Filippo Ceccarelli, la Repubblica 15/3/2015, 15 marzo 2015
DA NORD A SUD, TRIONFA IL PARTITO DEI FRONDISTI
Un sabato di ordinaria frammentazione. Landini accusa il Pd. Fitto accusa Berlusconi. Tosi accusa Salvini. Bersani accusa Renzi. In una medesima giornata, ai quattro punti cardinali dell’Italia centro-nord si raccolgono dissidenti di ogni ordine e grado per contarsi, minacciare scissioni o dar vita a ulteriori partiti, partitelli, partitini, oppure movimenti, come si dice quando non è ancora chiaro chi, come, quando.
A Torino i “ricostruttori” di Forza Italia contro l’imminente e/o rigeneratasi “Forza Silvio”; a Bologna i superstiti della “ditta” di “Area dem” si dislocano contro — ma non tutti — il Partito democratico di TurboRenzi; alla fiera di Verona i seguaci di Tosi finalmente fuoriescono dalla Lega di Capitan Salvini per dare vita a un’entità battezzatasi “Verso il Nord-Popolo Veneto”; infine a Roma, alla sede della Fiom, si sono visti con Landini quanti a sinistra del renzismo, ma senza contaminazioni con Sel, sono (o sarebbero) interessati a una cosiddetta “Coalizione sociale” che si rifà (o dovrebbe rifarsi) all’esperienza spagnola di “Podemos”, e un po’ anche di Syriza.
Solo l’elenco delle varie iniziative dissenzienti prende tempo, spazio e buona volontà. Un sabato di ordinarie emozioni: Tosi si è commosso; il comizio di Fitto ha incontrato lo sdegno dei berlusconiani che non si sono nemmeno presentati; Landini ha parlato di diritti da un foto-palco adornato con un casco operaio dell’Ilva; e quanto a Bersani, ha detto che lui non vota l’Italicum, ma non intende andarsene dal Pd perché è “casa mia”.
A questo proposito si può notare che dal punto di vista lessicale politica viene dal greco antico “polis”, la città, mentre la “casa”, che in greco fa “oikia”, ha dato seguito all’economia. Bersani certamente lo sa e quando ha evocato “casa” era per far capire meglio. Ma certo i due termini, e anche i riferimenti, sono diversi. Forse anche per questo è difficile appassionarsi a tali vicende intestine. E in qualche misura, pur con tutto il rispetto, fanno anche riflettere questi sforzi ormai seriali, questo agitarsi il fine settimana attorno a questioni troppo più grandi delle singole volontà dei politici che fino a notte fonda si vedono recitare nei salotti televisivi.
Ognuno di loro ha i suoi motivi, i suoi argomenti, i suoi progetti, le sue opinioni, forse perfino delle idee — parola impegnativa. Ma su tutto prevale — anche in loro, che pure di cercano disperatamente di non darlo a vedere — un’impressione di inutilità. Come se i tempi avessero oscurato, cancellato, ingolfato o bruciato la benché minima speranza o possibilità che da Fitto o da Bersani, da Tosi o da Landini, ma anche da Vendola, Alfano, i grillini o i Fratelli d’Italia possa venire qualcosa che modifichi non si dice qui il corso degli eventi, ma almeno qualcosina nei loro stessi partiti.
La politica, dice Landini, “non è proprietà privata”. Ma a volte sembra anche peggio: un oggetto di consumo, usa e getta. Questa sconsolata sensazione d’impotenza può avere mille ragioni, anch’esse più assai più potenti delle virtù e debolezze dei primi attori e dei co-protagonisti del teatrino e del teatrone.
C’entrano un leaderismo ormai spudorato e la proliferazione, ormai ovunque, dei “cerchi magici”: monarchia assoluta e tribalismo, le uniche due forme contemplate in questo eterno presente dove tutto è fluido, liquido, tattico, improvvisato, opportunistico, però quasi sempre euforico o lacrimevole e spesso cialtronesco.
C’entreranno anche il perenne conformismo italiano, il solito trasformismo, l’evoluta tirannia della comunicazione di massa che travolge la profondità e vanifica il confronto: come può un tweet determinare una discussione degna di questo nome? C’entrerà pure l’inconfessabile consapevolezza che la vera partita si gioca fuori dal campo, in Europa, sui mercati, nel quadro della globalizzazione e delle alleanze planetarie.
Ma certo il dissenso, tanto fuori quanto dentro il campo, è come minimo inattuale. Per non dire che appare morto e sepolto. I capi non se lo possono permettere, quindi nemmeno ascoltano le voci contrarie. Gli indisciplinati, d’altra parte, non sono disposti a pagare pegno, e infatti si auto-sospendono, cambiano gruppo, confluiscono altrove, oppure si separano dando vita a partitucoli che nascono e muoiono con la stessa brevissima facilità.
Ha scritto Gustavo Zagrebelsky: “Una delle espressioni più in uso e più violentatrici della politica è ‘Non ci sono alternative’”. Chi vi soggiace, continuava, non si accorge che sta procedendo verso il nichilismo. E De Rita metteva in guardia sulla fine della dialettica. Sarà anche un passaggio verso qualcos’altro. Ma intanto il vuoto è vuoto, e non lo riempiono di sicuro le sentenze e i rinvii a giudizio, i selfie e gli scherzi radiofonici, le felpe e i vaffa ringhiati in televisione.
Filippo Ceccarelli, la Repubblica 15/3/2015