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 2015  marzo 17 Martedì calendario

‛WHATEVER IT TAKES’ MARIO DRAGHI SIGNORE D’EUROPA


[Note alla fine]

C’ERA UN TEMPO IN CUI LA MASSIMA ambizione di un banchiere centrale era essere noioso. Anche il maestro Alan Greenspan passava più tempo a pensare come formulare nella maniera più oscura possibile i suoi propositi che a renderli interessanti. Ma quelli erano i bei tempi in cui una Banca centrale doveva tenere sotto controllo l’inflazione, sorvegliare che gli istituti bancari non si comportassero troppo male, alla peggio gestire piccole crisi. Poi è arrivata Lehman Brothers e il mestiere di banchiere centrale ha definitivamente perso la noia e guadagnato la geopolitica.
Mario Draghi è diventato negli ultimi tre anni il vero Mister Europe che Kissinger cercava. Il suo è il numero di telefono usato nei picchi della crisi, la sua conferenza stampa mensile l’unica ascoltata da un pubblico veramente europeo e soprattutto l’unica, in un mare di parole superflue, in grado di cambiare il corso delle cose.
Da dove viene e dove sta andando? Draghi è una figura che nella sua carriera ha integrato diverse dimensioni: l’accademia, la dirigenza pubblica italiana, il settore privato, la Banca centrale nazionale, la Banca centrale europea. Il gioco tra queste identità, in cui ha sempre influito il legame tra l’Italia e il contesto internazionale, costituisce la sua biografia geopolitica.

Una formazione prusso-americana
Ich glaube Pflichterfüllung ist keine nationale Besonderheit der Deutschen. (Io credo che il compimento del dovere non sia una specialità nazionale dei tedeschi.)
Mario Draghi

Draghi ha sempre parlato molto poco della sua vita. Solo recentemente si è cominciato a sapere qualcosa di più, in particolare in un’intervista irritualmente personale concessa a Die Zeit il 15 gennaio scorso [1]. In quest’intervista con il direttore di origini italiane Giovanni di Lorenzo si trovano molti elementi della biografia geopolitica di Draghi: dall’educazione «tedesca» all’avventura americana fino ai ruggenti anni Novanta al Tesoro italiano.
Draghi perse i genitori a 15 anni. Non molto dopo, a causa dell’inflazione rampante di quegli anni e di investimenti inaccurati imposti dal giudice al tutore, perse anche la loro eredità. Così cominciò a crescere il più «tedesco degli italiani» (un titolo conteso con Mario Monti, che si autodefinì nella stessa maniera). Il padre che lavorava all’Iri e si occupava di finanziamenti a progetti energetici parlava il tedesco «quasi bene come l’italiano» e si sentiva molto vicino alla cultura germanica.
Draghi andò a scuola dai gesuiti, all’Istituto Massimiliano Massimo di Roma, per alcuni anni in compagnia di Giancarlo Magalli e Luca Cordero di Montezemolo. Era ovviamente il migliore. Mentre Magalli all’epoca già esibiva il suo lato artistico facendosi espellere per una bravata e il futuro presidente della Ferrari sopportava poco la disciplina gesuitica (Magalli dixit) [2], Draghi era obbligato a comportarsi da adulto, dovendo badare a se stesso e con il fratello e la sorella alla loro piccola famiglia.
Nel 1970 si laureò alla Sapienza sotto la guida del keynesiano Federico Caffè su «Integrazione economica e variazione dei tassi di cambio». Una tesi sul Piano Werner, il precursore della moneta unica, in cui il futuro presidente della Bce sosteneva che le condizioni per la sua attuazione allora non esistevano. Un professore e una tesi sicuramente peculiari per il Draghi privatizzatore o il Draghi banchiere centrale. Caffè, che formò anche Ignazio Visco e Ezio Tarantelli, è stato uno dei più grandi economisti e pensatori italiani del dopoguerra. Collaborava con il Messaggero e il manifesto e oggi sarebbe considerato un eterodosso, come lo sono diversi suoi allievi, attualmente docenti alla Sapienza.
Caffè sparì nel nulla il 15 aprile 1987. Draghi, pur non facendo parte della prima cerchia di allievi a lui più vicini che cercò disperatamente il professore in tutta Italia per mesi, gli è rimasto molto affezionato. In questi anni ha partecipato a numerose cerimonie dedicate alla sua memoria. Per capire la lezione di Federico Caffè al suo allievo più famoso basta rileggere quanto detto dallo stesso Draghi lo scorso novembre a Roma in occasione del centenario della nascita del professore: «Conoscenza della realtà: istituzionale, sociale, comportamentale; capacità di indignarsi per ciò che in questa realtà violava princìpi etici fondamentali, o anche la razionalità economica, quando vedeva la stupidità prona al servizio dell’avidità; perentorio richiamo ad agire e insieme rimprovero per un’accettazione passiva della realtà; cosa fare per porre rimedio alle disuguaglianze ma anche alle inefficienze: questa era la politica economica di Federico Caffè, questa è oggi la Politica economica nella sua definizione più alta».
Questa, secondo Draghi, è stata l’«ultima lezione», per riprendere il film di Fabio Rosi dedicato al professore scomparso. Idee politiche diverse, ma un approccio molto simile e un rigore intellettuale indiscutibile. Il Draghi che conosciamo ora, però, si è formato soprattutto tra il 1971 e il 1976 a Boston, al Massachusetts Institute of Technology. Ammesso in via temporanea, conquistò la fiducia e il rispetto dei suoi professori e, lavorando per finanziare gli studi, completò il dottorato sotto la supervisione di due premi Nobel, Franco Modigliani e Robert Solow, con una tesi intitolata Essays on Economic Theory and Applications. La tesi, come spesso accade in economia, è composta da tre parti relativamente indipendenti l’una dall’altra. Dopo il primo capitolo più empirico dedicato a risolvere un apparente rompicapo sul nesso tra produttività del lavoro e crescita, il secondo e il terzo, seppur teorici, mostrano già l’interesse per le policies e in particolare per la politica monetaria, con un’analisi di vari aspetti della teoria della svalutazione e uno studio sull’equilibrio tra politiche di stabilizzazione di lungo e breve periodo. Interessante e quasi premonitrice la conclusione dell’ultima parte: se si opta per un percorso di stabilizzazione di breve periodo, l’ottimo di lungo periodo non sarà mai raggiunto. Una conclusione forte per chi si è poi trovato a dover prendere numerose decisioni dall’impatto importante a partire da interessi contrastanti.
Fu soprattutto l’ambiente del Mit a influenzare Draghi. Tra i colleghi c’erano il futuro premio Nobel Paul Krugman e il futuro presidente della Fed Ben Bernanke. Tra gli insegnanti altri tre Nobel: Paul Samuelson, Peter Diamond e Bob Engle. Un milieu eccezionale, classe dirigente mondiale che ha guidato con le idee e le azioni l’economia degli ultimi decenni. E una rete di conoscenze personali che non solo hanno aiutato Draghi ma che sono state utili in questi anni in cui il mestiere di banchiere centrale è diventato molto meno noioso che in passato. Un’altra delle figure che Draghi ha incontrato al Mit è Rüdiger Dornbusch, noto a tutti come Rudi, il più americano degli economisti tedeschi. Con lui Draghi curò una monografia sui debiti pubblici (Public Debt Management: Theory and History) nel 1990. Le citazioni di Dornbusch torneranno sovente nelle interviste di Draghi da presidente della Bce, quando ha dovuto affrontare in prima linea la cosiddetta legge di Dornbusch: «La crisi ci mette molto più tempo ad arrivare di quanto pensavate, e poi si svolge molto più in fretta di quanto avreste pensato» [4].

