calcio è la mia vita». Quattro giorni nel Sahara, due senza bere, «pensavo che sarei morto», ma il peggio doveva ancora venire. Continua a pagina 4k Segue da pagina 3k Era il Mediterraneo, che lui si ostina a chiamare «fiume»: uno sbaglio candido, ingenuo, capace di svelare il terrore per l’ignoto che questi ragazzi hanno dovuto vincere. «Ohh, ecco… È stata così dura, amico… Voglio solo dimenticare». «Abbiamo visto un elicottero e poi per ore la barca ha continuato ad andare, ad andare, ad andare», si incanta sopraffatto. E da qui, dal terrore di finire inghiottito dall’acqua, nasce il sogno di Abdoul di giocare per l’Italia: «Voglio ringraziare gli italiani, hanno rischiato la vita per salvarmi. Se mi aiuteranno a trovare una squadra, prometto che li ripagherò. Vedo Balotelli di fronte a gente fantastica come Pirlo, De Rossi, Buffon - sospira speranzoso-. Ricordo i gol alla Germania all’Europeo nel 2012, e mi dico che se riuscirò a giocare per l’Italia potrò fare anche meglio di lui. La disciplina è tutto, se vuoi ottenere qualcosa».
Da Boko Haram a Pirlo
Pedro, nigeriano di 19 anni, ce l’ha a morte con Massimiliano Allegri. Lo incontriamo alla periferia di Siracusa, la sera dopo Juventus-Fiorentina di Coppa Italia (1-2): «La Juventus mi piace e adoro Pirlo: se ci fosse stato ieri sarebbe finita diversamente, sono molto arrabbiato», dice, abbandonando per un secondo l’aria guardinga. Pedro viene dal Nord del Paese, flagellato dagli attacchi dei terroristi di Boko Haram e dalla repressione dell’esercito. Ha perso il padre e due sorelle negli attentati degli islamisti, ed è partito più in fretta che poteva. Tre giorni nel deserto, stretto con altre ventisette persone su un pick-up, picchiato dai trafficanti «che ci trattavano come animali». Poi il «fiume» Mediterraneo, il «capitano» che scappa a nuoto poco dopo la partenza e la carretta che comincia a imbarcare acqua, tre giorni prima dei soccorsi. Da allora soffre di piccole emorragie. «Qualcuno sulla barca è svenuto, ma ci siamo salvati tutti. Se penso di trovarmi in Europa sono molto felice, anche se non ho altri vestiti e ora ho freddo. Amo il calcio da pazzi». Gioca ala sinistra, gli piace imitare il madridista Cristiano Ronaldo, ma la vera passione è il Barcellona: «Messi e Xavi sono incredibili».
L’africano bianco


«Bravo, africano bianco!», si sente gridare su un campo del Picanello, quartiere incastrato fra le case della Catania più popolare. L’africano bianco - chiamato dai compagni anche «extracomunitario» o «uomo nero» - è Simone Poma, centravanti e unico giocatore non di colore dello Sporting Africa United, prima squadra italiana creata e gestita da immigrati. Simone si muove a suo agio e a fine primo tempo aspetta che l’allenatore termini il monologo in cui alterna wolof, inglese e francese, per ricevere le sue istruzioni. Lo Sporting ha la calma del più forte, e rimonta un doppio svantaggio, per assicurarsi con un 3-2 la qualificazione ai playoff di Terza categoria. Bouba, l’allenatore di 38 anni, è uno spettacolo: pantaloni mimetici e cappellino da rapper, urla in quattro lingue, si agita, ride, protesta, senza mai risultare intimidatorio malgrado il fisico da peso massimo. «Il mio preferito è Simeone», abbozza a fine gare. Il modulo ideale? «Segreto». Questa squadra improvvisata è un osservatorio privilegiato. Ci permette di trovare nel calcio un filtro per leggere la quotidianità dei ragazzi sbarcati, per misurare la distanza che li separa dai sogni, e ci racconta qualcosa sulla nostra disponibilità ad accoglierli. Aram, difensore di 17 anni e una sicurezza fuori dal comune, viene dal Gambia. Preferisce non parlare del viaggio: « Mi sono buttato nel calcio anche per dimenticare il mio passato e cominciare da capo. La mia vita ruota intorno allo sport, voglio diventare un professionista come Pirlo o Marchisio». Sogno coltivato sin da bambino, quando si stringeva nei cinema con altre centinaia di persone: «C’è caos, la gente grida, litiga: sai com’è, i tifosi del Barcellona vogliono sempre che il Real Madrid perda».
Fra Senegal e Rosarno
Il direttore sportivo Abdoulaye è già passato per i sogni di Aram. Ex trequartista di Serie A senegalese, innamorato del Barça e di Ivan de la Peña, è atterrato in Sicilia senza trovare squadra: troppi vincoli burocratici, e così è finito prima a vendere merce contraffatta e poi a raccogliere pomodori a Rosarno. «È dura. Dormi nelle tende, quando piove non c’è lavoro: la gente si fa 15 euro al giorno. Per 8 mesi siamo rimasti senza corrente e acqua calda. Ai padroni non fregava nulla se eravamo malati o stavamo giù di testa: o accetti o te ne vai, e a casa ci sono delle persone che aspettano il tuo aiuto». Il punto, per lui, sta tutto nelle attese: «I ragazzi in Africa sognano di partire. In tv vedono una vita da sogno, chi torna racconta cose meravigliose: non ti svegliano su che cos’è l’Europa davvero». Gli inizi dello Sporting non sono stati facili, e la dicono lunga sulla nostra apertura. «Abbiamo perso le prime 4-5 partite perché gli avversari ci provocavano, con cose del tipo “tornate sugli alberi”, “figli delle scimmie”, e i nostri andavano fuori di testa», racconta ridacchiando. «Poi abbiamo fatto una riunione e abbiamo capito: ora vinciamo col sorriso». Mentre camminiamo nei pressi della stazione, non c’è africano che non fermi Abdoulaye per chiedere notizie del risultato. Il presidente dello Sporting è un imprenditore senegalese, Moussa Mbaye. «Il razzismo esiste, stiamo cercando di combatterlo con il calcio. Vogliamo diventare una piattaforma d’integrazione, come dimostra l’ “uomo nero” in attacco. La nostra, da immigrati, è una battaglia per la legalità». Per molti, in Italia come in Niger, il migrante è solo un affare, e chi sogna San Siro rischia di finire a spaccarsi la schiena in qualche campo o fabbrichetta. «In Sicilia esiste la mafia e il caporalato di Rosarno qui si ritrova in condizioni peggiori. Negare la mafia, la mala gestione di questa terra fa male. Lo dice anche un nostro proverbio: quando sei nato non puoi più nasconderti».