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 2015  marzo 16 Lunedì calendario

APPUNTI PER GAZZETTA - ANCORA SULLE MAZZETTE


REPUBBLICA.IT
ROMA - Matteo Renzi e i magistrati, già in polemica sulla riforma che introduce la responsabilità civile delle toghe, tornano ai ferri corti. Accade nel day after della nuova inchiesta sulle tangenti sulle grandi opere della Procura di Firenze. Il presidente dell’Anm Rodolfo Sabelli parla a Unomattina di un Paese in cui "i magistrati sono stati virtualmente schiaffeggiati e i corrotti accarezzati", quando "uno Stato che funzioni dovrebbe prendere a schiaffi i corrotti e accarezzare chi esercita il controllo di legalità". La replica del premier è un secco rimprovero: "Frase ingiusta e triste, che fa male. Si può contestare un singolo fatto ma dire quelle cose lì, avendo una responsabilità, è triste" il commento del premier durante l’inaugurazione dell’anno accademico della scuola superiore di polizia. Renzi garantisce piuttosto che "questo governo intende combattere perché non si formi uno stato di polizia, ma di pulizia. L’autorità anticorruzione l’abbiamo messa in campo perché casa per casa, appalto per appalto, si possa far pulito. Le pene sulla corruzione devono essere aumentate. Pensare che si possa prescrivere la corruzione è inaccettabile, per questo stiamo intervenendo".
Ma il giorno dopo la rivelazione del nuovo scandalo, Renzi e il suo governo devono fare i conti con la delicata posizione del ministro delle Infrastrutture. Maurizio Lupi respinge ogni addebito, ma resta il bersaglio grosso a cui mira l’opposizione. Con il Movimento 5 Stelle e Sel che annunciano la mozione di sfiducia, senza chiarire in quale ramo del Parlamento. E la differenza, tra Camera e Senato, non è da poco, perché sono i numeri che fanno la differenza e possono garantire, o meno, la tranquillità e la tenuta dell’esecutivo. Sel, inoltre, considera "arrivato il momento" per l’istituzione di una "commissione d’inchiesta parlamentare sulla Tav" perché bisogna "fare luce fino in fondo sui costi, sulle procedure e sulle zone d’ombra delle grandi opere nel nostro Paese".
Un post sul blog di Beppe Grillo, dal titolo "Al lupi! al lupi!", offre la scelta: "Lupi o è un fallimento come ministro oppure porta sfiga. O entrambe. Le persone che si è messo vicino per la gestione di soldi e appalti sono state arrestate dopo anni che agivano indisturbate all’interno delle istituzioni. Perché Lupi le ha scelte e perché Lupi le ha coperte? Chi gli ha suggerito/ordinato di farlo?". E si rievoca un’interrogazione parlamentare del deputato pentastellato Alessandro Di Battista del luglio scorso. "La risposta di Lupi su Incalza è emblematica: è stata scritta dal suo avvocato! Non un ministro, ma un difensore d’ufficio. Lupi deve dare spiegazioni, dimettersi e restituirci fino all’ultimo centesimo tutti i quattrini che si è beccato come ministro delle infrastrutture. Li metteremo nel fondo per il microcredito alle aziende dove vengono versati gli stipendi tagliati dei portavoce M5s in parlamento".
La deputata M5s e membro del direttorio pentastellato Carla Ruocco sceglie Facebook per spiegare così le ragioni della prossima mozione. "Quando il dirigente del tuo ministero viene arrestato perché a capo di un sistema di corruzione che sottrae miliardi di euro alla collettività, quando minacci la crisi di governo se qualcuno osa mettere in discussione la ’struttura tecnica di missione’ creata da quel tuo dirigente arrestato, quando uno degli imprenditori finiti in manette risulta aver procurato incarichi di lavoro a tuo figlio, il minimo che tu possa fare è un gesto di dignità. Il ministro Lupi deve andare a casa, e con lui chi lo ha messo lì e chi sapeva. Dimissioni subito, e poi non bisogna votarli più". E continua sui social l’offensiva contro il ministro Lupi di Di Battista. Che su Twitter scrive: "Questo è il ministro Lupi, questo è il governo Renzi. Un branco di ’lupi’ che divorano i nostri soldi".
Ad Agorà, su Raitre, il segretario federale della Lega Nord Matteo Salvini per il momento non minaccia mozioni ma reclama chiarimenti da parte del governo: "Io non condanno nessuno, però mi aspetto che il ministro dell’Interno o il presidente del Consiglio vengano in Parlamento a spiegare agli italiani se è tutto falso o se c’è qualcosa di vero. E se c’è qualcosa di vero non possiamo avere un ministro dell’Interno e un ministro delle Infrastrutture che lavorano con delle ombre del genere".
Nel Pd, Pippo Civati ricorda sul suo blog come "Matteo Renzi individuò nelle ragioni di opportunità politiche e istituzionali le motivazioni delle dimissioni di una ministra del governo Letta". Il riferimento è all’ex ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri, per la vicenda Ligresti. "Chissà se il ragionamento - chiede Civati -, per una volta preciso e pienamente convidisibile, varrà anche per il ministro Lupi".
Mentre il presidente dei senatori dem, Luigi Zanda, invitando a non trarre conclusioni affrettate, rileva come sia possibile però fare "un’osservazione politica". "Il ministro Lupi ricorda che l’ingegner Incalza è stato il padre della ’legge obiettivo’. Proprio da quella legge negli ultimi vent’anni è nata gran parte dei guai degli appalti per le grandi opere pubbliche" attacca Zanda. Che poi mette sotto accusa il "punto centrale della norma: "È un grave errore aver affidato alle imprese appaltatrici anche progettazione delle opere e direzione dei lavori. Con questa gigantesca concentrazione di poteri - conclude Zanda -, non c’è da stupirsi se nei grandi appalti i contenuti progettuali e il controllo dell’andamento dei lavori possono essere piegati a interessi economico-industriali".
Intanto, il presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, Raffaele Cantone, è pronto a "valutare" atti e ricadute dell’inchiesta della procura di Firenze che ha coinvolto anche appalti relativi a Palazzo Italia a Expo. Ai microfoni di Radio Anch’io di Radio Rai 1, Cantone afferma di non aver avuto ancora "materialmente tempo di analizzare gli atti che - chiarisce - abbiamo chiesto e ricevuto dalla Procura di Firenze". Cantone precisa che si tratta di "fatti precedenti alla costituzione" dell’autorità anticorruzione per Expo, ribadendo che l’Anac è comunque pronta a "verificare se ci siano iniziative da prendere perché si tratta dell’appalto più importante di Expo. Palazzo Italia è un po’ l’immagine del Paese. E ha anche una situazione di ritardo".
Ma lo stesso Cantone ricorda come l’Anac non disponga degli "strumenti della attività giudiziaria. Il nostro controllo - spiega - punta a prevenire e non a reprimere. Si tratta di un controllo di tipo amministrativo che nulla ha a che vedere con indagini giudiziarie, che possiamo coadiuvare, ma il nostro compito è di far rispettare le norme amministrative. Si deve tenere conto - conclude Cantone - dei nostri poteri e dei nostri limiti fisiologici".