Draghi e la grande slavina

Dopo l’insegnamento a Trento, Padova, Venezia e Firenze, intervallato dall’esperienza alla Banca mondiale, l’operato di Draghi nelle istituzioni italiane iniziò in un momento decisivo: la fine della rendita geopolitica del paese dopo la caduta del Muro di Berlino e la «grande slavina» [5] che metteva insieme crisi fiscale, crisi morale e crisi istituzionale della Repubblica. Nel nuovo contesto mondiale, osservava Nino Andreatta, «non basta più appartenere: occorre operare, dimostrare, qualificarsi con la propria presenza e il proprio peso». Pertanto, nell’immediato dopoguerra fredda, l’Italia emerse come un problema geopolitico, con accenti simili a quelli di vent’anni dopo: «C’è un “caso Italia” nella Cee, come c’è un “caso Grecia”, ma il primo preoccupa molto più del secondo. Quella greca è un’economia che si può mettere tra parentesi, in attesa che vengano tempi migliori. Con l’Italia non si può fare» [1].
Durante la seduta di laurea di Draghi, Caffè disse che la tesi esposta dall’allievo sul Piano Werner coincideva con quella di Guido Carli, allora governatore della Banca d’Italia. Draghi lo vide per la prima volta per consegnargli una copia degli scritti del padre su temi di tecnica bancaria (pubblicati grazie alla curatela della madre). Nel 1990, Draghi lo reincontrò quando si trovava alla Banca mondiale ed entrò a far parte della commissione incaricata da Carli di rivedere la legge bancaria del 1936 (tra i membri Mario Monti, al tempo già rettore della Bocconi, Guido Rossi, allora senatore, e Luigi Spaventa, ma nessun tecnico della Banca d’Italia). Dopo l’uscita di Sarcinelli nello stesso anno, Draghi fu tra i candidati alla direzione generale del Tesoro, ma non era considerato tra i favoriti perché all’inizio sembrava che dovesse prevalere una soluzione interna. Tuttavia conquistò il posto di nuovo direttore generale del Tesoro anche grazie alla segnalazione di Carlo Azeglio Ciampi all’allora ministro Carli (ma Draghi esitò per un mese e mezzo davanti alla richiesta congiunta di Carli e Ciampi). Così iniziò un rapporto professionale «breve, ma molto intenso» tra Draghi e l’ideologo del «vincolo esterno», anche per la negoziazione del Trattato di Maastricht, che sarà firmato il 7 febbraio 1992. Draghi cominciò allora a svolgere un ruolo chiave nella tessitura dei legami politici tra l’Italia e i principali paesi europei, nonché tra tecnica e politica: su indicazione di Carli, per un anno si recò dal presidente del Consiglio Andreotti a cadenze regolari, con incontri spesso bisettimanali, per relazionarlo sugli aspetti principali del negoziato e sulle partite economico-finanziarie in corso, visto che «occorreva muoversi su tanti fronti, soprattutto sul fronte previdenziale, pensionistico e della spesa corrente», mentre l’Italia viaggiava verso un rapporto deficit/pil dell’11%.
Secondo la testimonianza di Draghi, sia Carli sia Andreotti erano importanti per l’immagine esterna dell’Italia: il primo per il curriculum, la competenza e il prestigio, il secondo perché veniva considerato un leader di prim’ordine tra i democristiani europei, «al livello di Kohl» [8]. D’altra parte, era stato Andreotti a dire, alla direzione nazionale della Dc del 6 settembre 1990: «Dobbiamo scrollarci di dosso la vecchia abitudine di credere che con il debito pubblico si risolvono i problemi. Dopo decenni di questa filosofia siamo con le spalle al muro». I tecnici della Banca d’Italia e del Tesoro, nelle sfumature del negoziato di Maastricht, cercavano di prendere sul serio questa affermazione, mentre l’Italia sperimentava, senza disporre di una visione strategica complessiva, la fine della «Repubblica della guerra fredda» nei teatri internazionali, con la guerra del Golfo e le crisi jugoslava e albanese [9].
L’anno più drammatico della Repubblica Italiana, il 1992, comprese l’episodio che, a lunga distanza, ha continuato ad accompagnare la narrazione popolare su Draghi, fruttandogli perfino nel 2008 il «Tapiro d’Oro» di Striscia la notizia [10], accettato con garbo. Il «Tapiro» nacque dagli insulti di Francesco Cossiga, il quale, davanti all’ipotesi della nomina dell’allora governatore della Banca d’Italia alla presidenza del Consiglio, lo definì «un vile affarista (...) liquidatore, dopo la famosa crociera sul Britannia, dell’industria pubblica, (autore del)la svendita dell’industria pubblica italiana quando era direttore generale del Tesoro».
L’undicesima legislatura della Repubblica Italiana si aprì ufficialmente il 23 aprile 1992. Il 2 maggio, mentre i dodici paesi della Cee e i sette dell’Efta sottoscrivevano a Porto il Trattato per la creazione dello Spazio economico europeo, gli ex sindaci di Milano Tognoli e Pillitteri vennero coinvolti in Tangentopoli. A fine mese, la drammatica elezione di Scalfaro alla presidenza della Repubblica, preceduta dalla strage di Capaci [11]. In questa temperie geopolitica, il governo Amato non era ancora stato formato. Guido Carli reggeva il ministero del Tesoro. Mario Draghi guidava il «Tesoro dei quarantenni», dove Francesco Giavazzi aveva l’obiettivo di «mettere in piedi e dirigere un servizio studi di livello paragonabile a quello della Banca d’Italia». L’esperienza di Giavazzi si concluse nel 1994, con l’avvento del governo Berlusconi e la sua sostituzione con Vittorio Grilli, sotto il Tesoro di Dini. Giavazzi, tornato all’insegnamento all’Università Bocconi, parlò di una separazione consensuale e citò l’esempio americano, in cui gli economisti prestano servizio per due anni. Ma per strutturare l’influenza di Draghi nell’amministrazione pubblica la lunga permanenza al Tesoro è stata decisiva. In ogni caso, la riorganizzazione di Carli lasciò in eredità l’istituzionalizzazione del Consiglio degli esperti, tuttora operativo [12].
Nel 1992 Draghi aveva già avviato il suo lavoro al Tesoro confrontandosi con la riorganizzazione del sistema bancario e con la crisi internazionale seguita alla dissoluzione dell’Unione Sovietica. Per il 2 giugno, ricevette un invito dall’organizzazione British Invisibles. Gli «invisibili» nacquero dall’intuizione del giornalista finanziario William Malpas Clarke, noto anche per essere stato tra i primi a utilizzare il termine «eurodollaro» nel 1960. Due sue pubblicazioni, The City’s Invisible Earnings (1958) e The City in the World Economy (1965), hanno rilanciato in modo decisivo il dibattito sul ruolo internazionale della City londinese e sul contributo dei servizi finanziari (appunto, gli «invisibili») all’economia britannica. Nel 1966 venne formato il Committee on Invisible Exports, sotto gli auspici della Banca d’Inghilterra, dove Clarke divenne «direttore degli studi». Il Committee produsse il rapporto «Britain’s Invisible Earnings». Nel 1968 venne costituita l’organizzazione British Invisible Exports Council, che cambiò nome tre volte: British Invisibles, International Financial Services London, infine TheCityUK. Sotto la leadership di Clarke, gli «invisibili» riuscirono a ottenere il noleggio del panfilo della famiglia reale (oggi ormeggiato a Edimburgo come museo) per la promozione internazionale dei servizi finanziari della principale «città del denaro» in vari mercati, tra cui i paesi del Golfo e il Giappone [13]. L’invito ricevuto da Draghi, che introdusse la conferenza sulle privatizzazioni, si riferiva a uno di questi incontri. Il nome Invisibles, la controversia sul bilancio delle privatizzazioni e il successivo incarico di Draghi presso Goldman Sachs dal 28 gennaio 2002 al 2005 sono i tre elementi che hanno contribuito ad alimentare la leggenda del Britannia. Di fronte alle domande di Antonio Parlato, al tempo deputato del gruppo Msi-Destra nazionale, Draghi fornì la sua versione dei fatti già il 3 marzo 1993 alla Camera dei deputati, in un’audizione in cui mostrò le sue qualità di debater calmo e preciso. Trovando l’invito a svolgere l’introduzione della conferenza «esotico», chiese l’autorizzazione a Carli, che non sollevò obiezioni e lo incitò anzi a partecipare. «Pensando», aggiunse Draghi, «che la nave si sarebbe staccata dal molo e che per un’intera giornata di navigazione mi sarei trovato a contatto con quelli che potenzialmente sarebbero stati i miei clienti per i mandati da dare per le privatizzazioni, chiesi che la partenza della nave fosse ritardata. Così, dopo aver svolto l’introduzione me ne andai e la nave partì senza di me». Oltre a far presente che alcuni ministri del nuovo governo (Amato I) rimasero invece a bordo della nave, nell’audizione Draghi fornì la sua visione sulle agenzie di rating («giudicare la loro attendibilità risulta più che altro inutile perché le agenzie operano comunque, qualunque sia la nostra opinione su di loro») e ricordò che il suo intervento, in quanto pubblico, è stato stampato, può essere consultato e rivela la sua estrema cautela «prima che il parlamento e il governo avessero espresso le loro opinioni» [14].

Il discorso del Britannia e la lezione del Tesoro
Più invecchio, più mi accorgo che non c’è nulla che cambi come il passato.
Mario Draghi

