Emanuele Trevi, Corriere della Sera - La Lettura 15/3/2015, 15 marzo 2015
I GIORNI DELLA PAURA
Chissà se tra duemila anni faranno una mostra sui sentimenti che stiamo vivendo, a Roma come in tutte le altre città del nostro mondo, sotto la minaccia dell’Isis. Come quella sul lungo tramonto dell’impero romano intitolata significativamente L’età dell’angoscia. Da Commodo a Diocleziano. Il titolo è lo stesso del più famoso poema di Auden. Oggi però siamo piombati in un ben diverso
clima psicologico, segnato da una discontinuità e una momentaneità delle emozioni che escludono la preminenza dell’angoscia, che in fin dei conti era un lungo e paziente lavoro di fortificazione della psiche.
Quello che colpisce, visitando la mostra nelle sale del Campidoglio, è la fisionomia degli imperatori e degli altri membri eminenti delle classi dirigenti. Pazzi o saggi che fossero, sembrano tutti per un motivo o per
l’altro inadeguati a fronteggiare le catastrofi a venire. Sempre meglio dei governanti toccati in sorte a noi, che le catastrofi non solo le hanno subìte, ma sono andati anche a suscitarle e renderle peggiori. Ma a che serve vivere deplorando gli errori del passato? È sull’imminenza di cose terribili e inaudite che dovremmo concentrarci.
Il video dell’Isis che mostrerebbe la decapitazione dei prigionieri copti sulle rive del
mare libico è un’oscenità, un atto di tetra e inguaribile demenza, un ordigno capace di lasciare un segno scuro in chiunque lo veda, per qualunque motivo lo veda. Nella produzione ininterrotta di immagini raccapriccianti che caratterizza questa guerra senza onore e senza quartiere, rappresenta una specie di raccapricciante salto di qualità. Fin dai primi secondi, infatti, si percepisce una specie di diabolica abilità, un sinistro intento artistico. Lo sforzo consapevole è quello di trascendere il documento, la materia grezza: il quotidiano macello di innocenti. Bene inteso, nulla ci viene risparmiato dell’esecuzione e dei suoi turpi rituali, compresa la solita allocuzione del boia incappucciato che brandisce il suo coltellaccio. Ma tutto, nelle intenzioni generali e nei procedimenti concreti attuati, indica la precisa volontà di trasformare il documento in monumento, suggerendo una legge universale, una fatalità storica e antropologica nella quale, volenti o nolenti, tutti si dovranno rispecchiare. È un obiettivo molto ambizioso, che si può ottenere a una sola condizione. Bisogna insomma che un singolo individuo si faccia carico di un’ideologia collettiva, fondata sulla ripetizione di un ristretto numero di formule stereotipate, dandone quella che potremmo definire una versione «d’autore». A differenza della normale propaganda, che è anonima e concentrata sulla chiarezza dei suoi contenuti, la rielaborazione individuale mira a un diverso tipo di efficacia, di suggestione psicologica. Punta le sue carte migliori su un fantasma di bellezza capace, nello stesso momento, di inorridire i nemici e di convincere gli amici. Questo tipo di potenza ambivalente non ricade mai sotto il controllo del pensiero razionale, né delle convinzioni religiose. Siamo nel regno dell’estetica.
Volendo circoscrivere più precisamente questo infame perimetro, possiamo aggiungere che si tratta di un’estetica della paura, che produce un suo inconfondibile miraggio psichico. Da una parte, come abbiamo detto, perché esista un messaggio estetico è necessaria la presenza di una singola individualità, di un «io» che manipoli a piacimento i suoi contenuti, li renda in una certa misura personali, e quasi inventati. Ma questa affermazione del singolo non riguarda solo l’emittente del messaggio. Inchiodati di fronte al nostro computer, nel cuore della notte, anche noi che guardiamo, già pentiti di farlo nel momento stesso in cui guardiamo, siamo soli.
Il principale effetto di un’estetica della paura è che l’opera, e il messaggio che contiene, sembrano rivolti non a un generico pubblico, ma alla singola persona, che sente risvegliarsi, a uno a uno, tutti i suoi terrori più sopiti, più segreti. Il leader politico, la guida religiosa in confronto sono molto più rozzi. Si rivolgono all’umanità considerata all’ingrosso, alla ricerca di un minimo comun denominatore di speranze e timori condivisi. L’artista della paura, al contrario, vanta questa particolare prerogativa di arrivare alla finzione suprema: sembra che ci conosca a uno a uno, che ci attenda in un luogo della nostra sensibilità dove è riuscito ad arrivare prima di noi. Possiamo dire che è un’illusione: ma quante illusioni siamo in grado di riconoscere senza esserci già cascati?
