Paolo Possamai, Affari & Finanza 16/3/2015, 16 marzo 2015
BARILLA, IL MULINO TIENE BANCO: «IN CINQUE ANNI RADDOPPIAMO I RICAVI»
Come si dice “low profile” dalle parti di Parma? A casa Barilla, indica discrezione al limite del silenzio dei protagonisti. E dunque Paolo Barilla, vicepresidente del gruppo fondato nel 1877 e giunto alla quarta generazione con lui e i fratelli Guido e Luca, si stringe nelle spalle quando sente chiedere del ruolo svolto sulla Carta di Milano per Expo2015 e se pensa di vestire i panni di aggregatore per costruire un campione nazionale nel campo dell’alimentare. Ma poi spiega che «il piano industriale in fase di esecuzione punta a raddoppiare i ricavi» anche come effetto di una filosofia green spinta, parla di acquisizioni allo studio e aggiunge che «la strategia di internazionalizzazione prevede l’apertura di nuove linee produttive a sostegno di vari mercati emergenti». Il tutto alla vigilia di Expo, alla quale Barilla partecipa anzitutto tramite la sua Fondazione Barilla Center for Food & Nutrition (Bcfn), che ha contribuito in misura determinante, tramite il Protocollo di Milano, a quello che il governo italiano ha dichiarato essere la vera eredità della manifestazione: un accordo mondiale per affrontare i grandi paradossi sul cibo. «P artiamo dalle linee guida del Protocollo - dice Paolo Barilla - combattere lo spreco alimentare, la fame, l’obesità e lo sfruttamento della terra. Perché non è burocrazia, ma la radice dello sviluppo futuro. Da almeno 6 anni in azienda e poi con la nostra Fondazione Bcfn cerchiamo di dare una nuova mappa alla nostra impresa, a
partire dai prodotti. Sale, zucchero, grassi sono costantemente al centro delle nostre analisi e revisioni di ricette, che tendono a prodotti più equilibrati dal punto di vista nutrizionale. E poi ci interroghiamo sulla sostenibilità del nostro business anche sul piano ambientale». In termini di concreta operatività, che effetti ha questa attitudine green nella conduzione di una azienda globale? «Ho detto dei riflessi sul catalogo prodotti della nostra consulenza scientifica. Ma ci poniamo anche il tema dell’impatto ambientale della filiera. Facciamo un esempio: ci siamo resi conto che il grano che acquistavamo in Nord America, che aveva valore nutrizionale eccellente, essendo coltivato nel deserto dell’Arizona implicava un enorme dispendio d’acqua e forti ricadute ambientali in termini di logistica. Abbiamo fatto un accordo con gli agricoltori italiani, affinché coltivino un grano di pari qualità e con un costo ambientale molto più contenuto. Abbiamo poi studiato con un pool di agronomi un metodo di rotazione delle coltivazioni agricole, stipulando accordi di filiera con i produttori di pomodoro, barbabietole e altri, che implicano un minore uso di fertilizzanti, quindi costi più bassi, prodotti di qualità migliore e un minore impatto ambientale». Ma i consumatori sono attenti a questi aspetti e premiano la vostra svolta green? «Il mercato finale ancora non valuta a sufficienza che il concetto di sostenibilità può essere associato a migliori caratteristiche del prodotto. Abbiamo ormai condiviso questo linguaggio con le istituzioni, con la filiera, con le associazioni di consumatori, dimostrando che agricoltura e industria possono essere coniugate in chiave di rispetto ambientale. Ma il grande pubblico è ancora poco coinvolto. E’ il tema culturale dei prossimi anni. Penso in questo senso che la prossima Expo possa essere una grande opportunità per affermare i temi dello stile di vita applicato all’alimentazione ». Cosa vi attendete concretamente dall’Expo? «In primis dovrebbe essere un allineamento culturale da parte di tutti: noi da soli non facciamo niente. Compriamo grano, lo maciniamo, produciamo pasta e la vendiamo. Ma occorrerebbe un cambio di mentalità riguardo alla piramide alimentare e ambientale, agli sprechi, alle disuguaglianze planetarie. Anche sul piano dell’economia, per l’Italia l’Expo di Milano è un momento importante, poiché concentrerà l’attenzione di milioni di persone. L’essenziale è che l’Italia sappia comunicare bene, poiché noi aziende vivremo bene se l’Italia avrà una buona reputazione. Il potenziale del made in Italy è ancora alto». Avverte la possibilità che, tra le derivate della grande vetrina chiamata Expo, vi sia anche una forte e selettiva campagna di acquisizioni di aziende italiane? «Siamo già da tempo terreno di conquista, perché