Draghi aveva ragione: anche oggi, uno degli autori ha potuto trovare il suo intervento presso la biblioteca del dipartimento del Tesoro, non in un forziere in segrete stanze, ma tra le altre carte del dipartimento raccolte dietro il desk dei bibliotecari. Draghi iniziò il suo articolato discorso riconoscendo che si era parlato molto di privatizzazioni dell’economia italiana, ma in realtà, se non per «la promozione della vendita di alcune banche di proprietà dello Stato ad altre istituzioni criptopubbliche», non era stato fatto granché. Secondo lui, la scelta di privatizzare veramente rappresentava una straordinaria decisione politica che rivoluzionava i fondamenti dell’ordine socio-economico e i confini tra pubblico e privato per come erano stati disegnati e accettati in cinquant’anni. Perciò poteva essere presa solo da un governo con un chiaro mandato politico e con una altrettanto chiara volontà. La visione del Tesoro espressa da Draghi sottolineava quattro punti.
A) I conti pubblici. Draghi sosteneva che l’incasso delle privatizzazioni sarebbe dovuto essere usato per la riduzione del debito, non del deficit.
B) I mercati finanziari. «I mercati azionari italiani sono piccoli perché istituzionalmente tali, ma anche perché – e forse questo è legato – gli investitori italiani li hanno voluti piccoli». Le privatizzazioni allargheranno i mercati finanziari italiani, e ciò dovrà portare a una legislazione volta ad aumentare la loro efficienza.
C) Gli obiettivi della crescita e della deregolamentazione sono inevitabili all’interno della sempre maggiore integrazione europea, in particolare allo scopo di portare più concorrenza. A questo scopo si dovranno considerare «mezzi alternativi per perseguire obiettivi non di mercato», come «la riduzione della disoccupazione e lo sviluppo regionale».
D) La depoliticizzazione. Draghi, riconoscendo l’obiettivo «lodevole» di riduzione dell’interferenza politica, si preoccupava allo stesso tempo dell’interferenza privata sul management, e quindi citava l’importanza di norme per la protezione degli investitori di minoranza e della separazione tra proprietà e controllo.
Il mandato politico, a sua volta, deve rispondere a tre esigenze precise. Vale la pena di riportare le parole di Draghi nella loro interezza: «Primo, una chiara decisione politica su quello che bisogna considerare un settore strategico. Non importa quanto il concetto possa essere sfuggente, questa decisione per noi è un prerequisito per muoverci senza incertezza. Secondo, siccome non c’è una signora Thatcher in vista in Italia, un insieme di misure che considerino i possibili effetti delle privatizzazioni su: la disoccupazione, e il suo eventuale aumento per le strategie di crescita dell’efficienza; la possibile concentrazione di mercato dopo le privatizzazioni, e la discriminazione dei prezzi (un’area particolarmente importante per la privatizzazione delle Utilities pubbliche). Terzo, bisogna superare le difficoltà legislative».
Allo stesso modo, Draghi chiariva che riforme e privatizzazioni, con il mandato politico adeguato, dovevano e potevano procedere insieme. Il discorso si concludeva con la «ragione tecnica» secondo il Tesoro per cui finalmente, al di là dell’incertezza politica, il processo delle privatizzazioni si sarebbe avviato sul serio: per i mercati le privatizzazioni erano «la cartina di tornasole» degli sforzi di bilancio del governo, del rapporto del governo con i mercati stessi, della credibilità delle politiche pubbliche. La determinazione su questo punto avrebbe potuto portare la ricompensa dei mercati sui tassi d’interesse [15].
Draghi restò al Tesoro fino al 2001, confermato da tutti i governi che si sono succeduti negli anni Novanta. Come Carli e Ciampi, si faceva tagliare i capelli da Riccardo Ginestra, il leggendario barbiere di via Servio Tullio (che continuerà nei suoi servizi anche durante le presenze romane di Draghi negli incarichi successivi). Ciampi amava dire che fino all’inizio del 1993, ogni volta che si recava dal dentista, la domanda era sempre la stessa: «Ci possiamo fidare dei titoli di Stato?». Il lavoro di Mario Draghi cercava, in primo luogo, di fornire una risposta positiva a questa domanda. Nel corso del suo mandato al Tesoro, Draghi conseguì tre obiettivi.
A) La conquista della credibilità delle istituzioni pubbliche italiane, per sfatare un pregiudizio di fondo: le privatizzazioni, che generano controversie [16], dimostrano che l’Italia è in grado di passare – qualche volta – dagli annunci alla pratica. La controversia politica sulle privatizzazioni infuriava almeno dal 1990 e aveva portato Guido Carli a dire che l’Italia rischiava di essere l’ultimo paese del socialismo reale. Il cammino era appena all’inizio quando Nino Andreatta, citando Sturzo e in contrapposizione con altri settori della Democrazia cristiana, salutava l’impegno come «un audace colpo a tutta la congerie demagogica dello Stato produttore, dello Stato economico, dello Stato protettore, dello Stato assicuratore». Andreatta, pur notando la scarsa preveggenza nel breve termine di Sturzo verso uno dei suoi obiettivi preferiti (il riferimento è ai suoi insulti verso Enrico Mattei e l’Eni del suo tempo), vi ritrovava l’intuizione, provata nel lungo termine, che «la confusione dei poteri fra politica ed economia fosse altrettanto nefasta della confusione dei poteri che gli illuministi avevano identificato tra le varie funzioni dello Stato» [17]. Questo cambiamento di prospettive ha avuto un ruolo essenziale nel piano di privatizzazioni, perché la scarsa credibilità internazionale dell’Italia è stata invertita. Lo sintetizza bene Dario Scannapieco, attualmente vicepresidente della Banca europea per gli investimenti: «Viene oggi da domandarsi in quanti, nel 1990, avrebbero ritenuto realistico lo scenario realizzatosi in concreto dieci anni dopo: in quanti avrebbero creduto al risanamento e all’avvio della liquidazione dell’Iri, all’uscita dello Stato dal settore bancario e dalla gestione diretta delle telecomunicazioni, all’Eni in maggioranza in mano ad azionisti privati e all’Enel destinata alla stessa sorte? E ancora, in quanti avrebbero ritenuto realizzabile in Italia un crescente coinvolgimento del settore privato nella gestione di aeroporti, porti ed altri servizi pubblici, nonché l’effettuazione di takeover ostili che sembravano essere prerogativa dei soli mercati finanziari anglosassoni?» [18]. Nonostante il suo stile pragmatico, si può sostenere che Draghi abbia creduto idealmente nelle privatizzazioni, come dimostrano le sue successive citazioni in numerosi altri interventi, in particolare da governatore della Banca d’Italia.
B) L’innovazione nelle politiche. Si tratta dei cambiamenti, a latere delle privatizzazioni, in termini di policy complessiva del governo. In una parola: le famose «riforme». Draghi fu effettivamente un riformatore. Il primo motivo della laudatio di Marcello Messori per la laurea honoris causa concessa a Draghi dall’Università Luiss di Roma nel 2013 riprendeva proprio l’aspetto di innovazione istituzionale che ha dato origine alla cosiddetta «legge Draghi» (Testo delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, decreto legislativo 24 febbraio 1998 n. 58). La legge Draghi, studiata e attuata per modernizzare il funzionamento dei mercati finanziari, è stata poi oggetto di interventi successivi. Il suo bilancio complessivo contiene elementi di chiaroscuro, anche perché «non ha generato l’auspicata crescita dei segmenti non bancari del nostro mercato finanziario e non ha strutturalmente rafforzato gli investitori istituzionali» [19].
C) L’aspetto organizzativo. Con Draghi il Tesoro diventa una fucina di capitale umano. In questo si compie una linea che Carli aveva applicato alla Banca d’Italia e alla Confindustria (con Paolo Savona alla direzione del Servizio studi) e iniziato al Tesoro. Secondo la sintesi di Ignazio Visco, «proseguendo il lavoro avviato da Mario Sarcinelli, Draghi raccolse intorno a sé un gruppo di economisti, accrescendo l’autonomia del Tesoro nella gestione del debito pubblico come nell’analisi economica. Autonomo anche, giustamente, dalla Banca d’Italia» [20]. Si deve proprio a Sarcinelli e a Draghi l’affermazione al Tesoro di una burocrazia moderna, capace di garantire risultati sul mercato, rispetto alla tradizionale struttura della «burocrazia della cifra» in Italia. Con Mario Draghi il Tesoro si aprì ai contributi degli studiosi, in particolare nel cosiddetto «comitato Draghi», ovvero il comitato permanente di consulenza globale e di garanzia sulle privatizzazioni costituito nel 1993. La politica di reclutamento, poi, rifletteva le nuove esigenze della struttura e il suo sempre più stretto legame con le burocrazie internazionali e con le nuove competenze accademiche. Per esempio, il primo concorso nella pubblica amministrazione che aveva il dottorato di ricerca come requisito, che prevedeva un ingresso diretto al grado immediatamente inferiore alla dirigenza, è stato fatto sotto l’egida di Draghi nel 1999 [21]. Inoltre, il lavoro di Draghi non può essere letto come la sostituzione delle competenze ministeriali con gli esterni formati nei circuiti universitari del direttore generale del Tesoro, perché l’innovazione coinvolge anche la valorizzazione delle risorse interne.
Sarà questo tipo di innovazione a dare i maggiori frutti nel corso del tempo. Secondo la testimonianza di Domenico Casalino, oggi amministratore delegato di Consip, quando Draghi «decise di fare sviluppare un nuovo modello di calcolo per il fabbisogno dello Stato, cercò tra i funzionari del ministero e pescò me, scendendo di quattro livelli rispetto al suo. Ed entrò nel merito: ricordo la sua grande capacità di modellizzare i processi, lavorando personalmente con Matlab, uno dei software matematici più evoluti» [22]. Negli anni di Draghi emerse la matematica Maria Cannata, la quale, già presente nella struttura e promotrice dell’acquisto del primo personal computer del ministero nel 1985, venne valorizzata da Francesco Giavazzi, che notava come la sua unità fosse l’unica effettivamente informatizzata. Cannata dal 1996 al 1998 curò la transizione all’euro e nel 2000 venne nominata dirigente generale e capo della direzione del Debito pubblico. Fu lei a gestire giorno per giorno, negli scorsi anni, la vendita dei titoli di Stato italiani, anche nei momenti più difficili e tesi. Di modernizzazione della comunicazione sul debito pubblico è quindi un’eredità dell’èra Draghi. Nella sintesi di Scannapieco, la formula dell’èra Draghi ha messo insieme i cervelli (le professionalità interne ed esterne coinvolte), la capacità di adattamento, la correttezza verso i mercati.
Il decennio di Draghi al Tesoro fu una tappa della lunga storia del vincolo esterno, nella linea che lo lega a Carli e a Ciampi. Quelle strutture tecniche, tra Via Nazionale e il «vituperato palazzone di Via XX Settembre» (per riprendere l’espressione di Pietro Silvio Rivetta), curarono la transizione da un’Italia europea per scelta a un’Italia naturalmente europea [23]. Alla fine del decennio di Draghi, la gestione economica italiana conobbe un inedito: diventò realmente credibile per gli investitori. Ciò avvenne mentre il passaggio istituzionale della fine della guerra fredda in Italia, come ha ricordato Varsori, veniva vissuto «in maniera singolarmente simile ai paesi dell’ex blocco comunista piuttosto che ai partner dell’Europa occidentale» [24].
Dopo Draghi si apre formalmente il «decennio perduto» dell’economia italiana, che non riesce a utilizzare il cosiddetto «dividendo dell’euro» e a trovare un posto in quell’unione monetaria di cui la crisi denuderà i limiti. Ciampi passerà idealmente il testimone al suo direttore generale in occasione della nomina alla presidenza della Bce, nel ricordo della «difficile, appassionante partita per portare l’Italia nell’euro», con un affettuoso augurio: «Con lo stesso spirito che allora ci animò e ci sorresse; con intatta fiducia nel futuro di una Europa unita, ancora una volta affido il mio auspicio ai versi di Goethe: Fa’ che l’opera delle mie mani, alma sorte, io porti a fine! Non lasciare che mi stanchi! No, non sono sogni vani» [25].
Quanto il vincolo esterno è riuscito a entrare nella società e nei nostri assetti istituzionali? Quanto le nostre burocrazie sono diventate europee, in grado di fare rete? E ancora: qual è il rapporto tra il vincolo esterno e la composizione degli interessi nazionali, in una democrazia? Una nuova «grande slavina», per l’Italia e per l’Europa, renderà attuali queste domande.