RITRATTO DI INCALZA
Secondo Giovanni Paolo Gaspari, alto dirigente delle Ferrovie, "è lui che decide i nomi...fa il bello e il cattivo tempo ormai là dentro...o dominus totale". Dal G8, alla Tav, al Mose: il nome di Ercole Incalza ("Ercolino", come lo chiama lo stesso Gaspari in una telefonata intercettata dal Ros il 25 novembre del 2013), arrestato oggi, ricorre in tutte le grandi opere - e inchieste - degli ultimi 30 anni in Italia. L’ingegnere pugliese nato nel brindisino il 15 agosto del ’44, è stato per molti anni dirigente di vertice al ministero delle Infastrutture e dei Trasporti per poi divenirne consulente esterno: ultimo incarico come capo della struttura tecnica di Missione per l’esame delle questioni giuridiche connesse alla realizzazione delle infrastrutture e degli insediamenti produttivi strategici e di interesse nazionale.
Incalza appare nel mondo dei lavori pubblici alla fine degli anni ’70 alla Cassa per il Mezzogiorno, della quale diventa dirigente nel 1978, assumendo nel marzo 1980 la responsabilità del Progetto Speciale dell’Area Metropolitana di Palermo.Giovane socialista pugliese approda al ministero dei Trasporti con Claudio Signorile. Nel 1983 è consigliere del ministro dei Trasporti, poi nel giugno 1984 assume la responsabilità di Capo della Segreteria Tecnica del Piano Generale dei Trasporti. Dal gennaio 1985 Dirigente Generale della Direzione Generale della Motorizzazione Civile e dei Trasporti in Concessione, passa alle Ferrovie dello Stato nell’agosto 1991, per diventare Amministratore Delegato della Treno Alta Velocità TAV S.p.A. dal settembre 1991 al novembre 1996. Nel 1998 finisce ai domiciliari insieme all’ex presidente di Italferr Maraini.
Tangenti su appalti Tav, le indagini dei Ros
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Dopo la bufera della Tangentopoli di Necci e Pacini Battaglia a metà degli anni Novanta, Incalza torna alla ribalta al ministero di Porta con Pietro Lunardi e diventa poi il braccio destro del ministro Altero Matteoli con l’incarico di capo della struttura tecnica di missione. Negli ultimi anni sempre più numerose le inchieste; a febbraio i pm fiorentini Giulio Monferini e Gianni Tei ne avevano chiesto il rinvio a giudizio insieme ad altre 31 persone nell’inchiesta sul sottoattraversamento fiorentino della Tav. Nell’ordinanza di custodia cautelare firmata dal Gip di Firenze compare anche il nome di Luca Lupi, figlio del ministro dei Trasporti e delle Infrastrutture Maurizio.

LUPI DA DIMETTERE
ROMA - "Matteo Renzi individuò nelle ragioni di opportunità politiche e istituzionali le motivazioni delle dimissioni di una ministra del governo Letta. Chissà se il ragionamento, per una volta preciso e pienamente convidisibile, varrà anche per il ministro Lupi". Il riferimento è all’ex ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri, finita nel tritacarne per il suo personale interessamento alla vicenda carceraria di Giulia Ligresti. E a ricordare all’attuale premier l’esistenza di "ragioni di opportunità politiche e istituzionali" per le quali anche un suo ministro, Maurizio Lupi, titolare delle Infrastrutture, dovrebbe rassegnarsi al passo indietro, è Pippo Civati. Che impietosamente ricorda a Matteo le parole pronunciate quando la sua scalata alla leadership del Pd e del Paese era solo uno scenario futuribile.
Era il 19 novembre di due anni fa, quando Renzi chiariva su varie piattaforme mediatiche, come sua consuetudine, la sua posizione sulla vicenda della Cancellieri. In modo netto: "Sono per le sue dimissioni, indipendentemente dall’avviso di garanzia o meno" aveva dapprima scritto nella sua newsletter settimanale, perché "l’idea che ci siamo fatti dell’intera vicenda Ligresti è che la legge non sia uguale per tutti e che se conosci qualcuno di importante te la cavi meglio. E’ la Repubblica degli amici degli amici: questo atteggiamento è insopportabile".
A questo punto, nello stesso documento, Renzi aveva aperto uno squarcio sul futuro, del partito e del Paese. "Se diventerò segretario del Pd - scriveva Matteo - su questo tema vorrei combattere una battaglia culturale. Non è un problema giudiziario, è peggio: è un problema politico". Postilla: "Cancellieri dice ai giornali: ’se ci fosse stato il vecchio Pd mi avrebbe difeso’. Non so. Io spero che ci sia un Pd nuovo. E lo spero per l’Italia, non per Cancellieri".
Poi, a Radio Capital, Renzi aveva sottolineato la perdita di autorevolezza e credibilità del Guardasigilli: "Si dovrebbe dimettere perché ha perso prestigio e autorità. E sarebbe più logico fare come in tutti i Paesi civili, dimettersi prima del voto di sfiducia". Infine, nel pomeriggio, durante un botta e risposta via Twitter (all’hashtag #matteorisponde) e in diretta sul suo sito, Renzi era stato ancora più perentorio, sollecitando questa volta l’allora premier Enrico Letta: "Se fossi nella Cancellieri mi sarei dimesso. Se il premier vuole salvarla ci metta la faccia lui (ma fossi in lui non lo farei) andando al gruppo Pd". E aveva aggiunto: "Se io fossi segretario del partito chiederei di votare la sfiducia".
Parole chiare e pesanti, che ritornano di grande attualità nel presente di Matteo Renzi, gravate ancor di più dal doppio ruolo di comando, e quindi di responsabilità, che oggi ricopre: segretario del Partito Democratico e soprattutto presidente del Consiglio. Che ne sarà, dunque, della "battaglia culturale" che da leader del Pd Matteo voleva combattere per avere la meglio sull’Italia "degli amici degli amici"?

