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 2015  marzo 16 Lunedì calendario

L’ULTIMO ASSALTO DI PECHINO. LE BANCHE CINESI SI PREPARANO ALLO SBARCO IN OCCIDENTE

La Cina accelera l’espansione economica all’estero e presto gli investimenti potrebbero non limitarsi più a energia, titoli di Stato, aziende. L’allarme «sindrome cinese» suona dai mercati finanziari agli istituti di credito. Lo scenario, fino a ieri considerato fantascienza, è quello di una cinesizzazione delle banche: non solo in economie emergenti e Paesi in via di sviluppo, ma nelle roccaforti del credito occidentale. Pechino non si limita più a puntare su comunicazione, agricoltura, sport, elettronica, trasporti, immobiliare, turismo e alimentare. Vuole un controllo maggiore sulla cassa globale, la gestione di debiti e prestiti. L’obiettivo è accorciare i tempi per l’internazionalizzazione dello yuan, arrivando alla piena convertibilità per sfidare la storica egemonia del dollaro Usa. Il go west dei colossi del credito cinese, unito al boom dell’interscambio in renminbi, solleva domande cruciali sull’equilibrio del sistema monetario mondiale. Stati, mercati e investitori devono prepararsi a un mondo in cui valuta e banche cinesi occuperanno un posto decisamente più importante. A Pechino, per ora, il tramonto del credito occidentale non conviene. La Cina è il primo detentore di valuta estera e colpire la banche di Europa e Usa causerebbe il crollo del valore delle proprie riserve. La concorrenza è un’altra cosa e la leadership rossa pensa sia giunta l’ora di far sentire il fiato del credito di Pechino sul collo degli
istituti stranieri.
Vedere un risparmiatore occidentale varcare la soglia della filiale di una banca cinese per chiedere un mutuo, o per aprire un conto corrente, può non essere una scena quotidiana nel breve periodo. Secondo il governatore della Banca popolare cinese, Zhou Xiaochuan, questa realtà è però una tendenza inevitabile. Il credito occidentale, colpito dalla crisi, per recuperare competitività minaccia di avere bisogno di molto tempo. Quello cinese, pur regolato dallo Stato, vanta oggi dimensioni e prestazioni insostenibili per i concorrenti esteri: la sua espansione nelle aree di euro e dollaro nell’immediato rischia di sconvolgere il settore, ma in prospettiva può costituire la leva decisiva per guarire un sistema minato da inefficienze e interessi non trasparenti. A confermarlo, l’ultimo rapporto mondiale sui brand delle banche, pubblicato da «The Banker». Tra i primi dieci istituti internazionali accreditati dei marchi di maggior valore, quattro sono già made in China. Industrial and Commercial Bank (Icbc) è seconda, dietro l’americana Wells Fargo, con un valore di 27,4 miliardi di dollari e una crescita 2014 del 20%. Quarto posto per China Construction Bank (più 39% lo scorso anno), ottava posizione per Agricoltural Bank of China (+28%) e nona per Bank of China, che precede la spagnola Santander con un rafforzamento annuo del 22%.
A impressionare non è la classifica assoluta, dove i quattro giganti cinesi del credito di Stato erodono posizioni da anni, ma la percentuale dell’incremento del loro valore. Qui Pechino vanta le prime due piazze, con China Construction Bank e Agricoltural Bank of China, e poi la quarta (Icbc), la quinta (Bank of China), la sesta (China Merchants Bank) e la nona (China Citic Bank). Questo significa che nel 2014 sei banche su dieci, tra quelle che hanno registrato la maggior crescita mondiale, sono cinesi: una sola statunitense, una indiana, una brasiliana e una australiana. L’amministratore delegato di JP Morgan, Jamie Dimon, ha ammesso che le straorganizzate banche occidentali potrebbero essere superate dai marchi cinesi. Solo gli istituti del Medio Oriente reggono il passo dell’espansione di Pechino, ma il crollo del prezzo del petrolio e l’imparagonabile peso dell’economia cinese preludono ad una fuga solitaria del Dragone.