Da Goldman Sachs al Financial Stability Board

Nel 2001, Draghi lasciò il Tesoro e accettò l’invito dell’Università di Harvard, Institute of Politics, che annunciò la sua presenza per ottobre e novembre [26]. Nel 2002, accettò l’offerta di Goldman Sachs e diventò managing director e vicepresidente di Goldman Sachs International. La banca d’affari informava che Draghi, basato a Londra, avrebbe lavorato con il management in Europa e a New York sulla strategia europea e sull’espansione del giro d’affari globale. In particolare, aiutò Goldman nei rapporti con le principali imprese europee, con i governi e con le agenzie governative a livello globale [27]. Degli anni di Draghi a Goldman Sachs, in cui peraltro continuava la sua attività di ricerca, non vi sono molte tracce. È la sua job description a destare le perplessità che emergeranno con la crisi del debito sovrano nel 2010. L’ex capo economista del Fondo monetario internazionale, Simon Johnson, notando che il lavoro a Goldman Sachs era ormai diventato un «asset tossico», chiese a Draghi del suo coinvolgimento nelle operazioni finanziarie organizzate dalla banca d’affari con la Grecia in occasione dell’ingresso nell’Unione Europea. Considerando che era già partita la corsa alla presidenza della Banca centrale europea, la Banca d’Italia negò ogni coinvolgimento di Draghi [28]. La questione ritornò, infine, nelle audizioni al Parlamento europeo per la sua conferma, nel giugno 2011. Draghi affermò di essere totalmente estraneo alla questione e aggiunse che, «sebbene Goldman Sachs si aspettasse che lavorassi con il settore pubblico, non avevo né interesse né voglia di farlo» [29].
Draghi venne nominato governatore della Banca d’Italia il 29 dicembre 2005, dopo lo scandalo Fazio. Di necessità di fare pulizia lo proiettò ancora una volta alla testa di un’istituzione che ha sempre fatto della carriera interna la regola d’oro. Draghi non deluse. L’aspetto organizzativo fu, ancora una volta, uno dei segni principali dell’operato di Draghi, che innovava anche nelle piccole cose: i ricercatori del cosiddetto Servizio studi, tra i migliori in Italia, venivano assunti per concorso, una pratica sempre meno appetibile, soprattutto per gli studenti stranieri. Adattandosi alle migliori pratiche internazionali, e approfondendo i metodi di reclutamento già sperimentati al Tesoro, dal 2008 Draghi mandò i propri funzionari ad assumere le nuove reclute direttamente sul job market americano, una sorta di «fiera» del reclutamento che si tiene ogni anno a inizio gennaio in occasione dell’incontro annuale della American Economic Association. Lì si trovano i ricercatori più bravi che con un concorso pubblico di stile ottocentesco non sarebbe possibile attirare. Per quanto sia incredibile, fu solo con Draghi, nel 2006, che Internet arrivò sui computer dei dipendenti. Prima i ricercatori dovevano usufruire di un computer comune per scaricare dati e informazioni da usare poi sui computer individuali con accesso solamente alla rete interna.
Draghi in Banca d’Italia però non fu solo modernizzazione e rinnovamento. Fu anche la storia di alcune occasioni sprecate (anche se si trattava di lasciti storici ben precedenti il 2005). In particolare il sistema italiano arrivò alla crisi finanziaria fiero del suo «piccolo è bello», «italiano è bello». Effettivamente le banche italiane reggevano abbastanza bene l’urto americano perché salvo Unicredit, che infatti fu il gruppo a soffrire di più all’inizio della crisi, l’esposizione fuori dai confini nazionali era molto limitata se non inesistente e il livello di «tecnologia finanziaria» altrettanto limitato. Parole come Cdo, Cds, forwards, futures (tutte forme di derivati finanziari) erano sconosciute in un sistema bancario che in media parlava soprattutto il dialetto regionale. «Il sistema bancario italiano ha finora retto bene alla crisi», scriveva Alberto Quadrio Curzio nel 2011 [30].
I risultati degli stress test compiuti sotto la supervisione dello stesso Draghi da Francoforte lo scorso ottobre hanno però dimostrato che il sistema italiano non era per nulla l’isola felice che si credeva. Numericamente l’Italia è il paese che ne è uscito peggio (nove banche a fine 2013, due a ottobre 2014 non hanno passato gli stress test). Colpa di un sistema fondato troppo sulla politica (spesso locale) e poco sul mercato, cambiato per ragioni di mercato già prima del giudizio della Bce (si consideri la dinamica della diluizione delle quote delle fondazioni in Monte dei Paschi di Siena e in Banca Carige, le due banche che non hanno passato gli stress test). Banche che giocavano sulle grandi piazze finanziarie internazionali ma che venivano gestite come pro loco di paese. Nonostante lo scandalo Fiorani, causa scatenante dell’ascesa di Draghi, i cambiamenti non sono stati sufficienti. Da questa partita l’immagine della Banca d’Italia come supervisore inflessibile è uscita appannata. Ma Draghi da Francoforte, nonostante portasse direttamente o indirettamente delle responsabilità per il ruolo avuto nella vicenda, non ha certo indorato la pillola.
Un ruolo geopolitico importante Draghi lo ebbe con la nomina nel 2006 a capo del Financial Stability Forum. Questo gruppo informale di ministri delle Finanze e banchieri centrali delle economie più sviluppate nacque nel 1999 insieme al G20 dei ministri delle Finanze. Per otto anni circa questo organismo rimase nell’ombra. Tutto andava bene, l’economia cresceva e la finanza era in preda a una più che «irrazionale esuberanza». Con il fallimento della Lehman Brothers e la crisi globale però il G20 assunse improvvisamente un ruolo chiave di coordinamento economico mondiale. Il Financial Stability Forum, presto trasformato in Financial Stability Board, si affermò come sala di comando dei banchieri centrali di tutto il mondo. Da lì Draghi, con i suoi colleghi, governò la risposta alla crisi e la nuova regolazione finanziaria. Pur relativamente giovane in termini di esperienza rispetto a tanti suoi colleghi, fu un vero leader carismatico. Tutti i pilastri su cui si erano retti i banchieri centrali negli anni precedenti erano venuti a mancare, servivano risposte rapide ed efficaci in particolare per regolare il sistema bancario tradizionale e quello ombra (fondi speculativi, fondi del mercato monetario e veicoli di investimento strutturato) e occorreva limitare l’uso degli strumenti che avevano portato alla crisi. Per arrivare a questo Draghi portò avanti un intenso lavoro diplomatico e geopolitico per coinvolgere tutti i paesi del mondo, in particolare la Cina, decisamente restia a farsi coinvolgere nella gestione di una crisi che non la riguardava, di cui non aveva responsabilità. Fu un successo. Ancora oggi tra i pochi passi concreti che il G20 può vantare da quando nel 2009 fu portato a livello di capi di Stato e di governo vanno annoverate le regole scritte da Draghi al Financial Stability Board.