IL CASO DUFERCO
Il presidente di Duferco e di Federacciai, Antonio Gozzi, è stato arrestato a Bruxelles dalle autorità belghe in una indagine per corruzione. Secondo l’accusa avrebbe corrotto degli ufficiali nella Repubblica democratica del Congo per ottenere appalti. Lo rende noto TicinoNews con una nota di Duferco, che ha sede a Lugano. Gozzi è anche presidente della squadra di calcio Virtus Entella di Chiavari che milita nella serie B.
Con Gozzi è stato fermato anche un altro dirigente italiano del gruppo con sede a Lugano, Massimo Croci, direttore di diverse filiali europee. Il manager, fa sapere la Duferco che si dice stupefatta dall’arresto, erano andati spontaneamente dall’Italia in Belgio per testimoniare in un’indagine per un caso di corruzione che ha portato all’arresto del sindaco di Waterloo, Serge Kubla.. Venerdì compariranno davanti al giudice che deciderà se convalidare l’arresto.
Duferco: Gozzi e Croci totalmente estranei. "Questo modo di procedere non può essere definito se non come un mezzo di pressione inammissibile", afferma il gruppo Duferco che è di origine brasiliana e impiega 3000 persone in tutto il mondo. Oggi la società è controllata dalla cinese Hebei Iron and Steel Group. Il gruppo, "che rispetta dalla fondazione un rigido codice etico - aggiunge la nota - tiene ad affermare che Gozzi e Croci hanno più che mai la fiducia del gruppo e degli azionisti"
In una nota diffusa da Duferco, si sottolinea che l’amministratore delegato di Duferco, Antonio Gozzi, e il dirigente della stessa azienda, Massimo Croci, si dichiarano "totalmente estranei" alla vicenda che ha portato al loro fermo in Belgio e intendono collaborare "pienamente con i giudici, confidando in un rapido accertamento della verità". In una nota la multinazionale sottolinea che i due manager, di nazionalità e residenza italiana, "sono stati ascoltati ieri dal Giudice Istruttore Claise di Bruxelles da cui si sono recati spontaneamente per fornire agli inquirenti tutti gli elementi e le informazioni eventualmente in loro possesso, utili alla ricostruzione della verità e si sono resi disponibili per tutto il tempo necessario allo svolgimento delle indagini".
Fino a oggi, prosegue la nota, "il Gruppo Duferco, al di là di un primo comunicato iniziale, ha preferito mantenere il più stretto riserbo per rispetto al lavoro del Giudice Istruttore e delle indagini in corso". Ma ora ritiene necessario ribadire alcuni punti: "la totale estraneità del Gruppo Duferco e dei suoi dirigenti a qualunque episodio di corruzione internazionale, nella Repubblica del Congo o in qualunque altro Paese; la rigorosa e severa policy del Gruppo Duferco, fatta di regole organizzative e metodiche di comportamento, volta a prevenire qualsiasi comportamento non corretto non solo da parte dei suoi dirigenti e impiegati, ma anche da parte degli stakeholder, primi fra tutti fornitori e clienti; la quarantennale reputazione del Gruppo Duferco nel mercato internazionale dell’acciaio, dell’energia e dello shipping, reputazione mai scalfita da qualsivoglia vicenda o anche singolo episodio meno che corretto".
La vicenda, nell’ambito della quale Gozzi e Croci sono stati ascoltati, ricostruisce il comunicato dell’azienda, "risale al 2009 e non riguarda direttamente società del Gruppo Duferco, ma società e interessi economici esterni al Gruppo e riferibili personalmente agli azionisti del Gruppo stesso.
Si è trattato di un intervento di natura esclusivamente finanziaria in un settore esterno alle competenze tradizionali del Gruppo terminato, tra l’altro, con risultati economici e finanziari negativi. Antonio Gozzi e Massimo Croci se ne sono occupati su incarico degli azionisti, ma non sono mai stati in vita loro in Congo, nè hanno mai conosciuto politici o funzionari pubblici congolesi o altre persone di quel Paese capaci di aver peso o influenza nell’emanazione di atti amministrativi. Hanno quindi dichiarato al Giudice Istruttore la loro totale estraneità ai fatti e confidano in un rapido accertamento della verità da parte della giustizia belga", conclude la nota
L’Entella: "Lo aspettiamo sabato alla partita". La Virtus Entella confida in un "rapido accertamento della verità" in merito ai fatti che hanno portato all’arresto a Bruxelles del presidente Antonio Gozzi, nell’ambito di un’indagine per corruzione della giustizia belga. Il n.1 di Duferco e di Federacciai è sospettato di aver corrotto ufficiali della Repubblica democratica del Congo con lo scopo di ottenere appalti.
La Virtus Entella commenta la notizia con una nota pubblicata sul sito ufficiale del club in cui si sottolinea che Gozzi "si è presentato spontaneamente in Belgio per essere ascoltato dal Giudice Istruttore Claise in merito al ’caso Kubla’, un’indagine riguardante un’ipotesi di corruzione di un funzionario del Congo, paese nel quale il Prof.
Gozzi, insieme ad alcuni soci, ha compiuto interventi di natura finanziaria".
"In attesa di dimostrare la sua inequivocabile e totale estraneità alla vicenda -prosegue la Virtus Entella nel comunicato -, è stato trattenuto a Bruxelles per completare la ricostruzione dei fatti. Confidiamo in un rapido accertamento della verità da parte della giustizia belga e aspettiamo il Pres per la partita di sabato: Entella-Catania".

