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 2015  marzo 15 Domenica calendario

QUELLA MALEDETTA PALLA OVALE

Oggi pomeriggio allo stadio Olimpico la Nazionale italiana di rugby si batterà — questo è il termine giusto — contro quella francese. È un evento che nel suo processo assomiglia alla preparazione dello zabaione. I giornali sportivi hanno la funzione di frullatori, montando il caso con le iperboli permesse dallo sport, irrazionale come il sesso o la guerra, fino a gonfiarlo oltre misura. L’ambiente del rugby sembra essere mosso da una serie di movimenti frenetici che ricordano il ballo dei tarantolati. Dopo la partita contro la Scozia, vinta due settimane fa con un senso straordinario delle opportunità, tutti si aspettano che quest’ultimo scontro sarà di genere storico e porterà stabilmente l’Italia allo stesso livello dell’Irlanda, della Scozia o del Galles. Visto da un punto meno ottimistico e più realista, le vicende rugbistiche di casa nostra hanno l’aspetto del deja-vu e del retrò. Saranno almeno cinquant’anni che si va avanti di momenti definiti decisivi in momenti altrettanto decisivi: un andamento a singhiozzo che segue come un leit motiv le vicende del rugby italiano, senza che succeda nulla. Ricordo una partita a Roma nei primi anni Cinquanta dove la Nazionale era composta quasi interamente da giocatori della Rugby Roma. All’epoca questo sport era quasi completamente sconosciuto alle masse italiane che pensavano solo al calcio e a “Marisa”, com’era chiamato Boniperti, a Coppi e Bartali. I giocatori erano tutti dei giovanotti borghesi benestanti o studenti, eleganti e nullafacenti che avevano scoperto il rugby per caso. Erano quasi tutti soci dell’Aniene, all’epoca uno dei migliori circoli canottieri di Roma che aveva uno zatterone sul Tevere sotto il ponte Cavour. Durante il fascismo alcuni soci si tuffavano nel fiume col corpo rigido e la mano alzata nel saluto fascista mentre gridavano “eia-eia-alala!”.
Ma a partire dal Dopoguerra molti di loro, che non erano per niente fascisti, optarono per il rugby. Questi ragazzi si chiamavano Bubi Farinelli, Paolo Rosi, Fausto Perrone, Piero Marini. Farinelli era un cardiologo, nipote di Mascagni, che parlava arrotolando la raccompagnandola a un ghigno continuo, una combinazione che aveva sempre successo. Era un duro che sfotteva tutti e assomigliava a un personaggio allora assai popolare dei romanzi gialli, Lemmy Caution. Rosi, che diventerà notissimo come il migliore telecronista di atletica leggera che abbia mai avuto la Rai, era un tre quarti dallo scatto veloce e imprevedibile, imbattibile sulla partenza. Il suo istinto lo portava sempre a trovare il punto debole della linea avversaria. Il suo modo di giocare era la dimostrazione che il rugby non è mai stato “un gioco di scacchi in velocità”, un detto condiviso da molti teorici di questo sport che non sono mai scesi in campo. I migliori giocatori hanno sempre interpretato a modo loro i consigli tecnici degli allenatori prima della partita: quando uno giocava, le tattiche prefabbricate non funzionavano, bisognava sempre improvvisare. Una volta uno storico medievale che conosceva questi rugbisti disse che le azioni di Rosi assomigliavano a quelle messe in atto da Subotai, il grande generale di Gengis Khan studiato da Patton e Rommel. Ma l’accostamento non venne capito perché nessuno sapeva chi fosse Subotai. (L’unico di tutta la storia del rugby che non aveva bisogno di trovare un varco, perché nessuno era in grado di fermarlo, era un gigante alto 1,98 che pesava 120 chilogrammi e correva i cento metri in 10.8 secondi. Si chiamava Lomu, era un neozelandese degli All Blacks, il più straordinario atleta e rugbista di tutti i tempi fino a quando non venne atterrato dalla nefrite. Tentare di fermare Lomu era un’azione temeraria, che aveva le stesse probabilità di fermare un treno mettendosi sulle rotaie e sventolando una bandierina rossa).
Il capitano della Nazionale era mio zio Piero Marini, detto “piedino d’oro”: realizzava la maggior parte dei punti con un calcio di rimbalzo, il drop, riuscendo a far passare il pallone oltre la sbarra della porta da distanze inverosimili. Altri giocatori della Rugby Roma che facevano parte della nazionale erano Fausto Perrone, un piccoletto dalle straordinarie capacità contorsionistiche che giocava come mediano e riusciva sempre a infilarsi nelle mischie più confuse uscendone con il pallone in mano. Tutti questi giocatori avevano fisici molto differenti da quelli di oggi, deformati da una ginnastica eccessiva e con il collo taurino. Faceva eccezione Umberto Silvestri, talloneur della mischia e campione mondiale di lotta greco-romana: un colosso dalla voce possente, che aveva interpretato la parte di Polifemo nel film Ulisse di Mario Camerini. Umberto aveva una macelleria in Piazza dell’Unità, a Roma, in cui si serviva mia nonna, e da lontano quando la vedeva arrivare si affrettava a tirar fuori i migliori pezzi di carne e a metterli sul banco per ricavarne saltimbocca alla romana. D’estate andavano tutti a fare il bagno a Ostia, allo stabilimento La Vecchia Pineta, allora il più chic di tutta la costa, un posto frequentato da Fellini che veniva a mangiare le fettuccine fatte in casa. Sulla spiaggia, verso il tardo pomeriggio, quando non si scottavano più i piedi con la sabbia rovente, i rugbisti si mettevano in fila in diagonale esibendosi in un attacco dei tre quarti che si svolgeva attraverso gli ombrelloni con le ragazze eccitate che strillavano i loro nomi. E i rugbisti si mettevano a correre passandosi la palla con indosso gli slip microscopici stretti da laccetti che mettevano in evidenza tutta la muscolatura e il “pacco”, com’era definito in un romanesco da galera. Qualche metro più in là prendeva il sole Alberto Arbasino: uno dei suoi racconti preferiti era quello del ronzìo di calabroni che lo inseguiva ovunque andasse. Non erano calabroni, erano ragazzetti romani che dicevano “cazzo, zozzo, borzetta”!