‘Un candidato improbabile’

Il ruolo di capo del Fsb mise Draghi in pole position per succedere a Jean-Claude Trichet come presidente della Bce. Era il candidato naturale, ma «improbabile» per Die Zeit. Dopo il francese Trichet, la geopolitica europea prevedeva infatti il tedesco Weber. Nonostante la sede a Francoforte, a pochi metri dalla Bundesbank, la Germania non ne ha mai occupato il vertice. Troppa la paura, soprattutto dei francesi, che l’euro diventasse solo il nuovo nome del potente marco. Ma la crisi finanziaria aveva messo in luce tutte le debolezze della costruzione europea e la finanza allegra di molti Stati periferici. La Germania, uscita da oltre dieci anni di fatiche post-riunificazione, poteva finalmente ambire senza vergogna alla presidenza della Bce. C’erano in palio decisioni difficili, che mettevano in gioco la sopravvivenza dell’euro, ma soprattutto (secondo i tedeschi) le virtù teutoniche e i vizi mediterranei. Assolutamente improbabile che si potesse dare una carica così scottante a un rappresentante di uno dei peggiori studenti dell’Eurozona. Piuttosto discutibile per un ruolo così elevato sembrava peraltro anche il curriculum di Axel Weber. Da una parte Draghi, che aveva studiato e lavorato con alcuni dei più grandi economisti al mondo e governato con sapienza le crisi italiane e internazionali. Dall’altra un professore che, a parte alcuni mesi, non aveva mai messo piede fuori dalla Germania. A conferma che la geopolitica è importante, ma non onnipotente, Weber, sempre più sotto pressione per le decisioni della Bce di Trichet e per le attese nei suoi confronti, si dimise dalla Bundesbank con un atto clamoroso, rimuovendo anche l’ultimo ostacolo alla nomina di Draghi.
Nell’anno della nomina alla Bce, possiamo ricordare due interventi pubblici di Draghi particolarmente significativi, proprio mentre tornava in evidenza la drammatica centralità geopolitica dell’Italia che aveva segnato l’inizio dell’esperienza del Draghi civil servant, vent’anni prima. Nella crisi del debito europeo, le conseguenze del «potere di detonazione» del nostro paese apparivano ancora più profonde per la politica europea e per un’economia mondiale che non aveva ancora recuperato il motore anglosassone.
Il primo intervento è la Enzo Grilli Memorial Lecture. Alla Johns Hopkins University di Bologna, il 21 febbraio 2011, Draghi ricordò l’amico scomparso. Grilli, oltre all’insegnamento e alla ricerca, fu particolarmente impegnato nelle istituzioni internazionali (Banca mondiale, Fondo monetario internazionale, Ocse, Unctad). Ma ricoprì anche un ruolo importante in Italia: quello di segretario generale alla Programmazione tra il 1980 e il 1984, con La Malfa al Bilancio, per costituire un nucleo tecnico col compito di «aumentare l’efficacia e l’efficienza della spesa pubblica, poiché si capiva che le risorse da destinare agli investimenti sarebbero state sempre più scarse», con un inedito (per l’Italia) metodo di valutazione sui progetti. L’esperimento fallì, perché il Cipe (titolare della decisione politica) decise di ripescare progetti scartati, giudicati dai tecnici inefficienti, inefficaci o di natura clientelare. Grilli tornò a Washington. Nel 1992 si dichiarò disposto a rientrare in Italia, «ma per operare e non per combattere contro i dinosauri» [31]. Nel suo intervento, Draghi ricordò l’eclettismo di Grilli, ma anche la sua capacità di resistenza alle pressioni politiche, che aumentò la sua reputazione. Pier Carlo Padoan ha scritto che Grilli provava per l’Italia «amarezza» e «disillusione» e che, davanti al caso italiano, «gli si rafforzava la convinzione che non ci possano essere crescita, sviluppo e stabilità sociale senza istituzioni forti» [32].
Il secondo intervento è l’ultimo discorso da governatore della Banca d’Italia, il 12 ottobre 2011, a poche settimane dall’inizio formale del mandato da presidente della Bce il 1° novembre 2011. Qui emerge il Draghi più politico, nell’illustrazione dell’ampia ricerca sui 150 anni dell’economia italiana curata da Gianni Toniolo. Draghi ricorda che anche nella «prima globalizzazione» per l’Italia si poneva la questione del rapporto tra gli interessi nazionali e una sorta di concerto europeo, prima della fine di quella cultura con la «guerra civile europea» (Keynes). L’integrazione internazionale aiutò un paese allo stremo a diventare una potenza industriale. Adesso rafforzare il ruolo dell’Italia in Europa vuol dire rilanciare la crescita, ma le riforme necessarie (in materia di giustizia civile, formazione, concorrenza, infrastrutture, mercato del lavoro, protezione sociale) si sono scontrate «con difficoltà apparentemente insormontabili». È il circolo vizioso del declino, spiegato al meglio da Carlo Cipolla: nel ristagno dell’economia si formano forti coalizioni dotate di poteri di veto, che contrastano le spinte innovative. Secondo Draghi, spetta alla politica spezzare questo circolo. Ma Draghi, in partenza per Francoforte, ha un messaggio per gli italiani: «È importante che tutti ci convinciamo che la salvezza e il rilancio dell’economia italiana possono venire solo dagli italiani. Una nostra tentazione atavica, ricordata da Alessandro Manzoni, è di attendere che un esercito d’oltralpe risolva i nostri problemi. Come in altri momenti della nostra storia, oggi non è così. È importante che tutti i cittadini ne siano consapevoli. Sarebbe una tragica illusione pensare che interventi risolutori possano giungere da fuori. Spettano a noi» [33].
Secondo Draghi, la responsabilità italiana si fonda su due ragioni: la prima è che risanare le finanze pubbliche e rilanciare la crescita è un problema che va risolto per «un dovere verso i giovani e verso noi stessi»; la seconda che solo con la responsabilità nazionale si può andare avanti nella cooperazione europea.
Con quelle parole Draghi rispondeva indirettamente alla lettera che aveva acceso l’estate italiana, scritta da Jean-Claude Trichet e da lui stesso. La lettera, firmata in qualità di governatore della Banca d’Italia, era di fatto la prima mossa di Draghi sullo scacchiere europeo. Il messaggio era curato ma durissimo: «Il Consiglio direttivo ritiene che l’Italia debba con urgenza rafforzare la reputazione della sua firma sovrana e il suo impegno alla sostenibilità di bilancio e alle riforme strutturali».
Era l’agosto 2011, gli spreads volavano, il governo Berlusconi non sembrava in grado di reagire: l’incapacità di intervenire seriamente in materia di pensioni, anche per le discussioni con la Lega, ne era il segnale più netto. La classe politica si dimostrava perfino più indietro della classe amministrativa, se consideriamo che Andrea Monorchio, il ragioniere generale dello Stato per antonomasia, aveva manifestato la necessità di agire con prontezza su questo fronte già nel 2002 [34]. La lettera fu sia l’ennesima prova della necessità di un vincolo esterno per agire (infatti fu prontamente inoltrata alla stampa) sia il primo atto del presunto commissariamento europeo del nostro paese (anche perché l’urgenza delle riforme da adottare venne evidenziata attraverso il consiglio del decreto legge). Per Draghi fu certamente anche un test di «prussianità» per mostrare la propria adeguatezza e indipendenza alla Bce.
Alexander Hamilton e i riluttanti: Draghi alla Bce

I have thought il my duty to exhibit things as they are, not as they ought lo be.
Alexander Hamilton

The market should not doubt Mario, he’s been able to pull this through.
Larry Fink