L’ESPRESSO.IT
Tangenti, in carcere il capo di Federacciai La rete degli affari di Antonio Gozzi in Congo Antonio Gozzi, amministratore delegato Duferco
Sulle rive del fiume Congo, quello di “Cuore di tenebra”, è sparito nel nulla un anonimo contabile belga. Comincia così, come un romanzo di Joseph Conrad, la vicenda giudiziaria che ha portatoin un carcere di Bruxelles Antonio Gozzi, presidente di Federacciai e nome di peso nell’organigramma di Confindustria.
Partendo dalla misteriosa scomparsa del revisore di bilancio Stephan De Witte, i magistrati di Bruxelles sono approdati alla Duferco, il gruppo siderurgico guidato da Gozzi. Nelle mani degli inquirenti c’è una fattura di 60 mila euro pagata dall’azienda al politico Serge Kubla, già ministro dell’Economia del governo autonomo della Vallonia e fino a poche settimane fa sindaco di Waterloo, il paese della battaglia che segnò la fine di Napoleone.
Il sospetto è che quei soldi, prima rata di un pagamento complessivo di 240 mila euro, siano stati versati da Duferco per aprirsi la strada in Congo, l’ex colonia belga ricchissima di materie prime, diamanti e oro. Gozzi conosce bene Kubla, un politico di lungo corso molto vicino al premier di Bruxelles, Charles Michel. Nel 2003 la multinazionale dell’acciaio avviò la riconversione delle sue attività in Vallonia grazie ai finanziamenti pubblici per cui si spese l’allora ministro regionale. De Witte, invece, aveva lavorato a lungo come consulente di Duferco, che in Belgio controlla stabilimenti e altre attività logistiche e immobiliari.
Sta di fatto che un paio di anni fa il contabile decide di cambiare vita: lascia la famiglia e trova un impiego in un grande parco botanico a un centinaio di chilometri da Kinshasa, la capitale del Congo. A un certo punto, però, De Witte smette di dare notizie di sé. Lo cercano amici, parenti e anche la moglie che nel giugno dell’anno scorso ne denuncia la scomparsa.
L’inchiesta giudiziaria arriva a una svolta meno di un mese fa, il 24 febbraio, quando la polizia arresta Kubla. «L’indagine riguarda le attività del gruppo industriale Duferco nella Repubblica Democratica del Congo», questo è quanto si legge nel comunicato ufficiale della procura federale di Bruxelles. In altre parole l’azienda guidata da Gozzi è sospettata di aver corrotto «pubblici ufficiali congolesi per favorire – si legge ancora nel comunicato - la realizzazione di importanti investimenti nel settore dei giochi e delle lotterie».
Non è ancora chiaro quale sia stato il ruolo di De Witte in questa storia. Forse era stato arruolato come agente sul posto per coordinare le nuove attività congolesi. Le accuse contro Kubla, invece, sono molto precise. Il politico vallone, pezzo grosso del partito moderato MR (Mouvement Réformatour), avrebbe consegnato una somma di 20 mila euro alla moglie dell’ex primo ministro congolese Adolphe Muzito. La signora ha smentito tutto, minacciando querele.
Quei soldi però, secondo l’accusa, erano solo l’acconto di una tangente da 500 mila euro. I rapporti tra Kubla e Gozzi risalgono almeno al 2003. A quell’epoca, come detto, i fondi pubblici della Vallonia finanziarono la riconversione di alcuni vecchi impianti di Duferco in Belgio. Sulla poltrona di ministro regionale c’era proprio l’uomo politico ora accusato di corruzione internazionale. Tra investimenti azionari e prestiti, l’azienda siderurgica incassò oltre 500 milioni di euro. Un fiume di denaro, tanto che la Commissione Europea ha avviato un’istruttoria per verificare se siano state rispettate le regole della Ue sugli aiuti di Stato. Molti anni dopo quella vicenda, tornano d’attualità la liason tra il manager italiano e l’ex borgomastro di Waterloo, dimissionario dopo l’arresto. Questa volta però le accuse sono ben più gravi.
Adesso tocca a Gozzi fornire la sua versione dei fatti al giudice istruttore Michel Claise, specializzato in indagini sulla criminalità finanziaria. Il presidente di Federacciai è molto conosciuto nel mondo degli affari nostrano e anche in quello calcistico, come presidente della squadra dell’Entella di Chiavari, che milita in serie B. Il suo ruolo di vertice nell’apparato di Confindustria ha portato Gozzi a impegnarsi in vicende da prima pagina come la crisi dell’Ilva di Taranto, spesso per attaccare i provvedimenti dei magistrati. Duferco, una multinazionale con base a Lugano e un giro d’affari di oltre sette miliardi di euro l’anno, controlla numerosi impianti anche in Italia e di recente si era candidata a partecipare al salvataggio delle Acciaierie di Piombino sull’orlo del fallimento, poi passate al gruppo algerino Cevital.
Al manager italiano è stata anche affidata – si legge nel bilancio - la “general supervision” delle importanti attività del gruppo in Belgio. Proprio Gozzi, insieme al collaboratore Massimo Croci, figura nel ruolo di amministratore di una piccola holding creata alla fine del 2010, la Successful Expectations Belgium. Quest’ultima, a sua volta, tira le fila di una serie di società con base in Congo, Ruanda, Burundi, Zambia, tutte impegnate nel settore dei giochi. Che cosa c’entra il business dell’azzardo con il trading di acciaio? In apparenza niente. L’ipotesi degli investigatori, però, è che gli appalti nelle lotterie, da sempre gestite dalla burocrazia statale, potesse servire per allacciare rapporti con la politica locale. E quindi inserirsi negli affari ben più lucrosi che ruotano intorno alle materie prime (petrolio, metalli), ai diamanti, all’oro. I bilanci confermano che la holding belga gestita da Gozzi ha gettato la sua rete in Africa tra il 2011 e il 2012. Poco dopo è sbarcato in Congo il contabile De Witte, poi scomparso nel nulla.

REPUBBLICA.IT
ROMA - Arriverà in Aula del Senato giovedì mattina il ddl sulla corruzione, ma solo se l’esame sarà stato concluso in commissione. E comunque esclusivamente per la relazione sul testo in modo da consentirne l’incardinamento. Lo ha deciso la conferenza dei capigruppo a maggioranza, tra le proteste dei Cinque Stelle. In commissione giustizia si deve procedere ancora all’esame di 40 emendamenti e il termine per i subemendamenti al testo del Governo è fissato per domani alle 13. Nel frattempo però c’è da convertire anche il dl banche entro il 25 marzo. Dunque il calendario deciso a maggioranza prevede che l’anticorruzione subisca uno stop ed entri nel vivo della discussione dopo la conversione del decreto su cui il Governo - è la voce che gira in Senato - si appresterebbe a mettere la fiducia.
Il ddl anticorruzione - che ieri ha ricevuto un’accelerazione con la presentazione dell’emendamento sul falso in bilancio - tornerà dunque in aula solo martedì 24 e giovedì 25 "dopo il decreto sulle banche popolari" che scade il 25. "Noi - spiega il capogruppo m5s Andrea Cioffi - avevamo chiesto di lavorare sulla corruzione anche venerdì, sabato e domenica. Ci hanno risposto ’no’. E’ il solito modo della maggioranza per cincischiare". E Loredana De Petris di Sel aggiunge che "se giovedì non si sarà pronti con la relazione non si farà nemmeno quella". La capigruppo del Senato ha comunque deciso che domani pomeriggio non ci sarà nulla in assemblea per consentire alla commissione giustizia di proseguire con il voto sugli emendamenti, tra cui quello del governo sul falso in bilancio. Oggi invece in aula si discuterà del divorzio breve.

