Luca Bergamin, SportWeek 14/3/2015, 14 marzo 2015
UN OLÉ DA TORERO
Rojo a las cinco de la tarde. Il rosso è il colore della corrida: la tenzone, impari e cruenta, sanguinaria soprattutto per l’animale, tra uomo e toro. Da secoli, anche se oggi molto meno rispetto a una ventina di anni fa, va in scena alle cinque del pomeriggio nelle Plaza de Toros di tutta la Spagna (a eccezione delle isole Canarie e della Catalogna abolizionista dal 2012), della Francia del Sud, del Portogallo, del Messico e, in misura minore, di altri Paesi dell’America Latina come Venezuela, Perù, Colombia, Ecuador, Bolivia, Panama e Costarica.
In qualunque modo la si pensi – l’ultimo sondaggio Gallup rivela che l’82% degli spagnoli vorrebbe farla finita per sempre con questa tradizione risalente al XV secolo, quando a Barcellona i nobili sfidavano i tori nelle piazze della città catalana, mentre in Italia una Giostra dei tori si praticava nello Sferisterio di Macerata, in Campo San Polo a Venezia e pare anche nello Stato Pontificio –, la corrida fa parte della storia del popolo iberico. E quando compare il paseillo, ovvero il corteo degli alguaciles, gli araldi a cavallo con costumi del Seicento spesso di colore rosso, accompagnati dalla banda di trombe e tamburini, nella Plaza de Toros de Las Ventas di Madrid, alla Maestranza di Siviglia o nella Malagueta di Malaga, ogni spagnolo sente bollire nelle vene il proprio sangue, rosso.
«Con el permiso de la autoridad y si il tiempio lo permite» sono le parole rituali pronunciate dal Presidente: tra uno sventolio di abanicos, i ventagli in tela e legno rosso, uno svolazzo di abiti da flamenco, il tradizionale vestito lungo a balze a pois rossi e lo scialle che le donne andaluse dalle labbra marcate dal rossetto rosso carminio indossano durante le ferias per assistere alle corride, comincia il tercio de varas. È il primo dei tre atti di questa forma moderna di tauromachia dal giro d’affari di 300 milioni di euro l’anno, in cui ogni dodici mesi sono uccisi tremila tori, contro i poco più di quaranta toreri che hanno perso la vita in quattro secoli. Il toro “bravo”, come vengono chiamati quelli da combattimento dal mantello marrone e rosso che, secondo gli allevatori, sono cresciuti e accuditi con cura amorevole (dalla vendita della carne degli animali morti nelle arene si guadagnano circa 3 milioni di euro all’anno), fa il suo ingresso nella lidia già scombussolato secondo gli animalisti sarebbe tenuto al buio, alterato da sostanze per indebolirne le forze, colpito ai reni con sacchi di sabbia, e gli verrebbero inserite stoppa nelle narici e vaselina negli occhi.
Poi entra in scena quello che nell’immaginario della España profunda, quella più tradizionalista e politicamente rappresentata dal Partido Popular del premier Mariano Rajoy, grande aficionado della corrida, e agli occhi del pubblico femminile (José Mari Manzanares junior, Cayetano Rivera e Javier Conde sono considerati sex symbol più dei calciatori del Real Madrid), incarna il machismo e il coraggio: el matador. Cresciuto nelle accademie e nelle scuole di tauromachia dove impara poco più che bambino a infilzare il costato di tori di legno, il torero, “trafitto” dal sole delle cinque di pomeriggio, colpisce prima di tutto per la brillantezza del suo traje de luces dai mille riflessi. In testa porta la montera nera, intorno al collo è annodato il corbatin, una piccola cravatta anch’essa nera ma talvolta anche rossa, ma ad attirare gli sguardi e a calamitare i raggi del sole sono la chaquetilla e la taleguilla rosso granato, porpora, azzurro chiaro, tabacco e rosa pallido fatte luccicare dalle paillettes, gli alamari, le decorazioni in oro e argento. La giacca è corta e rigida con le spalle grandi e l’apertura sul giromanica, i pantaloni sono attillati, arrivano poco sopra il ginocchio e sono fissati con bretelle strette; le calze sono rosa o rosse. Questo, insieme al rosa e al giallo, è anche uno dei due colori della cappa in seta, il capote, che il torero maneggia con grande destrezza per ingannare, disorientare, domare e vincere il toro. Dopo l’azione violenta e agile di picadores e banderilleros, la corrida vive il suo momento più atroce per gli uni, emozionante per gli altri: nel tercio de muleta, el matador, prima con un mantello più grande, la muleta rossa, chiama a sé e fa roteare il toro ormai completamente stranito e agonizzante. E poi lo uccide conficcandogli l’estoque de descabellar, lo spadino dall’impugnatura rossa. Talvolta, però, in quella che il Premio Nobel per la letteratura Ernest Hemingway definì “una tragedia recitata, più o meno bene, dal toro e dall’uomo insieme, in cui c’è pericolo per l’uomo ma morte sicura per l’animale”, può esserci un finale diverso. Talvolta il toro dà una prova di tale coraggio o di scaltrezza che il presidente espone sul palco un fazzoletto rojo arancio. È il segno che ha ottenuto l’indulto. Sulla sabbia dell’arena non sarà sparso, almeno stavolta, il suo sangue rosso.