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 2015  marzo 15 Domenica calendario

COSA DICE UN VERO POETA

L’anno 1975, è stato notato, ha segnato una data rilevante per la poesia italiana. Nei pochi mesi di quell’autunno accadde che Montale vinse il premio Nobel; Pasolini fu ucciso a Ostia, i giovani Alfonso Berardinelli e Franco Cordelli fecero uscire Il pubblico della poesia, un’antologia presto paradigmatica, e da Garzanti apparve Il muro della terra, il libro che aprì all’ultima stagione di Giorgio Caproni, segnata da un verso canoro ma diroccato, dalla ricerca di Dio e dall’indagine sui «territori non giurisdizionali» di un paesaggio aspro, refrattario e assoluto.
Dalla fine degli anni Trenta in avanti Caproni era stato soldato del Regio Esercito, poi partigiano, infine maestro elementare; aveva redatto un gran numero di recensioni letterarie, aveva sparso su quotidiani e riviste dei «racconti scritti per forza», secondo la sua stessa definizione, si era impegnato in traduzioni da Proust, Céline, Cendrars, Frénaud, Apollinaire; aveva vinto due volte il Premio Viareggio. Un lavoro continuo, sfibrante, di cui la poesia ha rappresentato il momento di eccellenza, fino a restare padrona del campo proprio a partire da quegli anni Settanta, seguita da un crescente drappello di lettori, critici ed esegeti.
Oggi – con l’eccezione di una lunga conversazione radiofonica del 1988 apparsa tempo fa in un volume a sé – le interviste e gli autocommenti disseminati da Caproni durante la sua carriera sono stati raccolti e annotati da Melissa Rota in un volume introdotto da Anna Dolfi, cosicché è facile accorgersi che almeno 114 delle 141 interviste presenti nel volume sono state effettuate da quell’autunno del 1975 in poi. Titolare di una popolarità capace di prescindere dal suo stesso, indubitabile, peso storico-letterario, in queste pagine lo schivo poeta di Livorno appare a volte laconico, spesso portato a ripetersi, ancor più spesso indotto a divincolarsi da vecchi e cristallizzati luoghi comuni, come la sua inclinazione melodica da “canzonettista” e rimatore o la sua discendenza da Saba. Ma più volte, di fronte a interlocutori congeniali e discreti, giunge a illuminare parti di sé, fa riemergere degli aneddoti decisivi, ricorda autori letti in tempi remoti, oscillando fra abbandoni narrativi e la gelosa renitenza di chi non vuole “spiegare” i propri versi, accarezzato e preoccupato insieme da un’attenzione al tempo stesso meritatissima e lievemente impropria.
Dopo il Meridiano dell’opera in versi, l’einaudiano Quaderno di traduzioni, la ponderosa edizione completa delle prose critiche e la raccolta dei racconti, questo volume colma di fatto l’ultima lacuna editoriale di quello che ormai è riconosciuto come il più grande poeta italiano dopo Montale. È ora dunque di chiedersi se quella sua popolarità e la confidenza con cui la critica accademica lo ha pienamente adottato possono indurre a qualche sospetto, persino affettuoso e molto simile alla condiscendente diffidenza con cui il poeta stesso andava incontro a critici e intervistatori. Sovente, ad apertura di queste pagine, Caproni afferma che il proprio grande tema è «la difficoltà a conoscere il reale», il fatto «di non poter conoscere, di non poter sapere», la fallibilità della parola nei confronti dell’oggetto. E allo stesso tempo eccolo ribadire che è inconcepibile «una poesia del tutto campata in aria, cioè senza profonde radici nel vissuto», dato che «la poesia è – vorrebbe essere – soprattutto esperienza». Poeta di ateologia e di musica tonale, di allegorie desolanti ma anche di allegri paradossi, Caproni è stato letto come uno dei moderni corifei della negatività, protagonista in ultimo di una vera e propria “morte bianca” della poesia. Ecco la chiave del suo successo, ma anche il suo lato ambiguo. Non fosse per il suo ineliminabile “buon senso”, per l’empirismo scontroso ma inesausto, per la felicità istintiva delle sue gabbie sonore, dei suoi concreti smarrimenti.
Paolo Febbraro, Domenicale – Il Sole 24 Ore 15/3/2015