REPUBBLICA.IT
Arrestato un imprenditore impegnato negli appalti per la ricostruzione post terremoto a L’Aquila. Raffaele Cilindro è ritenuto dagli inquirenti vicino all’ex boss del clan dei Casalesi Michele Zagaria. Il provvedimento è stato eseguito dal Ros dei carabinieri nell’ambito di una inchiesta della Dda di Napoli condotta dal procuratore aggiunto Giuseppe Borrelli e dai sostituti Catello Maresca e Maurizio Giordano

Raffaele Cilindro, 51 anni originario di San Cipriano d’Aversa, in provincia di Caserta, è stato arrestato per aver favorito la latitanza di Zagaria. Gli inquirenti hanno anche sequestrato beni all’imprenditore per un valore di un milione e mezzo di euro.

Michele Cilindro è accusato di associazione per delinquere di tipo mafioso: avrebbe, secondo gli inquirenti, partecipato direttamente alle attività della fazione Zagaria del clan dei Casalesi, finanziandola periodicamente con somme di denaro, mantenendo i contatti con gli affiliati e, soprattutto, ospitando nella sua abitazione il boss Michele Zagaria, detto "capa storta", durante la latitanza.

Secondo quanto emerso dalle indagini coordinate dalla DDA di Napoli, Cilindro avrebbe anche accompagnato Pasquale Zagaria, fratello di Michele, ad alcuni summit di camorra. Cilindro aveva rapporti anche con l’altro fratello di "capa storta", Antonio.

Alle intercettazioni telefoniche e ambientali raccolte durante le indagini si aggiungono anche le dichiarazioni di due collaboratori di giustizia, ex affiliati alla fazione del clan del cemento: si tratta di Attilio Pellegrino, cassiere del clan dal 2010, e Massimiliano Caterino, uomo di fiducia di Michele Zagaria, incaricato dall’ allora boss di mantenere i rapporti con gli imprenditori.

Documentati dal Ros dei carabinieri
di Napoli (distaccamento di Caserta) frequenti viaggi a Venezia e serate con altri imprenditori e affiliati al casinò, apparentemente organizzati per divertimento e invece finalizzati a riciclare il denaro del clan.

Cilindro, infine, era in ottimi rapporti anche con un altro imprenditore di Casapesenna, Raffaele Donciglio, anch’egli destinatario, di recente, da un provvedimento restrittivo emesso dal gip del Tribunale di Napoli.

CORRIERE DI STAMATTINA
FIRENZE Ci sono quasi tutte le grandi opere nel carnet della rete del presunto malaffare: dai cantieri dell’Expo all’autostrada Salerno-Reggio Calabria, dalla Fiera di Roma all’Alta velocità Milano-Verona. E poi il terminal di Olbia, l’hub portuale di Trieste, il completamento dell’autostrada Livorno-Civitavecchia, il Metro 5 di Milano, City Life e altri cantieri appetitosi. Miliardi di euro, più di 25, da gestire con tangente (il 3%) e prezzi lievitati anche del 40%. Almeno così la pensano i magistrati di Firenze, dove tutto è nato e si è espanso da un’inchiesta sulla Tav che è diventata un macigno gettato in un mare di illegalità con cerchi concentrici che hanno raggiunto tutta Italia.
Dopo indagini condotte dai carabinieri del Ros e dai pm Luca Turco, Giuseppina Mione e Giulio Monferini, sono state arrestate quattro persone. Nomi eccellenti. Primo tra tutti quello di Ercole Incalza, 70 anni, da più di trent’anni «principe» del ministero dei Lavori pubblici, quell’«Ercolino» — come lo descrive in un’intercettazione un alto dirigente delle Ferrovie dello Stato — che «decide i nomi tra tutti i suoi, fa il bello e il cattivo tempo» e «ormai là dentro è il dominus totale e senza di lui non si muove foglia». Gli altri tre arrestati sono imprenditori: il milanese Francesco Cavallo, 55 anni, il frusinate Sandro Pacella, 55 anni, collaboratore di Incalza e il romano, ma da tempo residente a Firenze, Stefano Perotti, 57 anni.
Gli indagati sono in tutto 51 e tra questi spiccano nomi eccellenti di politici, sia del centrodestra che del centrosinistra. Ci sono l’ex europarlamentare Vito Bonsignore, Stefano Saglia, già sottosegretario alle Infrastrutture, Antonio Bargone, ex sottosegretario ai Lavori pubblici, presidente della Società autostrada Tirrenica e commissario governativo dimissionario e Rocco Girlanda, sottosegretario alle Infrastrutture. Altri nomi illustri escono dalle intercettazioni: quelli del ministro alle Infrastrutture Maurizio Lupi, del ministro dell’Interno Angelino Alfano e del viceministro Riccardo Nencini che però non sono indagati. «Dopo che hai dato la sponsorizzazione per Nencini, l’abbiamo fatto viceministro», dice Lupi al telefono con Incalza. Per Lupi si apre invece il caso del figlio Luca che, secondo il gip, avrebbe ottenuto degli incarichi lavorativi dall’imprenditore arrestato Perotti.
Le accusano mosse dalla Procura di Firenze vanno dalla corruzione all’induzione indebita, dalla turbativa d’asta ed altri delitti contro la Pubblica amministrazione e non sono per tutti uguali. La Procura aveva chiesto anche l’associazione per delinquere. «Ma il gip l’ha rigettata perché non ha ritenuto che sussistessero gli elementi di gravità per contestare questo reato», ha detto in conferenza stampa il procuratore di Firenze, Giuseppe Creazzo. L’inchiesta continua. Soltanto ieri sono state effettuate in tutta Italia più di cento perquisizioni e si stanno vagliando molte testimonianze giudicate «di grande interesse» dagli investigatori.
Marco Gasperetti