Henry Adams lo descrisse come il momento più drammatico dei primi anni della politica dell’Unione. L’11 giugno 1804 i duellanti dissero all’unisono «Presente!» e alzarono le loro pistole. Dopo gli spari, Alexander Hamilton cadde a terra dicendo «Sono un uomo morto». Così, per mano del suo rivale a New York, l’allora vicepresidente Aaron Burr, si concluse la vita del padre fondatore della nazione di immigrati, nato nelle Indie Occidentali. Poche ore prima, Hamilton – che dopo essere stato l’aiutante di campo di George Washington, servì come primo segretario al Tesoro degli Stati Uniti, ma anche come maggiore generale dell’Esercito – aveva scritto la sua ultima, breve lettera a Theodore Sedgwick. Non faceva menzione del duello, ma sottolineava una parola: democrazia. Hamilton la definiva «la nostra vera malattia». Egli rimase per tutta la vita un democratico scettico: mai idealista, mai prono a rappresentazioni arcadiche degli Stati Uniti (come la democrazia agraria di Jefferson, il suo più grande avversario). «Di tutti i fondatori, Hamilton era forse quello che aveva i maggiori dubbi sulla saggezza delle masse e voleva che i leader eletti le guidassero. Questo fu il grande paradosso della sua carriera: la sua visione ottimista del potenziale degli Stati Uniti coincideva con una visione essenzialmente pessimista della natura umana. La sua fede negli americani non ha mai raggiunto la sua fede nell’America» [35].
Hamilton aveva dedicato la sua vita a rendere l’America un forte Stato moderno, dotato di una Banca centrale, di una rete creditizia, di un sistema di tassazione. Collocò i nascenti Stati Uniti d’America nel futuro dell’economia, creando un’infrastruttura in grado di corrispondere ai principali cambiamenti della sua epoca (la rivoluzione industriale, l’ampliamento del commercio internazionale, la crescita dell’attività bancaria e dei mercati azionari), pur partendo da un governo federale che nel 1789 era in bancarotta. Nella formazione di Hamilton c’era una consapevolezza eminentemente politica delle finanze pubbliche. Durante la guerra di indipendenza, Hamilton sostenne che l’obiettivo sarebbe stato raggiunto non vincendo qualche battaglia, ma riportando l’ordine nelle finanze degli Stati. Come da principale autore dei Federalist Papers si ispirava alla storia classica, così da segretario al Tesoro leggeva politicamente la storia recente: la rivoluzione francese e la ribellione di Shays insegnavano che «la stabilità e la sostenibilità del debito e delle finanze pubbliche erano cruciali per riconciliare la stabilità politica con lo sviluppo finanziario» [36]. Hamilton sapeva che «il vero segreto per rendere il credito pubblico immortale è che la creazione di debito deve essere sempre accompagnata con gli strumenti della sua estinzione» (A. Hamilton, First Report on Public Credit, 1790).
Nella sua Nobel Lecture del 2011, Thomas Sargent ha ripreso l’esperienza di Hamilton e degli Stati Uniti dell’epoca, identificando le analogie e le differenze con le problematiche affrontate oggi dall’Unione Europea. Ha ricordato che Hamilton, per migliorare le aspettative dei creditori, usò con determinazione l’unico strumento concreto di cui disponeva: la creazione di un’unione fiscale con un allineamento di istituzioni e di interessi in grado di aumentare la reale probabilità di pagamento da parte del governo federale. Negli Stati Uniti di Hamilton, il passaggio dell’unione fiscale giunse prima rispetto all’unione monetaria. Sia Sargent sia Gaspar sottolineano una differenza cruciale: il debito che Hamilton si trovava ad affrontare era principalmente debito federale accumulato durante la guerra di indipendenza; il debito europeo, invece, è principalmente debito degli Stati accumulato attraverso le loro politiche fiscali e finanziarie. Vi è quindi una naturale differenza sul senso di solidarietà di tale debito. Un’analogia tra la situazione americana e quella europea concerne invece la necessità di agire tempestivamente durante le crisi. Nel primo caso, ad agire tempestivamente fu il delegato della Confederazione di New York, scettico sulla democrazia e convinto che un’«aristocrazia del merito» debba utilizzare la fiducia pubblica per agire con coraggio nei processi di State building. Nel secondo caso, ad agire tempestivamente non è stato nessuno statista eletto. La prima guerra di interdipendenza dell’Europa [37] ha fatto emergere soltanto il nuovo inquilino dell’Eurotower, Mario Draghi.
Draghi arriva alla Bce al picco della crisi, il 1° novembre 2011. L’euro è davvero sull’orlo del baratro. Tre giorni dopo a Cannes si tiene il G20 sotto presidenza francese. All’ordine del giorno la regolazione finanziaria, le materie prime, il lavoro e la corruzione, ma l’intera agenda è sconvolta dalla decisione unilaterale della Grecia di fare un referendum sul piano di aiuti con annesse misure di austerità concordato con Bruxelles. L’altro dossier scottante è l’Italia. Draghi è assente giustificato al G20 che con una sola mossa fa fuori Papandreou e Berlusconi [38]. Si trova a Francoforte per mettere il suo marchio, prendendo una decisione forte già nel corso del primo direttivo: la riduzione dei tassi di interesse dallo 0,5% al 0,25% dopo l’aumento (sconsiderato) voluto da Trichet il 7 luglio 2011.
Alla Bce Draghi è accolto con rispetto. Ma certo non sono molti gli amici in un’istituzione europea in terra tedesca, di filosofia tedesca, piena di funzionari tedeschi. Due sono gli alleati su cui può contare nel board della Bce: Benoît Cœuré, francese nominato al posto di Bini Smaghi, per formazione e geografia vicino alle posizioni di Draghi; Jörg Asmussen, il meno tedesco dei tedeschi, un politico formatosi insieme a Weber e a Weidmann, l’attuale capo della Bundesbank, ma con un master in Bocconi e una visione meno ordoliberista. Sempre lo stesso Asmussen che, divenuto sottosegretario al Lavoro nel governo Merkel III, viene segnalato come mediatore tra i tedeschi e Syriza durante la campagna elettorale che porterà al governo Tspiras [39].
Ma nemmeno questi amici che spesso hanno aiutato Draghi nei passaggi più delicati erano informati dell’atto più dirompente della sua presidenza. Tre parole, solo tre parole, pronunciate a Londra il 26 luglio 2012, che hanno cambiato il corso della crisi: «Whatever it take», «a qualunque costo» la Bce avrebbe salvato l’euro. «Entro il nostro mandato, la Bce è pronta a fare ogni cosa necessaria per mantenere l’euro. E credetemi, sarà abbastanza» [40].
Come si arrivò a quelle tre parole? Una storia completa della vicenda ancora non è stata scritta ma più fonti sembrano confermare che fu un’iniziativa personale di Draghi. Nel testo scritto quella formula non c’era (lo stesso è avvenuto nell’agosto 2014 con il discorso a Jackson Hole, il ritrovo annuale dei banchieri centrali di tutto il mondo in cui Draghi per la prima volta in maniera esplicita ha riconosciuto la necessità di politiche per stimolare la domanda e non solo di riforme strutturali).
Finora la ricostruzione pili autorevole l’ha fatta l’ex segretario al Tesoro americano Tim Geithner, colorita dagli appunti che sono serviti alla redazione del libro sulla salvezza dell’euro pubblicato dal Financial Times [41]. Draghi era a Londra a incontrare hedge funds e banchieri ed era sempre più preoccupato e innervosito dalle continue insinuazioni sulla fine dell’euro. Così quando salì sul palco disse tre parole tra l’ovvio e il rivoluzionario: a qualunque costo. «Totalmente improvvisato. (...) Sono andato a incontrare Draghi e Draghi, in quel momento, non aveva nessun piano». Martin Wolf ha scritto con chiarezza che «l’affermazione di Draghi era un bluff, ma di straordinario successo», paventando «una sorta di guerra civile» nel caso il presidente della Bce si volesse attribuire di fatto un mandato illimitato [42]. Se non fosse irrispettoso, potremmo definirla la più grande (ed efficace) supercazzola mai pronunciata da un banchiere centrale. Per mesi l’Outright Monetary Transactions, un piano di acquisto di titoli sul mercato secondario che rappresenta l’attuazione pratica del «whatever it takes», è rimasto una sorta di scatola vuota. Solo mesi dopo i giornalisti hanno cominciato a chiedere delucidazioni sul funzionamento esatto del piano e sulle sue basi giuridiche. Le risposte sono sempre state vaghe ed evasive. Il piano è pronto, ma nessuno lo ha mai usato. Solo la sua presenza è bastata a renderlo non necessario. La sublimazione stessa del lavoro del banchiere centrale, uno dei pochi ambiti professionali in cui le parole contano più dei fatti (a patto di essere credibili, ovviamente). «Il «whatever it take» non fu tanto un capolavoro di politica monetaria, ma un capolavoro di politica tout court. Nessuno speculatore si azzarda a scommettere contro un banchiere centrale determinato a stampare moneta», ha scritto Luigi Zingales [43].
Dopo il «whatever it takes» gli spread cominciano per la prima volta a scendere significativamente. La frase di Draghi ha salvato l’euro ma da solo non è bastata. Oltre a una reazione anemica da parte della politica un’altra malattia, conseguenza di anni di sfiducia, ha cominciato a farsi largo in Europa: la deflazione.
I prezzi scendono, gli acquisti vengono rinviati, la crescita rallenta ulteriormente. La Banca centrale è arrivata allo zero lower bound, cioè a un tasso praticamente nullo; intanto i debiti si fanno sempre più insostenibili. Un circolo vizioso difficile da controllare. L’incubo è la sindrome giapponese: vent’anni di deflazione, crescita quasi zero, un debito al 240% da cui il Giappone nonostante la cura Abe non è ancora uscito. La deflazione ha rosicchiato tutti i guadagni ottenuti negli ultimi tre anni. Luigi Zingales ha fatto due conti: «Quando lo spread era a 518 punti, il rendimento dei titoli decennali italiani era al 6,50%, con un’inflazione che allora in Italia era del 3,1%: significava un interesse reale del 3,4%. Oggi che lo spread è a 156, il rendimento del decennale italiano è 2,70%. Ma l’inflazione in Italia è solo allo 0,3%. Quindi il tasso di interesse reale è sceso, ma non è sceso di 380 punti base, bensì solo di 100. Ma anche questa stima è troppo ottimista. Quando il tasso di mercato su nuovi titoli era al 6,50%, il tasso medio era molto più basso, intorno al 4,1%, con un interesse reale di solo l’l%. Per contro, oggi anche se il tasso a cui il nuovo debito viene contratto è solo del 2,70%, il tasso medio è ancora intorno al 3,9%, che implica un tasso di interesse reale del 3,6%. Nonostante il famoso «whatever it takes», il costo reale dell’indebitamento pubblico è aumentato invece di diminuire».
Ancora una volta, l’unico in Europa che ha un bazooka è Draghi. Il 22 gennaio 2015 arriva il terzo atto chiave della sua presidenza alla Bce: il quantitative easing o Qe, un piano di acquisto di titoli pubblici da 60 miliardi al mese fino a un massimo del 33% del debito pubblico di ogni paese. Un programma gigantesco, il 10% del pil europeo, ma stretto tra i vincoli politici (solo il 20% sarà garantito a livello centrale, il resto cadrà sulle spalle della Banca centrale nazionale in caso di default) e il ritardo sulla tabella di marcia (il primo Qe la Fed lo fece nel 2008). Un passo comunque storico, ancora una volta sotto il segno di Draghi.
Se l’Europa e soprattutto l’euro sono ancora in piedi lo devono soprattutto a Draghi. Le sue parole e le sue azioni hanno contato come macigni in una crisi economica e di fiducia. Ma che Europa ha in mente Draghi? Quella che traspare dai suoi discorsi pubblici, quindi per forza pragmatici e moderati, è un’Europa molto tedesca. Nel 2011, Draghi si è rivolto al principio più caro ai tedeschi (l’economia sociale di mercato) nelle lezioni Ludwig Erhard, su invito di Hans Tietmeyer, rivendicando l’attualità del comandamento della stabilità dei prezzi: «L’economia sociale di mercato non è possibile senza una politica coerente di stabilità dei prezzi». Draghi intraprende un’azione da lui stesso definita «inusuale»: davanti alle polemiche in Germania sul suo piano, viene organizzato un incontro ufficiale con il Bundestag sulle politiche della Banca centrale europea (la cui accountability è tradizionalmente rivolta al Parlamento europeo): il 24 ottobre 2012 il presidente della Bce difende le sue politiche e si confronta con i parlamentari tedeschi a partire da tre pilastri (l’immutabilità dell’attenzione alla stabilità dei prezzi, l’azione limitata al mandato, l’indipendenza) [44]. Nel 2013, in occasione del saluto a Stanley Fischer per la fine del suo mandato da governatore della Banca centrale israeliana, Draghi ripete «che la costituzione monetaria della Bce è basata con nettezza sui princìpi dell’ordoliberismo» [45]. Se vogliamo abbandonare il tema intellettuale dell’ordoliberismo (il cui uso, come ha notato Kundnani, è spesso strumentale [46]) e affrontare l’opinione pubblica tedesca, il termometro ideale – come suggerisce l’Economist – sono le copertine della Bild (tre milioni di copie al giorno per circa dodici milioni di lettori). Nel febbraio 2011, davanti alla possibilità che Draghi fosse nominato alla Bce, il tabloid titolava «Mamma mia», scrivendo accanto alla sua foto: «Per favore non questo italiano. Per gli italiani l’inflazione nella vita è come la salsa di pomodoro sulla pasta». Due mesi dopo, a nomina assicurata, giravolta clamorosa della Bild, che lo definiva piuttosto tedesco nonostante le sue origini e soprattutto streng, bodenständig, zielstrebig, treu, kantig («severo, con i piedi per terra, determinato, fedele e quadrato»), accompagnando l’articolo con un fotomontaggio di Draghi con una Pickelhaube (elmetto prussiano a punta). Nel marzo 2012 l’incoronazione: Draghi riceve una vera e propria Pickelhaube del 1871 dalle mani del direttore del tabloid.
Dopo il whatever it takes dell’agosto 2012, la musica cambia nuovamente: «Draghi dà un assegno in bianco agli Stati indebitati» e la Bild minaccia di chiedere indietro l’elmetto. Con il quantitative easing la Bild vede solo un rischio di svalutazione, sfortuna e declino, mentre con quei soldi si sarebbero potuti comprare 380 miliardi di boccali di birra.
Per il Draghi «tedesco, l’idea che il problema dell’euro derivi dal fatto che si è fatta l’unione monetaria senza l’unione politica «è un equivoco» [47]. Infatti, «se l’unione monetaria europea ha dimostrato maggiore tenuta di quanto ritenessero molti è soltanto perché coloro che nutrivano dubbi al riguardo hanno giudicato erroneamente questa dimensione politica. Hanno sottovalutato quanto i suoi membri fossero legati, quanto avessero investito collettivamente e quanto fossero disposti a risolvere insieme problemi comuni nei momenti di maggiore necessità» [48]. Quindi che cosa significa «completare» un’unione monetaria? «Significa principalmente creare i presupposti affinché i paesi, entrandone a far parte, raggiungano una maggiore stabilità e prosperità»49. Con quali passaggi? «Bisogna creare le condizioni affinché tutti i paesi possano prosperare in modo indipendente. Tutti i membri devono essere in grado di sfruttare i vantaggi comparati all’interno del mercato unico, attrarre capitale e generare posti di lavoro. Devono inoltre essere sufficientemente flessibili da reagire con rapidità agli shock a breve termine. In definitiva, occorrono riforme strutturali che stimolino la concorrenza, riducano il carico superfluo della burocrazia e rendano i mercati del lavoro più adattabili».
Altro che bilancio europeo, fiscal capacity o sussidio europeo di disoccupazione. Per Draghi più Europa significa più potere di controllo e intervento, ma non nuovi strumenti, a partire da una capacità fiscale. Una posizione comprensibile in qualità di presidente della Bce, obbligato a un delicato equilibrio, ma certo non coraggiosa come quella di Hamilton.
Dopotutto Draghi è «solo» un banchiere centrale e nel suo ambito fa pragmaticamente il possibile. Prendiamo l’accordo sull’unione bancaria. Formalmente si tratta di una decisione dei ministri delle Finanze europei, ma il lavoro porta l’impronta di Francoforte, che conquista poteri fino a quel momento riservati alle banche centrali nazionali. Come spesso accade negli accordi europei è un compromesso sotto le aspettative, in particolare per la mancanza di quel vero salto federale (i fondi per coprire eventuali perdite rimangono in capo ai singoli Stati) per fare dell’Eurozona un’area monetaria vera e solidale e non una somma di Stati che alla fine dei conti rimangono responsabili in solido e quindi esposti da soli alle tempeste economiche e finanziarie.
Il Signor Altrove