In questa squadra di benestanti e di rentier, l’unico proletario — oltre Silvestri — era il figlio del custode dei campi dell’Acqua Acetosa: si chiamava Franco Perrini ed era nato col pallone da rugby in braccio. A diciotto anni era entrato nella Nazionale come estremo e si era sempre battuto bene. Fu l’unico a essere intervistato dopo la partita persa contro la Francia e quello che disse è rimasto celebre negli annali del rugby romano: « M’aveveno detto che li francesi ereno forti: nun so’ nisuno!», una frase che fu ripetuta per mesi dagli altri giocatori, tutti distinti snob. Ma per quanto fossero radunati in formazioni temibili, nelle tournée all’estero gli italiani andavano sempre incontro a una serie di sconfitte che venivano mascherate da onorevoli e sfortunate partite.
La prima volta che gli italiani batterono i francesi è stata il 22 marzo del 1997 a Grenoble. La partita ebbe un andamento particolare, con Diego Dominguez, probabilmente il miglior giocatore che abbia mai avuto la Nazionale, che da solo realizzò 22 punti e Paolo Vaccari, uno dei più forti trequarti in tutta la storia del rugby italiano, che segnò la quarta meta.
Nel frattempo il rugby stava cambiando. Non era mai stato quello sport impeccabile, con giocatori finti gentiluomini che dicevano di avere come regola il fairplay tradizionale delle università inglesi. I francesi, con tutta la loro eleganza, presentavano ogni tanto degli avanzi di galera messi in squadra per fare male e per un certo periodo, prima della Seconda guerra mondiale, la Francia era stata esclusa dalle competizioni internazionali perché troppo rissosa. Adesso sui campi europei erano scesi dei giganti dalla pelle marrone chiaro-dorato: una razza chiamata polinesiana aveva colonizzato tutto il Pacifico dalle Filippine fino all’isola di Pasqua. Il posto da cui erano partiti per le loro audaci migrazioni era la Nuova Zelanda che rimaneva la patria dei Maori, i guerrieri più formidabili dell’Oceano Pacifico. Nei diari di bordo di Cook, che fu il primo a incontrare una canoa di Maori a doppio ponte che era più lunga della Endeavour, la sua nave inglese, è registrata la grande impressione che fece questo popolo orgoglioso e suscettibile sull’ammiraglio inglese. Tutti avevano delle possibilità fisiche incredibili. E fu subito chiaro che gli europei non ce l’avrebbero mai fatta contro questi squadroni che sembravano non conoscere la stanchezza in campo. La famosa haka, anche se non sempre è un canto di guerra, è un modo brutale di intimorire l’avversario, e spesso i Maori ci sono riusciti. Una delle poche volte che ho visto il meccanismo intimidatorio funzionare a vuoto è stato proprio in una (celebre) partita persa con la Francia, quando durante la danza la squadra francese arrivò a pochi passi dai neozelandesi impedendone i movimenti, accompagnata da tutto lo stadio che cantava la Marsigliese . Era un modo di dimostrare che la tradizione europea non si faceva intimidire da una danza che veniva dal lontano Pacifico.
Ma gli All Blacks, con le loro immense capacità fisiche, hanno annullato la divisione tra avanti più pesanti e lenti e trequarti scattanti, leggeri e veloci. Ormai il tipo fisico del giocatore internazionale di rugby ha la struttura dell’avanti e la velocità del tre quarti. Certo, per quanto possano essere rapidi nella corsa questi nuovi giocatori costruiti a tavolino, non raggiungeranno mai la velocità di Carlin Isles, un nero non alto che gioca ancora per gli Stati Uniti accreditato di 10.2 secondi sui cento metri e che quando partiva in uno dei suoi scatti il commentatore lo salutava dicendo “Goodbye, Carlin! Ci vediamo la prossima volta!”.
Anche l’Italia è molto cambiata dal tempo della Rugby Roma, ma lo spirito di questo straordinario sport resta il più adatto a correggere il narcisismo e l’individualismo eccessivo, ereditato dal gioco del pallone. Nel rugby la meta non è mai il prodotto di un’azione singola ma di una collaborazione stretta che consolida l’amicizia tra gli atleti. Ed è sempre la squadra che vince, mai un solo giocatore, per quanto bravo. Si sono fatti passi da gigante in cinquant’anni, soprattutto nel Nord Italia, dove l’arrivo di nuovi dirigenti e un certo professionismo hanno portato a un’evoluzione della squadra, che finalmente si è battuta senza complessi di inferiorità ma con uno slancio mai visto prima. Tuttavia alcuni vecchi difetti rimangono. Il più grande è la mentalità difensiva che gli azzurri continuano a portarsi dietro, cercando non di vincere ma di limitare i danni. Per ottenere quello che inseguono da tanto tempo, i giocatori italiani devono invece rischiare, limitare il gioco difensivo degli avanti e giocare ogni volta che sia possibile alla mano, anche rischiando il contropiede. Attaccare, attaccare, attaccare e che Dio ce la mandi buona.
Stefano Malatesta, la Repubblica 15/3/2015