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 2015  marzo 15 Domenica calendario

EUROTTIMISTI ALLA PROVA DEI NUMERI

Prendi due bei giorni di quasi primavera sulle rive del Lago di Como, un centinaio di finanzieri, economisti e politici e una moneta unica in grande calo. Aggiungi la voglia disperata di uscire da una lunga crisi, gli interessi d’investitori alla ricerca di affari e l’effetto-eco tipico di questi simposi. Mescola il tutto, con un pizzico di speranza e miopia q.b., et voilà: ecco la ricetta dell’eurottimismo.
Dopo molti anni bui, non è stata solo la vista mozzafiato a mandare in brodo di giuggiole i partecipanti al summit organizzato dalla Ambrosetti House a Cernobbio. Nella settimana in cui la Banca Centrale Europea ha cominciato a stimolare la zona euro con acquisti di obbligazioni governative, l’élite politico-finanziaria ha annuito, applaudito e si è preparata alla festa.
C’era chi, come un grande investitore di private equity, ha detto che comincerà a guardare ad acquisizioni di piccole e medie società italiane perché costano poco ed hanno il know-how per far bene nel mondo. C’era chi, come un dirigente di una banca di Wall Street, ha consigliato di «investire tatticamente» in Europa mentre il continente è sul tavolo operatorio della Bce.
E c’era chi ha predetto che, tra euro basso e crollo nel prezzo del petrolio, il momento d’oro della zona-euro è dietro l’angolo.
Purtroppo, però, ci sono anche i numeri. Freddi e impassibili, raccontano una storia diversa. La storia di una zona euro che è cresciuta di uno striminzito 0,4% all’anno, in media, dal 2011 e che nel 2015 e 2016 non dovrebbe superare l’1,7%. Come il povero Giappone e molto meno degli Stati Uniti (per non parlare della Cina e dell’India). Un’Europa dove i consumi saliranno del meno del 2% e dove la crescita degli investimenti sarà la metà di quella degli Usa.
Chi ha ragione? Gli eurottimisti che parlano di ripresa, inizio della fine e luce in fondo al tunnel? O gli scettici che dicono che l’anemia economica è cronica per via di enormi problemi finanziari, demografici e politici?
La posta in palio è sostanziosa. Se vince chi pensa positivo, qualche investitore diventerà molto ricco, comprando beni e società a poco prezzo adesso per rivenderli quando l’Europa rialza la testa. E politici e banchieri centrali potrebbero passare alla storia come i Franklin Delano Roosevelt dell’era moderna.
Ma se la visione rosea è solo un miraggio, una delle più grandi zone economiche del mondo si ritroverà alla deriva senza motori, incapace di salvare se stessa, ma capace di far naufragare il resto del mondo in un’altra recessione. «Attenzione perché qui qualcuno si può far male», mi ha detto un economista sulle rive del lago.
Molto dipenderà dai tre grandi pilastri della ripresa europea: l’euro basso, il calo nel prezzo del petrolio e i consumi.
Il primo per ora sembra solido. Le misure di stimolo della Bce faranno abbassare ulteriormente i tassi d’interesse, la kriptonite delle monete. L’effetto già si sente: questa settimana l’euro ha toccato il livello più basso negli ultimi dodici anni nei confronti del dollaro. Questa è musica per le orecchie di Paesi esportatori quali la Germania, la Spagna e, ovviamente l’Italia. Dal maggio scorso, la Bmw, Zara e Prada e tutte le altre società europee che vendono all’estero hanno recuperato circa il 35% della competitività.
Il calo nel prezzo del petrolio dovrebbe ridurre i costi per aziende e comuni mortali, anche se i governi si terranno buona parte dei ricavi con le tasse. L’Europa deve comunque sperare che il greggio continui a scendere perché l’alternativa sarebbe un triangolo delle Bermude di euro basso e petrolio alto che manderebbe alle stelle il costo dell’ energia importata.
I consumi sono un’altra storia. Il problema è che l’ondata di denaro a basso prezzo creata dalla Bce s’infrangerà sui mercati del capitale, ma i veri meccanismi di trasmissione finanziaria in Europa, a differenza dell’America, sono le banche. È vero che gli istituti di credito beneficeranno indirettamente dalle operazioni di Mario Draghi, ma è anche vero che non sono obbligati a dare in prestito i nuovi fondi a società e compratori di case.
Anche se lo facessero, non è garantito che i nostri compatrioti abbiano voglia di spendere. Anni di cinghie tirate hanno reso i cittadini del Sud d’Europa molto più tirchi, con tassi di risparmio che sono simili a quelli del Giappone. È come se la Bce stesse pompando benzina in una automobile senza essere sicura che il carburatore e il motore funzionino.
Come se non bastasse, la Grecia aleggia minacciosa, alternando tragedia e commedia. A Cernobbio, ha prevalso la seconda, con l’istrionico e telegenico ministro delle Finanze Yanis Varoufakis in primo piano. Un sofista moderno, il bel Yanis ha lanciato attacchi arguti, ma non giustificati all’Europa e agli organismi internazionali per i guai creati dai greci e i loro governanti.
Ma al di là delle polemiche e del «piano Merkel», una proposta non seria di Varoufakis per rilanciare gli investimenti, non ci sono grandi idee per evitare il «Grexit» che spaccherebbe l’euro. E al di là dello stimolo massiccio della Bce, e il fatto che, prima o poi il ciclo economico migliorerà, non ci sono altre grandi ragioni per schierarsi con gli eurottimisti.
Il grande umorista americano Edgar Wilson Nye, che non era un fan di compositori tedeschi, una volta disse che la musica di Wagner è meglio di come è suonata. La ripresa economica europea è l’opposto: peggio di come è descritta.
Francesco Guerrera, La Stampa 15/3/2015