Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  marzo 14 Sabato calendario

A BERLUSCONI DIREI SEMPRE NO


[Paolo Sollier]

Certo che anche lei, con quel pugno chiuso verso il cielo tutte le domeniche... «Guardi che non era propaganda. Non era un gesto indirizzato ai tifosi ma a me stesso, per ricordarmi ogni volta chi fossi e da dove venivo. E per far sapere ai miei amici che restavo quello di sempre. Il ragazzo che al campetto, tanti anni prima, così si rivolgeva a loro. Con quello che per noi era un segno di riconoscimento».
Sia chiaro: Paolo Sollier, 67 anni, all’epoca (1974-76) centrocampista del Perugia in B e in A, non rinnega certo quel pugno chiuso nel classico saluto comunista. Anche perché comunista lui era per davvero. E perché oggi è più “rosso” di ieri. «L’età e l’esperienza ti regalano una visione delle cose molto più asciutta: io ho poche certezze, ma faccio ancor meno ipotesi. Perciò mi schiero più facilmente. Le diseguaglianze sociali sono aumentate rispetto agli Anni 70, quanto il mondo sembrava poter diventare più libero. Oggi stiamo tornando indietro, e lo stiamo facendo in modo fragoroso e minaccioso anche nella società occidentale dove vedo meno diritti e meno opportunità. Lo diceva già Pasolini: progresso non fa rima con sviluppo». Quarant’anni fa Sollier era il politicizzato, il contestatore, «ma io non mi sentivo tale. Piuttosto, uno che, partendo dal mondo cattolico e dal volontariato, aveva deviato a sinistra per combattere le diseguaglianze sociali». E come si conciliava la sua militanza a sinistra con i guadagni da calciatore? «È la critica principale che mi è stata rivolta, ma il mio era lo stipendio di un buon impiegato. Se mi sentivo un privilegiato era per un altro motivo, perché facevo il lavoro dei miei sogni, il calciatore. Una fortuna che capita a pochi. Il mio dramma è stato un altro: non poter rintuzzare le accuse facendo la differenza in campo. Non ero abbastanza bravo, perciò i miei denigratori avevano gioco facile nel dire che facevo politica perché come calciatore ero scarso».
Se non altro, dirigenti, allenatori e compagni non gli hanno mai fatto problemi. «Nello spogliatoio contava condividere l’obiettivo comune – vincere alla domenica – e da questo punto di vista sono stato inattaccabile: nessuno ha mai dovuto rimproverarmi di scarso impegno. E poi i compagni non mi avrebbero mai permesso di fare propaganda, né d’altra parte era mia intenzione. Perciò, di questioni extracalcistiche ho dialogato con pochi. Una volta, a Perugia o forse a Rimini, con altri colleghi sensibili verso certi temi costituimmo una sorta di circolo culturale. Alla prima riunione ci ritrovammo in 6 o 7. Capimmo che era meglio lasciar perdere».
E i suoi tifosi come reagivano alla sua dichiarata fede politica? «Quelli di sinistra mi applaudivano anche se giocavo da schifo, quelli di destra fischiavano in ogni caso, che facessi bene o male. A Perugia c’erano tre giornali, uno di sinistra, uno di centro e uno di destra. Per capire come fossero schierati politicamente bastava leggere la mia pagella del lunedì». Sollier per chi ha votato l’ultima volta? «Alle Europee, per l’Altra Europa di Tsipras». In Italia? «A sinistra ci sono praterie che il Pd non ha nessuna voglia di occupare perché ormai è un partito di centro, Renzi fa riforme che accontentano la destra. E se è contenta la destra, non posso esserlo io». Ma oggi sarebbe possibile salutare in campo col pugno chiuso? «Sarebbe ancora più facile perché il gesto diventerebbe virale». E lui, ora allenatore disoccupato, siederebbe sulla panchina del Milan di Berlusconi? «So che rischio di fare la figura della volpe con l’uva, ma la risposta è no. Non ci penso nemmeno».