Per i mercati il punto è prevedere quando la Cina deciderà di ufficializzare il suo tentativo di conquista del credito occidentale, non solo per accompagnare l’espansione delle imprese nazionali all’estero, ma pure per finanziare gli investimenti stranieri in Cina. La Banca mondiale ha fissato il limite «entro il 2020», ma il ritmo di apertura di nuove filiali estere dei colossi cinesi tende ad anticipare i tempi. Icbc, per esempio, in Europa negli ultimi mesi ha investito a Londra, Mosca, Milano, Francoforte, Lussemburgo, Parigi, Bruxelles, Budapest, Amsterdam e Madrid, oltre che in tutti i Paesi dell’Est. Tutte le grandi banche cinesi sono state quotate e l’integrazione economica tra Pechino e il resto del mondo registra un’accelerazione senza precedenti: in vent’anni l’interscambio è cresciuto di venti volte, la Cina rappresenta il 9% dell’interscambio mondiale di beni e servizi ed entro quest’anno un terzo del commercio estero cinese sarà regolato in yuan.
Uno studio del Fondo monetario internazionale lancia l’«allarme shopping» delle banche cinesi, ma osserva anche che «l’internazionalizzazione del sistema del credito della Cina e della sua valuta possono convenire a tutti». La ragione è semplice: un renminbi pienamente convertibile e istituti bancari cinesi costretti a rispettare le regole del mercato, per Pechino riducono i rischi legati al cambio negli investimenti e semplificano le operazioni di cassa per le imprese, mentre agli stranieri offrono prezzi scontati e un aumento dei potenziali fornitori. Gli analisti avvertono che affinché «l’offensiva delle banche cinesi non si traduca in una neo-colonizzazione delle nazioni emergenti e in un conflitto con le economie sviluppate», le condizioni «sono strette». Lo Stato, e dunque il potere del partito comunista, non «può più controllare sia i maggiori istituti di credito nazionali che la Banca centrale, la quotazione dello yuan deve essere affidata al mercato e le autorità pubbliche non possono più influenzare le Borse per ragioni politiche ». Sono passaggi decisivi, difficilmente immediati, resi meno automatici sia dall’ingombro di pregiudizi culturali che dal peso storico del sospetto.
Le differenze culturali negli ultimi anni hanno causato il flop di centinaia di investimenti cinesi all’estero, mentre il sospetto che la Cina spinga le proprie banche a raccogliere denaro straniero per compensare il calo del risparmio interno, frena il ricorso occidentale al credito di Pechino. L’ostacolo maggiore è rappresentato dalle piccole e medie imprese, le più colpite dalla concorrenza cinese. All’avanzata degli istituti del Dragone ha corrisposto sia quella dei suoi investimenti che quella delle sue imprese. Il timore è che i soldi dei risparmiatori occidentali finiscano per finanziare proprio le aziende straniere che contribuiscono ad aggravare la crisi dello stesso sistema produttivo, arricchendo banche e industrie cinesi al punto da rafforzare lo stesso autoritarismo di Pechino, che si contrappone alla democrazia dell’Occidente. Un paradosso: consumata la «grande delocalizzazione » di lavoro e produzione, ecco la Cina riesportare i capitali acquisiti da Usa, Europa e Giappone per acquistare i loro mercati finanziari, le loro valute e ciò che resta dei loro sistemi industriali. I pessimisti in queste ore assicurano che l’irruzione delle banche cinesi in Occidente distruggerà non solo il nostro credito, ma il cuore del capitalismo.
Gli ottimisti osservano che al contrario l’ultimo stadio dell’integrazione economica, occidentalizzando la Cina e costringendola al mercato, obbligherà Pechino a rinunciare al comunismo e ad aperture altrimenti impossibili. «Sbagliano entrambi – ha detto il presidente Xi Jinping: dal credito al commercio oggi decide solo il consumatore, unico ormai su tutto il pianeta». Lo spettro è che ad essere unico sia presto anche il potere che lo governa.