FIORENZA SARZANINI
FIRENZE Il loro legame era talmente stretto che il 2 luglio scorso, quando ha dovuto rispondere alle interrogazioni parlamentari, il ministro Maurizio Lupi si è fatto scrivere il discorso dal difensore di Ercole Incalza, l’avvocato Titta Madia. E pur di difendere il ruolo di quel manager ormai in pensione, ha minacciato addirittura di far cadere il governo. Perché in realtà era proprio Incalza il vero potente, capace di guidare le scelte di politici e imprenditori, di condizionare le scelte degli uomini di governo pronti a correre in suo soccorso quando era in pericolo la riconferma come dirigente della Struttura tecnica di missione, cabina di regia di tutte le grandi opere, dalla Tav all’Expo passando per la Metro C di Roma, quella di Milano e i grandi tratti autostradali, compresa la Salerno-Reggio Calabria.
Nel computer conservava una lettera spedita nel 2004 a Silvio Berlusconi per chiarirgli i motivi della nomina a Provveditore di Angelo Balducci, a riprova dell’esistenza di una «rete» clientelare che dura da oltre dieci anni. E gli avrebbe permesso di ottenere tangenti da centinaia di migliaia di euro, oltre all’assunzione di figli e parenti degli amici, primo fra tutti proprio il rampollo di Lupi, Luca, beneficiato con un incarico all’Eni da 2.000 euro al mese. Il ministro non aveva evidentemente bisogno di chiedere: arrivavano abiti di sartoria, un Rolex da 10.000 euro per la laurea del ragazzo, fine settimana nella splendida dimora fiorentina di quello Stefano Perotti diventato l’alter ego di Incalza e ora come lui finito in carcere. Sono le indagini dei carabinieri del Ros guidati dal generale Mario Parente a svelare i retroscena degli appalti assegnati negli ultimi anni. Comprese le assunzioni di altri parenti «eccellenti»: il figlio dell’ex ragioniere generale dello Stato Andrea Monorchio, quello dell’ex parlamentare Angelo Sanza, il nipote di monsignor Francesco Gioia.
«Non c’è più il governo»
Lupi è certamente uno dei maggiori sponsor e lo dimostra a fine dicembre quando si fa aspro lo scontro nel governo sulla gestione dei Lavori pubblici. Scrive il giudice nell’ordinanza di cattura: «La sera del 16 dicembre il ministro Lupi chiama l’ingegner Incalza e rivendica il merito di aver bloccato l’emendamento con la richiesta di trasferire la Struttura tecnica di missione alle dipendenze della presidenza del Consiglio dei ministri: “L’altra cosa che mi dispiace e ne parlerò con la Ida domani, è questa roba per cui è evidente che... cioè ancora continuare a dire che nessuno ha difeso la Struttura tecnica di missione mi fa girare molto i c... eh! scusami, perché se non l’avessi detta io, se non fossi intervenuto io, lasciate stare il Pd che la vuole trasferire, non entrava nell’emendamento governativo questa cosa qui”. Il ministro Lupi intende difendere a qualsiasi costo la Struttura fino a minacciare una crisi di governo: “Vado io guarda, siccome su questa cosa, te lo dico già. Però io non voglio, cioè vorrei che tu dicessi a chi lavora con te che sennò vanno a c...! Ho capito! Ma non possono dire altre robe! Su questa roba ci sarò io lì e ti garantisco che se viene abolita la Struttura non c’è più il governo! L’hai capito, l’hanno capito?!”».
Rolex e assunzione
Incalza dispensa favori proprio grazie a Perotti. E così «sistema» Luca Lupi. Il 30 gennaio 2014 «Perotti informa il cognato Giorgio Mor che è riuscito a convincere i dirigenti Eni per avviare l’attività di progettazione loro affidata, gli prospetta che ha il “bisogno” di dover impiegare proprio per questa attività un “ragazzo” che verrà pagato dallo stesso Stefano Perotti: “È un ragazzo che vale molto, l’ho visto, l’ho conosciuto”. Il “ragazzo” è Luca Lupi».
Annota il giudice: «Va rimarcato che il 21 febbraio 2014 Philippe Perotti, figlio di Stefano Perotti, come misura di precauzione in seguito alla pubblicazione di un articolo, invia al padre Stefano un messaggio, richiedendo di valutare l’opportunità di allontanare Luca Lupi dal cantiere Eni, e di adottare le dovute cautele nelle comunicazioni sia telefoniche che per posta elettronica: “Bisogna pensare a tirar fuori Luca da Eni. Evitiamo il problema”».
Nella primavera scorsa è Franco Cavallo, collaboratore di Perotti, a saldare gli abiti ordinati dal ministro e da suo figlio, mentre il manager regala al ragazzo il prezioso orologio. Perotti e Lupi sono evidentemente amici di famiglia. Annota il giudice: «Il 14 settembre 2013, il ministro Lupi avvisa Perotti che stanno per arrivare per la cena: “Noi dovremmo essere lì verso le 8 e mezza”. Due giorni dopo Christine Mor (moglie di Perotti) racconta alla sorella che ha avuto degli ospiti a cena nel weekend: “Tutto a posto, finalmente sono andati via, anche se è stato bello però molto impegnativo. Erano in 8 con due guardie del corpo, quindi hanno mangiato da venerdì, c’era Maurizio con sua moglie, c’era Frank con la moglie, c’era Toccafondi con la moglie, i primi quattro hanno dormito in casa...».
Alfano e Schifani
In realtà Lupi non è l’unico a difendere la struttura e soprattutto Incalza. L’inchiesta condotta dai pm di Firenze coordinati dal procuratore Giuseppe Creazzo svela i nomi degli altri. Il 19 febbraio 2014 Giovanni Gaspari, nipote del dc Remo, consigliere presso il ministero delle Infrastrutture, parla con il manager Giulio Burchi e commenta la conferma di Incalza.
Gaspari : «È veramente una cosa, una schifezza tale che non ne posso più, mi viene anche a me da vomitare. Si sono scatenati tutti alla difesa di Incalza oggi, sono passati da Alfano a Schifani, ai general contractor».
Burchi : «Beato Perotti che prende tutte le direzioni dei lavori d’Italia».
Gaspari : «Si, si, Perotti si prenderà tutto».
In realtà a parlare dei propri rapporti con il ministro dell’Interno Angelino Alfano è lo stesso Incalza al telefono con un’amica alla quale racconta «di aver trascorso la notte a redigere il programma di governo che il Nuovo centrodestra avrebbe dovuto presentare e di essere in attesa del benestare di Alfano e di Lupi».
I due sottosegretari
Incalza parla con i ministri e tratta con i sottosegretari. A leggere le intercettazioni si comprende che è in grado di orientare le loro scelte politiche. «Altro esempio dell’influenza che Ercole Incalza sembra avere sulle decisioni del ministro — scrive il giudice — si trae il 28 febbraio 2014 quando Maurizio Lupi ha telefonato al primo e lo ha informato che, in seguito alla “sponsorizzazione” di quest’ultimo, avevano nominato viceministro per le Infrastrutture il senatore Riccardo Nencini: “Dopo che tu hai dato, hai coperto, hai dato la sponsorizzazione per Nencini l’abbiamo fatto viceministro alle Infrastrutture”. Lupi invita quindi Incalza a parlargli per dirgli “che non rompa i c...!”. Nel corso di successive telefonate Incalza fa presente che al ministero per le Infrastrutture sono arrivati due sue compagni socialisti facendo riferimento a Nencini e Umberto Del Basso De Caro. Il suo amico commenta le nomine: “Complimenti, sempre più coperto”. Effettivamente Del Basso De Caro si spende molto per farlo riconfermare». E ottiene vantaggi.
«Il 20 ottobre 2014 Incalza gli segnala che non è stato presentato un emendamento che riguarda la Struttura. Del Basso assicura che provvederà subito a far presentare l’emendamento dall’onorevole Enza Bruno Bossio. Un’ora dopo manda un sms e conferma l’avvenuto deposito». La norma in realtà viene bocciata ma la sua collaboratrice rassicura Incalza «perché sarà riproposto nella legge di Stabilità presentata direttamente dal governo avendo Del Basso già parlato con il ministro Lupi». Due giorni dopo Del Basso manda un sms a Incalza e «chiede aiuto perché un emendamento relativo a un’opera di suo interesse non è passato: ”Mi affido, come sempre, al tuo senso di responsabilità e alla tua esperienza della quale ho assoluto bisogno per realizzare l’opera”».
fsarzanini@corriere.it