Non è dunque il boia col passamontagna che ci minaccia nel video. Quello è solo un turpe pupazzo, un elemento docile della rappresentazione. E in fondo, almeno in questo caso, non è nemmeno l’Isis che ci sta sfidando, attraverso le parole e i gesti di quel suo soldato. Per questa volta, è l’autore del video che ci attacca, circondato dalle sue metafore e dai suoi trucchi da mestierante come il kamikaze dalla sua cintura di esplosivo. Mi sembra che cercare di costruire un identikit di questo artista della paura potrebbe essere un esercizio di conoscenza molto più utile di tutte le infinite varianti del solito «scontro di civiltà». Lo «scontro di civiltà» è una petizione di principio, fondata su parole astratte. Non è nemmeno importante contestarne l’esistenza, perché in ogni caso si tratta di un gioco di parole, di un modo buono come un altro di riempire gli spazi dell’informazione
destinati al cosiddetto «commento». Non cambia assolutamente nulla in fin dei conti stabilire se lo «scontro di civiltà» sia la realtà che stiamo vivendo oppure (come sono incline a credere) una bufala da opinionisti. Al contrario, l’immane dramma che non solo avvelena la nostra vita, ma lasceremo in eredità ai nostri figli, va considerato nei suoi ruoli, nei suoi caratteri individuali, nei destini che produce.
Ebbene, questo aspirante Leni Riefenstahl dell’Isis, questo demone meschino, è un personaggio molto interessante del mondo contemporaneo, un vero esemplare del nostro tempo, un oggetto d’indagine tutt’altro che pretestuoso. Il paragone con Leni Riefenstahl non riguarda ovviamente il talento considerato in astratto. Ma anche la regista tedesca diede un’interpretazione personale, e dunque artistica, alle adunate naziste. Trasformò quelle ridicole parate di gente ubriaca d’odio e di birra in qualcosa che ancora oggi, a riguardarle nei suoi film, emana una sorte di triste, stupido fascino.
Non le bastò per l’impresa il suo innegabile talento. Come il suo emulo jihadista, anche la Riefenstahl aveva intuito che il più prezioso ingrediente del consenso, nelle società di massa, è la paura, e che il più efficace veicolo della paura è un’immagine sottoposta a qualche tipo di trattamento artistico. Il titolo più giusto per la sua opera più celebre dovrebbe essere Il trionfo della paura anziché Il trionfo della volontà. Asserragliato nel suo bunker tecnologico, l’autore del video dell’Isis nutre la stessa rozza ed arcaica fede: chi governa la paura, governa il mondo.
Sicuramente, un immaginario contaminato e infine saturato dalla paura è un’arma poderosa. Lo sentiamo tutti che il nostro vecchio edificio di valori, sul quale sventolavano le bandiere della libertà, dell’uguaglianza e della fraternità, patisce scosse tali da farlo traballare dal tetto alle fondamenta. Più che un luogo difeso, ci sembra uno spazio aperto a qualunque violenza e sopruso. Affermare che proprio queste condizioni lo renderanno migliore è solo una pia speranza priva di fondamento. La verità è che noi non siamo in grado di generare una paura di risposta, un’energia uguale e contraria. La nostra unica risorsa sembra consistere in una intermittenza del pensiero che è l’esatto contrario della maniacale fissità di questi nostri nemici. Le notizie si accavallano, il maltempo scaccia via la Libia, l’omicidio misterioso scaccia via il maltempo, la ruota delle paure è un caleidoscopio di notizie, speriamo solo di non essere noi la notizia, e tiriamo avanti.
Sarebbe bello che gli storici del futuro potessero scrivere che alla fine ci siamo liberati di questi mostri perché eravamo distratti, incapaci di pensare sempre la stessa cosa, di coltivare una paura più delle altre. Abbiamo anche un grande vantaggio narrativo, per così dire, perché sappiamo come finiscono le storie della paura, che sono sempre storie di Golem, o di Frankenstein, insomma creazioni che i loro creatori sono incapaci di controllare, e che finiscono immancabilmente per rivoltarsi contro di loro.
Per tornare al nostro regista della paura, lo scellerato che ha concepito quelle immagini come fossero un ordigno da scagliarci contro, questo è il capitolo della storia in cui lo scienziato pazzo gongola, si sente impunito e onnipotente, circondato da ammiratori. Spesso non conosciamo il suo volto e il suo nome, e forse non lo conosceremo mai, ma di sicuro possiamo affermare che è un incosciente, perché non conosce nemmeno lontanamente l’entità della potenza che ha suscitato. Nella storia umana, la verità è stata sempre la stessa: la paura non ha padroni.