Fin dai tempi del Tesoro, Draghi veniva chiamato Mr. Somewhere Else, il Signor Altrove. Aveva troppe cose da fare e in tanti non riuscivano a trovarlo. Anche la sua storia, nell’Europa della crisi, è quella della continua ricerca di un «altrove».
Nelle indiscrezioni d’inizio 2015 si parla di un «altrove» in cui spedire lo stesso Draghi: l’Italia che non è stata salvata dal vincolo esterno, un’Italia rimpicciolita rispetto alla statura internazionale che Draghi ha acquisito ma che, quando non partecipa ad attività e decisioni europee che ci riguardano, autolimita la propria sovranità. La ricerca dell’altrove italiano di Draghi rimarca la verità colta da Marcello De Cecco: «I banchieri centrali sono diventati europei, molti altri funzionari, imprenditori o semplici cittadini, lo sono ancora molto meno» [50].
L’altro «altrove» è il ruolo politico della Banca centrale europea, le critiche al suo mandato sacro e zoppo. Anche qui la situazione europea incontra gli Stati Uniti, ma in un ciclo politico generale che oscilla tra vari gradi di accettazione dell’indipendenza delle banche centrali. L’ha ricordato Harold James: «A seguito della crisi economica, aumenta la critica politica alle banche centrali. Negli Stati Uniti, si riprende il dibattito che rimanda al XIX secolo e alla campagna di Andrew Jackson contro la seconda banca degli Stati Uniti; in Europa, le preoccupazioni sulla governance e sul supposto deficit democratico della Bce, molto frequenti negli anni Novanta, ritornano con forza» [51].
Cosa è il mandato, quando una moneta è davanti al suo estremo «altrove» (la disintegrazione)? E quando lo è una società? Negli anni Settanta, il giovane economista Draghi, che come professore a Padova aveva avuto qualche difficoltà per le cosiddette «ronde di Toni Negri», chiese a Paolo Baffi come mai sopportasse un’inflazione che toccava punte del 20-21%, perseguendo la stabilizzazione del tasso reale invece di quello nominale. Baffi rispose: «Bene, bene, tu sei giovane ma qui noi abbiamo le Brigate rosse» [52]. Cosa sarebbe stata la Bce se fosse stato nominato Axel Weber e se l’unlikely candidate fosse rimasto a Via Nazionale? Impossibile dirlo, ma sicuramente sarebbe stato diverso. Ha fatto tutto il possibile? No, perché forti sono stati i vincoli politici che neanche il più tedesco degli italiani è riuscito a superare. Però ha fatto più di tutte le altre istituzioni. E questo è il paradosso di un’Europa in cui è mancata soprattutto la politica fiscale, non tanto quella monetaria. Draghi riprende Tommaso Padoa-Schioppa: «La gestione responsabile della moneta è essenziale, ma da sola non basta a curare tutti i mali di un’economia con la finanza pubblica in disordine; la scelta per la stabilità appartiene alla società nel suo complesso, non alla sola Banca centrale. (...) Oggi, come negli anni Ottanta, la politica monetaria non può essere considerata un rimedio alla irresponsabilità di altre politiche» [53].
Il banchiere centrale che Draghi disegna alla fine è «solo» un fonico, che aspira a essere noioso e che controlla dal fondo della sala che tutto fili liscio. Sul palco i musicisti sono altri. Sul palco europeo però si è trovata solo una leader riluttante: Angela Merkel, che ha governato con più ansia per i risultati delle varie elezioni regionali che avendo in mente una soluzione di lungo periodo. In questo vuoto, ci siamo ritrovati a sperare che Draghi fosse l’Hamilton europeo: non l’amato autore della Dichiarazione d’indipendenza (di dichiarazioni messianiche in Europa ne abbiamo viste fin troppe), ma il costruttore di istituzioni economiche comuni. La verità è che Draghi non poteva né può esserlo. È un compito improprio, ma soprattutto impossibile senza un sovrano di riferimento. Super Mario ha molti poteri, ma la politica non può delegargli tutto. Così Draghi dall’Eurotower può osservare il paradosso di Hamilton: per i costruttori dell’Europa di ieri e di oggi, la fede negli europei non ha mai raggiunto la loro inossidabile fede nell’Europa. Gli europei sono i «Signori Altrove». Ma non ci sarà un duello in cui Draghi risolverà la questione né un magico «Fermati! Sei così bello!» da pronunciare, per riprendere il Goethe caro a Carli e a Ciampi. Spetta agli europei costruire, distruggere, ripensare lo spazio politico in cui abitano.*