CORRIERE DI STAMANI
MARIA TERESA MELI
ROMA Più che gelido è glaciale l’atteggiamento che Matteo Renzi riserva a Lupi nel giorno in cui il ministro viene coinvolto nell’indagine su Ercole Incalza. Il premier non cerca nemmeno il ministro per chiedergli spiegazioni. Meglio non parlargli, perché un colloquio telefonico del genere, in una giornata come questa, potrebbe finire molto male.
«Domani (oggi per chi legge ndr ) ne sapremo di più grazie a quello che uscirà e già adesso stiamo approfondendo quanto sia grave questa vicenda, ma è inutile girarci intorno, il problema c’è», dice ai suoi il presidente del Consiglio. E ha l’aria grave di chi non accetta che qualcuno gli rovini la festa proprio nel giorno in cui il governo sta andando avanti sul ddl anticorruzione: «Nessuno tuttavia utilizzi questi fatti per dare il messaggio che sono tutti uguali, che i grandi eventi tipo Expo non si possono fare, che siamo condannati a soccombere alla corruzione».
E ancora, sempre con i collaboratori, sempre con lo sguardo più cupo di chi non ammette «sgarri»: «Diciamoci la verità, parliamoci chiaramente senza troppi giri di parole, politicamente, Lupi non è facile da sostenere». E infatti dalla bocca del premier non esce una sola parola di solidarietà nei confronti del ministro delle Infrastrutture. L’importante per Renzi è «avere massima fiducia nella magistratura» e «attendere che faccia piena chiarezza».
Quel che gli uomini del premier lasciano intendere è che sarebbe quasi un sollievo per tutti se fosse lo stesso Lupi a trarre d’impaccio il governo dimettendosi preventivamente per ragioni di opportunità. In modo da non alimentare nuove polemiche o attacchi contro l’esecutivo. Se arrivasse una mozione di sfiducia individuale questa volta difficilmente si ripeterebbe il solito copione del governo che si stringe compatto al ministro messo nel mirino.
Del resto, la guerra contro quell’unità di missione che operava alle Infrastrutture e in cui lavorava Ercole Incalza Renzi l’aveva ingaggiata da tempo. E questo non può essere un caso. Il premier non era poi riuscito nel suo intento originario. Cioè quello di sopprimere del tutto quell’organismo. Ma non si era arreso e con lui non si erano arresi i renziani di Palazzo Chigi che continuano la loro lotta ai cosiddetti «mandarini» sempiterni del potere italiano. E infatti alla fine sono riusciti a «prepensionare» Incalza, che attualmente ricopriva il ruolo di consulente esterno del ministero di Lupi.
È chiaro, come spiega il sottosegretario Delrio a «Otto e mezzo», che «è prematuro chiedere le dimissioni di Lupi» e infatti nessun renziano di rango al momento le chiede. Però, come ripete il premier ai collaboratori, «un problema c’è e serve fare la massima chiarezza, cosa che dovrà fare anche Lupi». Il quale Lupi ieri sera ha incontrato Alfano, che, al contrario del ministro delle Infrastrutture, ha parlato con Renzi e ha compreso bene quale sia lo stato d’animo del premier. Toccherà a lui convincere Lupi a fare un passo indietro?
Comunque, per il momento a Palazzo Chigi si attende di capire quale sia la vera portata della vicenda. Oggi la lettura dei giornali servirà a Renzi per farsi un quadro più chiaro della situazione, poi assumerà le sue decisioni. Su un punto però il premier nutre una granitica certezza: «Io non prendo lezioni di moralità da nessuno». Il che vuol dire che si può essere garantisti, come lui è gia stato in passato. Ma se invece non si intravedono buoni motivi per seguire questa linea, allora è diverso. In casi come questi Renzi è pronto ad agire con quella determinazione che ha dimostrato in altre occasioni.