l’Italia è detentrice di marchi e saperi straordinari. L’Expo può amplificare il fenomeno. Di sicuro il tema della dimensione delle imprese esiste. Vero che tante aziende medie e piccole fanno un lavoro talmente sofisticato e coltivano la loro nicchia in modo talmente maniacale come non potrebbero fare i grandi gruppi. Ma dipende dal settore. Sull’olio d’oliva, per esempio, grandi player internazionali o regioni come la Spagna ci hanno messo alle corde e recuperare è molto difficile. I francesi sotto a una sola company riescono a vendere tante cose, noi italiani per ora non ci siamo riusciti. Vale per l’abbigliamento, come per l’alimentare. Dobbiamo considerare che Armani o Prada hanno numeri eccellenti, sebbene non abbiano messo assieme gruppi paragonabili ai francesi». Barilla si candida ad essere aggregatore dell’alimentare made in Italy? «Non abbiamo questo criterio tra i nostri fattori di orientamento. Abbiamo un ampio portafoglio di marchi, diversi anche stranieri, e in questo periodo non vogliamo prenderne di nuovi. Ma non vi è nulla di rinunciatario in questo. Il nostro Piano industriale prevede il raddoppio dei ricavi. Manteniamo una costante tensione allo sviluppo. Che poi il target sia raggiunto al 2020 o nel 2022 non ci angustia perché non abbiamo la sindrome da esami trimestrali. Il vantaggio di non essere quotati in Borsa sta nella visione di lungo periodo. Dipenderà anche da un paio di acquisizioni che abbiamo in mente per il futuro. Ma vogliamo essere molto sicuri che tali acquisizioni siano del tutto sinergiche con quello che facciamo. Ci sono ipotesi di aggregazioni che non stiamo perseguendo perché non sono coerenti con le direttive che ci siamo dati in fatto di nutrizione e sostenibilità. Ci limitiamo ma siamo coerenti, vogliamo fare i passi giusti verso uno sviluppo consistente in termini di portafoglio prodotti e di espansione in nuovi mercati geografici ». Siete in grado di sostenere finanziariamente un forte processo di sviluppo anche per via di acquisizioni? «L’azienda è in buona salute e in linea con le attese del piano industriale al 2020. Il 2014 è stato un anno positivo nonostante ci siano mercati per noi importanti come l’Italia sostanzialmente fermi. Significa che siamo cresciuti su scala internazionale, anche noi siamo stati salvati dall’export. Dal punto di vista strettamente finanziario, ricordo che nell’autunno scorso abbiamo rinnovato un accordo di prestito sindacato per 700 milioni di euro finalizzato alla nostra crescita internazionale. Nel 2014 abbiamo fatto investimenti per un centinaio di milioni. Stiamo andando anche in paesi dove la cultura gastronomica e alimentare italiana è meno radicata, per esempio in Cina dove stiamo esplorando il mercato e dove non siamo ancora in grado di valutare il nostro potenziale. Del resto, se in Italia continua a perdurare la stagnazione, dobbiamo tentare altre vie e sperimentare prodotti funzionali ai mercati locali. Penso alle buone soddisfazioni avute in Sud America, ma anche alle vendite di sughi nella Vecchia Europa. Gli investimenti in nuovi impianti stanno dando i frutti attesi». State programmando ulteriori stabilimenti all’estero? «Abbiamo 30 siti produttivi per pasta, sughi e prodotti da forno, 14 dei quali dislocati in Italia, dove opera circa metà dei nostri 8.100 dipendenti. Tra gli altri, stiamo investendo 26 milioni per ampliare lo stabilimento nell’Iowa, per una linea dedicata alla pasta senza glutine. Ci sono vari paesi interessanti per nuovi impianti per noi, che stiamo valutando anche in rapporto agli incentivi che ci vengono offerti. Come nel caso dell’Iowa, dove il governatore pensa al proprio Stato come in concorrenza con quelli vicini e dunque favorisce al massimo gli investimenti industriali. Un altro mondo rispetto all’Italia ». In tema di politiche industriali, come valuta il ruolo del Fondo strategico nazionale come soggetto aggregatore nel campo dell’alimentare? «Non ho elementi sufficienti per valutare. Posso dire che veniamo spesso interpellati da agenzie di vari paesi, capaci di parlare il linguaggio delle imprese in materia di logistica, energia, fisco, formazione dei lavoratori e dunque un modello di efficienza e attrattività. Vengono e ci chiedono cosa ci serve per insediarci da loro, tant’è che ne stiamo monitorando svariati con attenzione». Qui sopra, una fase della produzione della pasta in uno stabilimento della Barilla