Note:
1. «Interview mit Mario Draghi, Präsident der EZB», die Zeit, 15/1/2015, www.ecb.europa.eu/press/inter/date/2015/html/sp150115.de.html
2. P. CONTI, «I compagni di classe, da Montezemolo a Magalli: “Snider il più bravo, ma Mario ci faceva copiare”», Corriere della Sera, 30/12/2005.
3. M. DRAGHI, «La politica economica di Federico Caffè ai nostri giorni», Discorso alla celebrazione del centenario della nascita di Federico Caffè, Roma, 12/11/2014, www.ecb.europa.eu/press/key/date/2014/html/sp141112.it.html
4. P. KRUGMAN, «Vi spiego perché la crisi dell’Eurozona non è finita», Il Sole 24 Ore, 19/10/2014
5. L’espressione è il titolo del memorabile libro di L. CAFAGNA, La grande slavina, Venezia 1993 (nuova edizione 2011), Marsilio.
6. N. ANDREATA, «Una politica estera per l’Italia», in Per un’Italia moderna. Questioni di politica e di economia, Bologna 2002, il Mulino, p. 173.
7. F. PAPITTO, «Il penultimatum della Cee», la Repubblica, 8/5/1992.
8. Cfr. G. SCHETTINO, «Parte la grande corsa al Tesoro», la Repubblica, 23/12/1990; «Mario Draghi, che ricordo giovane neolaureato, frequentatore assiduo e curioso dei seminari organizzati dal Servizio studi della Banca d’Italia; affermato economista distintosi con merito alla Banca mondiale; apprezzato collaboratore del ministro del Tesoro Guido Carli, cui mi attribuisco il merito di averlo segnalato come direttore generale (C.A. CIAMPI, in S. TAMBURELLO, Mario Draghi, il Governatore, Milano 2011, Rizzoli Etas, p. XII ); La figura e l’opera di Guido Carli, vol. 6, tomo 2: Testimonianze a cura di Federico Carli, Torino 2014, Bollati Boringhieri, pp. 201-207.
9. Su tutti questi temi, si veda A. VARSORI, L’Italia e la fine della guerra fredda. La politica estera dei governi Andreotti (1989-1992), Bologna 2013, il Mulino, che comprende la documentazione inedita proveniente dall’archivio Andreotti, anche sul rapporto tra Andreotti e Carli in merito alle scelte politico-economiche dei primi anni Novanta. L’espressione «repubblica della guerra fredda», ripresa da Varsori, è di Silvio Pons.
10. www.striscialanotizia.mediaset.it/news/2008/02/01/news_2723.shtml
11. Per una cronologia più dettagliata, si veda M. DAMILANO, Eutanasia di un potere, Roma-Bari 2012, Laterza. Damilano riporta (p. 134) anche la reiterazione dell’accusa del Britannia a Draghi da parte di Tremonti, in quanto esempio di «operazione elitaria che prescindeva dal popolo» e la testimonianza di Carlo De Benedetti secondo cui «Draghi al Tesoro era terrorizzato dal debito pubblico, per lui le privatizzazioni erano la strada maestra per contenerlo. Che poi siano state fatte male non c’è dubbio» (p. 292).
12. L. BORSARI, «Il Tesoro dei quarantenni», la Repubblica, 17/4/1992.
13. Cfr. R. PRINGLE, «William Clarke Obituary», The Guardian, 1/6/2011; D. KYNASTON, «Chronicler of London Finance Who Made Invisibles Real», Financial Times, 6/5/2011.
14. «Audizione del direttore generale del Tesoro, dottor Mario Draghi, sulla proposta di istituzione del fondo per l’ammortamento dei titoli di Stato», Atti parlamentari. Camera dei deputati, commissione V, 3/3/1993
15. Tutti i virgolettati provengono da: «Privatisation in Italy, Address by Mario Draghi. Director General of the Treasury, HMY Britannia», Civitavecchia, 2/6/1992. La «filosofia» di Draghi si ritrova in un documento più operativo dopo la costruzione del framework giuridico delle privatizzazioni, all’inizio dell’anno successivo: «Privatisations in Italy: An Introduction», Ministero del Tesoro, Roma, gennaio 1993.
16. Nella vasta letteratura sulle privatizzazioni, una delle analisi migliori è quella di V. GAMBERALE, per esempio in «Diversi casi di privatizzazione nell’esperienza italiana», Italiadecide, 17/4/2012, vitogamberale.wordpress.com/2012/09/20/vito-gamberale-le-privatizzazioni-nellesperienza-italiana
17. B. ANDREATTA, Discorsi parlamentari, II: 1976-1999. Camera dei deputati, Roma 2011, p. 741.
18. D. SCANNAPIECO, «Le privatizzazioni in Italia: una riflessione a dieci anni dal rapporto presentato al ministro del Tesoro Guido Carli», in Guido Carli e le privatizzazioni dieci anni dopo, a cura di FA. GRASSINI, Roma 2001, Luiss Edizioni, p. 157.
19. M. MESSORI, Laudatio per Mario Draghi, Università Luiss Guido Carli, 5/6/2013.
20 . I. VISCO, «Guido Carli e la modernizzazione dell’economia», Relazione introduttiva Banca d’Italia, Roma, 28/3/2014.
21. Si ringrazia Lucio Landi per la segnalazione.
22. Cit. in O. GIANNINO, Panorama, 28/12/2012.
23. Draghi ricorda la scelta europea di Carli in «Guido Carli innovatore», Associazione Guido Carli, 16/1/2009.
24. A. VARSORI, op. cit., p. 245.
25. C.A. CIAMPI, in S. TAMBURELLO, op. cit.
26. www.iop.harvard.edu/mario-draghi
27. «Professor Mario Draghi Joins Goldman Sachs», Goldman Sachs press release, 28/1/2022, www.goldman.sachs.com/media-relations/press-releases/archived/2002/2002-01-28.html
28. S. TAMBURELLO, «Swap in Grecia, nessun ruolo di Draghi», Corriere della Sera, 18/2/2010.
29. J. BLACK, «Draghi Says He Knew Nothing about Goldman-Greece Deal», Bloomberg, 14/6/2011, www.bloomberg.com/news/articles/2011-06-14/draghi-says-he-knew-nothing-about-goldman-greece-deal-1-
30. A. QUADRIO CURZIO (a cura di), Banche popolari e sviluppo solidale. Profili della regolazione e valori della cooperazione, Milano 2011, Franco Angeli.
31. A. CARINI, «Quando provammo a frenare gli sprechi», la Repubblica, 12/6/1992.
32. P.C. PADOAN, «In ricordo del professor Enzo Grilli», Rivista di politica economica, settembre-ottobre 2006.
33. M. DRAGHI, Intervento d’apertura del convegno «L’Italia e l’economia internazionale, 1861-2011», 12/10/2011.
34. «Monorchio: Bisogna abolire le pensioni di anzianità», la Repubblica, 14/2/2002.
35. R. CHERNOW, Alexander Hamilton, New York 2004, Penguin Press, p. 232.
36. V. GASPAR, «The Making of a Continental Financial System: Lessons for Europe from Early American History», Imf Working Paper, settembre 2014.
37. La definizione è di C. BASTASIN, «La prima guerra d’interdipendenza dell’Europa», Il Sole 24 Ore, 6/1/2015.
38. Citato da P. SPIEGEL., «How the Euro Was Saved», FT, ebook.
39. T. MASTROBUONI, «Ecco come Berlino e la Bce trattano già con Tsipras», La Stampa, 30/12/2014.
40. Draghi ha ripetuto le tre parole «restrittive» within our mandate, anche se la ripetizione non è riportata nel verbatim della Banca centrale europea all’indirizzo www.ecb.europa.eu/press/key/date/2012/html/sp120726.en.html
41. «Draghi’s Ecb Management: The Leaked Geithner Files», Financial Times, 15/11/2014, blogs.ft.com/brusselsblog/2014/11/11/draghis-ecb-management-the-leaked-geithner-files
42. M. WOLF, The Shifts and the Shocks, New York 2014, Penguin Press, pp. 56-57.
43. L. ZINGALES, «Whatever it takes, due anni dopo», Il Sole 24 Ore, 27/7/2014.
44. «Doubts about Draghi: Ecb Head Offers to Defend Himself in Bundestag», www.spiegel.de/international/europe/ecb-head-mario-draghi-offers-to-defend-himself-in-german-parliament-a-855807.html ; www.ecb.europa.eu/press/key/date/2012/html/sp121024.en.html
45. M. DRAGHI, Opening Remarks at the Session «Rethinking the Limitations of Monetary Policy», Gerusalemme, 18/6/2013.
46. H. KUNDNANI, «Ordoliberalism and Ostpolitik», 14/12/2014, hanskundnani.com/2014/12/14/ordoliberalism-and-ostpolitik
47. M. DRAGHI, «La stabilità e la prosperità dell’Unione monetaria», Il Sole 24 Ore, 31/12/2014.
48. Ibidem.
49. Ibidem.
50. M. De CECCO, «Il direttorio di via Nazionale: qui pulsa il cuore dell’Europa», la Repubblica, 27/6/2011.
51. H. JAMES, «Central Banks: Between Internationalization and Domestic Political Control», BIS conference, giugno 2010, p. 15.
52. S. TAMBURELLO, Mario Draghi, il Governatore,cit., pp. 28-29.
53. M. DRAGHI, «Una scelta coraggiosa che guardava avanti», in L’autonomia della politica monetaria, Bologna 2011, Arel-il Mulino, pp. 40-42.
* Le opinioni degli autori sono personali e non coinvolgono in alcun modo le istituzioni di appartenenza.