SERGIO RIZZO
Chi l’aveva incrociato al ministero delle Infrastrutture nei giorni di gennaio, quando Ercole Incalza svuotava i cassetti, apprestandosi a lasciare la sontuosa poltrona di capo della struttura tecnica di missione delle grandi opere pubbliche lo descrive contrariato. Anche se in fin dei conti la scelta di andarsene era stata sua.
Il ministro delle Infrastrutture l’avrebbe tenuto un anno ancora. Nella legge di Stabilità approvata a dicembre avevano infilato apposta per lui un’altra proroga annuale. La quarta consecutiva, sebbene Incalza avesse già superato i 70 anni, compiuti ad agosto. C’è chi dice che non si fosse sentito adeguatamente difeso contro le critiche che cominciavano a piovere da tutte le parti.
La verità è forse che il suo formidabile potere su quel ministero aveva cominciato a scricchiolare. Di sicuro, l’età e i precedenti non gli avrebbero sbarrato la strada verso un altro prestigioso incarico: da settimane circolava la notizia di una sua imminente nomina alla Banca europea degli investimenti. La struttura di Bruxelles che finanzia le opere pubbliche, nientemeno. Un salto della barricata niente male. Ora evidentemente sfumato.
La vicenda di Incalza è un classico tutto italiano, con la burocrazia che va a braccetto con la politica e la politica che non sa (e non può) liberarsi di quell’abbraccio. Una storia, la sua, che inizia nella Prima Repubblica al tempo di quella che veniva appellata la sinistra ferroviaria, con tutto il carico lottizzatorio insito nella definizione. E continua nella Seconda Repubblica, dopo un passaggio ai vertici dell’Alta velocità delle concessioni spartite a tavolino, in uno slalom fra procedimenti giudiziari che vedono il Nostro uscirne sempre indenne.
È con Pietro Lunardi, ministro del secondo governo Berlusconi, che si installa di nuovo a Porta Pia, e in un ruolo chiave: capo della struttura che deve sovrintendere alle grandi opere pubbliche. Siamo nel 2001, è arrivata la legge obiettivo e il Paese è in pieno inconcludente delirio costruttivista. Le inchieste giudiziarie anni dopo aggiungeranno dettagli non marginali. Ci resta 5 anni, finché il Cavaliere deve lasciare Palazzo Chigi a Romano Prodi e al ministero è la volta di Antonio Di Pietro. Che lo silura senza complimenti. «Lo mandai via», dice l’ex pm. Ricordando «se non proprio le pressioni, quantomeno le indicazioni perché lo lasciassi dov’era».
Niente paura: Incalza ritorna allo stesso posto con Altero Matteoli. E resta con il governo Monti e Corrado Passera ministro. E il governo Letta e Maurizio Lupi ministro. E il governo Renzi e ancora Lupi ministro. Nessuno sente il campanello d’allarme che squilla quando salta fuori che il genero di Incalza ha comprato casa in parte «a sua insaputa» con un gentile aiutino di Diego Anemone, quello della cricca degli appalti dei Grandi eventi. Nessuno. Non era un segnale che avrebbe consigliato prudenza? Vale la pena di ricordare, a questo proposito, come Lupi arginò in parlamento l’offensiva dei grillini che lo tempestarono di interrogazioni sul ruolo del capo della struttura di missione del suo ministero.
E qui siamo al punto, che certo non riguarda il solo Incalza. Quanti alti funzionari pubblici diventano inamovibili capitalizzando un rapporto incestuoso con politici di cui hanno custodito anche i più inconfessabili segreti? Quanti sono più potenti degli stessi ministri, scrivono le leggi e dettano addirittura la linea del ministero? Si dice che i ministri passano e i burocrati restano: una regola che nessun governo ha mai trasgredito. Non ci è riuscito, pare, neppure l’ultimo, che pure aveva dichiarato di voler mettere in discussione l’inamovibilità di certe posizioni.
Ci sono direttori che hanno occupato per decenni le stesse stanze. Decenni durante i quali gli armadi si potevano comodamente riempire di scheletri, con coloro che ne avevano le chiavi (in copia unica, va da sé) sempre più intoccabili. Anche in tali contesti, ovvio, prosperano inefficienze e corruzione.
Eppure l’antidoto sarebbe facilmente applicabile. Nessun alto funzionario pubblico, neppure il più irreprensibile e rigoroso, dovrebbe essere messo nelle condizioni di occupare troppo a lungo un posto di grande potere, soprattutto se le sue decisioni sono circondate dall’opacità. Nel nostro e nel suo stesso interesse. Come sostiene il presidente dell’autorità anticorruzione Raffaele Cantone, la rotazione degli incarichi può risultare il sistema più efficace non per combattere la corruzione, ma per prevenirla. Se vale per i vigili urbani, a maggior ragione non dovrebbe valere per i superburocrati?

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Prima Grillo, poi Nichi Vendola. La questione sull’opportunità della permanenza al governo del ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Maurizio Lupi alla luce dell’inchiesta di Firenze mobilita le opposizioni, in particolare il Movimento 5 Stelle. Intanto l’assemblea dei capigruppo al Senato ha deciso all’unanimità che il ministro dovrà riferire in Aula a Palazzo Madama.
Grillo: «Al Lupi! Al Lupi!»
E così Beppe Grillo scrive nel suo blog, con un post dal titolo «Al Lupi! Al Lupi!», : «Il governo è uno zoo. Se fuori ci sono i gufi e per tacitare in aula l’opposizione del M5S si usano i canguri, talvolta in formato maxi, non vanno trascurati Lupi, il figlio/a di Fantozzi e la giovane marmotta Renzie che piuttosto che fare un decreto legge contro la corruzione sacrificherebbe la sua mano come Muzio Scevola. Combattere la corruzione non è nelle sue corde. Preferisce dedicarsi alle “riforme” per disintegrare Costituzione e Parlamento. Quanto ci costa la corruzione? La stima supera tranquillamente i 100 miliardi di euro. E questi chiedono sacrifici agli italiani che attraverso le tasse e i costi maggiorati dei servizi pubblici la pagano?»
«Vogliamo i soldi che ha guadagnato come ministro»
«La risposta all’interrogazione M5S a Lupi di luglio su Incalza è emblematica» - aggiunge Grillo, «è stata scritta dal suo avvocato! Non un ministro, ma un difensore d’ufficio. Lupi deve dare spiegazioni, dimettersi e restituirci fino all’ultimo centesimo tutti i quattrini che si è beccato come ministro delle Infrastrutture. Li metteremo nel fondo per il microcredito alle aziende dove vengono versati gli stipendi tagliati dei portavoce M5S in Parlamento».
Nichi Vendola: «Corruzione nel cuore dello Stato»
Nichi Vendola, leader di Sel, incontrando i giornalisti a Bari ha parlato di «disvelamento di una corruzione che abita nel cuore dello Stato. Credo che bisognerà evitare questa volta di abbandonarsi a proclami moralistici». Per il presidente della Regione Puglia «c’è l’urgenza e la necessità di radiografare la vita e la resistenza di questo sistema corruttivo che riguarda soprattutto le grandi opere, il cui modello in genere è un modello di tipo emergenziale che procede con lo stile della deroga. Dalle cose che si leggono, lo dico con tutta la cautela, perché poi le posizioni individuali devono essere vagliate dai giudici nei luoghi opportuni - per Vendola - si ha come l’impressione che il trasversalismo della politica in qualche maniera alimenti il mercato della corruzione».
Mozione di sfiducia
Intanto però anche il capogruppo di Sel Arturo Scotto propone una mozione di sfiducia comune per il ministro Lupi. Scotto lancia la sua proposta «a tutte le opposizione, ad aree del Pd e anche ad altre aree» del Parlamento. «Sarebbe un atto di forza e un segno di interesse reale» per la «scioccante» vicenda dell’inchiesta «Sistema» sottolinea Scotto.
Delrio
«Siamo a 24 ore da una notizia. Vedremo quello che emergerà , oggi non abbiamo elementi per dire» replica alle opposizioni il sottosegretario alla presidenza del Consiglio dei ministri Graziano Delrio. «Intanto il ministro Lupi - ha aggiunto Delrio - non è stato chiamato in causa dalla magistratura».