Paolo Griseri, Affari & Finanza 16/3/2015, 16 marzo 2015
ECCO PERCHE’ IL MADE IN ITALY NON PUO’ PRODURRE UNA NESTLE’
Perché non esiste una Nestlé Italiana? «Perché l’industria alimentare della Penisola è a conduzione familiare, non è quotata in Borsa e ha scarse possibilità di investire in acquisizioni. Forse non ne ha nemmeno bisogno ». Risponde così Denis Pantini, ricercatore di Nomisma, autore di indagini sul food nostrano e sulle sue evoluzioni. Colossi alimentari come Barilla e Ferrero sono saldamente in mano alla quarta generazione familiare ma non hanno mai deciso di sbarcare a Piazz Affari per cercare capitali e crescere. Ferrero è un esempio di multinazionale con stabilimenti e sedi in 53 paesi del mondo che non ha bisogno di capitali di Borsa e investe in autofinanziamento. «Soprattutto - osservano a Nomisma - anche le grandi aziende alimentari italiane tendono a svilupparsi a partire dal loro business originario e dalle materie prime che servono a realizzarlo». Così Barilla ha sviluppato la filiera della farina, Ferrero quella del cioccolato, Cremonini quella della carne. Ma quasi mai le società italiane del food osano spingersi fuori dal sentiero conosciuto: seguono le orme della loro tradizione come Pollicino le briciole per ritrovare la strada sicura.
Una delle ragioni è certamente nei caratteri del capitalismo nostrano, tradizionalmente di dimensioni ridotte nel confronto con quanto accade oltralpe. Il secondo motivo è più legato alla nostra industria alimentare. Il paradosso è che il food italiano è il più apprezzato nel mondo ma non certo il più venduto. Nel 2014 solo il 3,3 per cento del cibo del pianeta arrivava dall’Italia. In cima alla classifica degli esportatori stanno gli Stati Uniti che nel 2013 vendevano il 10,1 per cento dei prodotti agroalimentari commercializzati a livello globale. Una percentuale che si spiega con il fatto che tra le prime dieci società del food mondiale ben sei hanno sede in Usa: CocaCola, PepsiCola, Kellog’s, General Mills, Mars e Mondelez. Al secondo posto nelle esportazioni ci sono, un po’ inaspettatamente, i Paesi Bassi con il 6,4 per cento. Uno dei motivi è che la Unilver, altro colosso dell’agroalimentare, ha sede a Rotterdam. «Ma c’è una seconda ragione - spiega Paolo Bono di Nomisma - ed è il fatto che il porto di Rotterdam è uno dei principali punti di sdoganamento dei cibi nel mondo». Un caso in cui il transito si confonde con l’origine, in parte dunque un’illusione ottica. Ben più fondato è il terzo posto della Germania che esporta il 5,7 per cento del venduto nel mondo. Il caso del Brasile, quarto con il 5,2 per cento, è invece legato soprattutto alle esportazioni agricole. Subito sotto sta la Francia, con il 4,7 per cento, come la Germania favorita da una forte rete di distribuzione.
Questo infatti, più della dimensione delle aziende italiane del food, è il vero tallone d’Achille dell’industria agroalimentare italiana. Oscar Farinetti, patron di Eataly, la sintetizza con un linguaggio colorito: «E’ ora che la grande distribuzione di casa nostra alzi il sedere e vada a insediarsi fuori dalla Penisola, come hanno fatto i francesi». Farinetti cita l’esempio della Esselunga «fondata in Italia nel 1957 e rimasta sempre al di qua delle Alpi. Cinque anni dopo, nel 1962, nasceva Carrefour che oggi è presente in tutto il mondo e ha 80 ipermercati nella sola Cina». Differenze di cultura imprenditoriale. Il nodo della distribuzione è quello che finisce per penalizzare il food italiano: «Mi dica il nome di un prodotto alimentare tedesco famoso in tutto il mondo», ironizza Denis Pantini per spiegare «il paradosso di un’industria alimentare che riesce a esportare il doppio di quella italiana pur avendo un’immagine molto meno forte».
Dunque il problema non sembra essere tanto quello di avere una Nestlé italiana quanto quello di avere una Walmart, un colosso della distribuzione. L’Italia non ha bisogno di una grande multinazionale dei brand del food quanto di un grande scaffale di supermercato su cui esporre i prodotti. «Se in Italia non c’è una Nestlé è perché il nostro Paese è la capitale mondiale della biodiversità. Non c’è nessun altro posto in cui in un territorio relativamente piccolo si trova la più alta concentrazione di specie vegetali (7.000), di vitigni (1.200) e di tipi di grano duro: noi ne abbiamo 140, gli Stati Uniti che sono il principale produttore mondiale ne hanno sei», si accalora Farinetti. Raccontando che «la diversità fa parte della nostra cultura. Un bolognese non farebbe mai un tortellino senza il ripieno di mortadella, un modenese considera una bestemmia non produrre il ripieno con il prosciutto. Tra Modena e Bologna ci sono 20 chilometri. La varietà è una ricchezza, per questo non abbiamo bisogno della Nestlé». Anche se, aggiunge il patron di Eataly, «va riconosciuto alla Nestlé di aver lasciato alle aziende italiane che ha acquistato, come la San Pellegrino, il management italiano. Non è poco. In fondo, grazie alla multinazionale, quell’acqua minerale è ambasciatrice del food italiano in giro per il pianeta».
In attesa di trovare il distributore mondiale italiano, l’unica catena a presenza globale è proprio quella di Eataly, anche se il proprietario si schermisce: «Non abbiamo dimensioni tali da poter essere avvicinati ai colossi della grande distribuzione». In alternativa c’è la vendita in proprio sui mercati internazionali: «Il 90 per cento del Barolo delle Langhe viene venduto all’estero e spesso sono i singoli produttori che prendono l’aereo e vanno a New York a proporre il vino ai clienti». Sistema che può funzionare per il più pregiato dei vini italiani ma non certo per tutti. Un’altra strada è quella che Pantini e Bono hanno illustrato in un recente report di Nomisma sull’industria del vino: «All’interno della filiera vitivinicola italiana scrivono - le aziende export-focused spesso si sono poste al vertice dell’organizzazione di filiera veicolando oltre- confine il vino prodotto anche a partire da uve di tante piccole realtà che hanno potuto mantenere il proprio focus aziendale su qualità e processi produttivi». E’ la grande distribuzione fai da te. Inventata per sopravvivere nel mondo senza avere né Nestlé ne Walmart.