Riccardo Sorrentino, Il Sole 24 Ore 14/3/2015, 14 marzo 2015
UN PIANETA CHE HA ANCORA FAME
Fame. Fame nera. Sembra qualcosa che appartiene al passato, un passato anche recente, ma per fortuna svanito. Non è facile, oggi, vedere foto di bambini malnutriti in Asia e Africa, non «fanno notizia». La globalizzazione, si è detto, ha ridotto la povertà, ed è vero. Non ha sconfitto però la malnutrizione.
Sono tante le persone davvero affamate: 805 milioni di cittadini del mondo, uno su nove - secondo le statistiche 2014 della Fao - non mangiano a sufficienza per poter vivere una vita sana e attiva, e il 45% delle morti dei bambini al di sotto dei cinque anni è ancora legata alla fame. Tre milioni di bimbi ogni anno, uno su sei, 100 milioni, sono sotto peso, e uno su quattro nel mondo - uno su tre in alcuni paesi in via di sviluppo - soffre di rachitismo: le ossa non calcificano, si deformano, spesso c’è difficoltà di respirazione. La fatica non li abbandona mai.
Africa e Asia - sì, l’Asia dei tanti miracoli economici di quell’Estremo oriente che ospita 161 milioni di persone malnutrite - sono i luoghi dove la fame uccide ancora più che Aids, tubercolosi e malaria; ma anche nei lussureggianti Caraibi la popolazione malnutrita raggiunge il 20% del totale, poco al di sotto del 23% delle regioni subsahariane; e persino in Oceania, dove la popolazione complessiva è bassa, la percentuale delle persone non nutrite abbastanza raggiunge il 14%. È l’Asia nel suo complesso, però, a ospitare i due terzi delle persone malnutrite: mezzo miliardo di persone, dei quali 190 milioni in India, dove i progressi sono stati davvero limitati.
Nel mondo, in realtà, passi avanti ne sono stati fatti: negli anni ’90 gli affamati del mondo erano poco più di un miliardo, nei primi anni di questo secolo 900 milioni, e le percentuali sulla popolazione totale sono calate dal 18,7% all’11,3%, ma c’è ancora molto da fare. L’obiettivo del World Food Summit, lanciato nel 1996, di dimezzare entro il 2015 il numero dei malnutriti è stato mancato: ormai non c’è abbastanza tempo.
«Feed the planet», «Dà da mangiare al pianeta» - lo slogan di Expo 2015 - non è allora compito da poco. Solo per alimentare i 66 milioni di bambini malnutriti che frequentano le scuole elementari occorrono, secondo il World Food Programme dell’Onu, 3,2 miliardi di dollari l’anno. Non è molto, in un mondo che produce beni per 75mila miliardi di dollari l’anno, ma non sono facili da trovare neanche per raggiungere questi obiettivi minimi: si sta parlando di meno del 10% del totale delle persone che soffrono la fame.
Ovviamente l’ideale sarebbe rendere autosufficienti, dal punto di vista alimentare, i paesi più poveri. Non è facile: alcuni paesi, in Africa, sono lacerati da malattie, legate al clima, che rende davvero difficile lavorare una terra non sempre fertile. Dove c’è il deserto, la sabbia ricca di quarzo non offre davvero molte chances di avviare produzioni agricole, se non a costi altissimi, con ingenti investimenti.
Senza contare il fattore umano: la concorrenza, le politiche alimentari dei paesi ricchi. Ovunque l’agricoltura è sovvenzionata: anche negli Stati Uniti, in Europa, in Giappone dove l’economia è avanzata e l’agricoltura sempre meno importante. È un bene per i paesi meno fortunati quando devono importare cibo, un male quando si pongono l’obiettivo di produrre beni agricoli perché restano schiacciati da una concorrenza distorta, quasi sleale: si pensi per esempio ai produttori africani, che non riescono a competere con gli ultrasussidiati farmers americani. Oppure ai produttori di riso asiatico, che per accedere al ricco mercato giapponese devono affrontare un dazio da poco calato da 1000% al 778%.
I paesi ricchi hanno importanti motivi strategici per sostenere chi lavora nelle campagne: l’autosufficienza, importante per ragioni militari, ma non solo. Tenere le persone attive nelle campagne permette di controllare meglio il territorio non urbano, evitare che si spopoli e torni a essere un luogo pericoloso come nel passato: è un obiettivo giudicato importante anche nella piccola Svizzera, a maggior ragione altrove. È sgradevole ricordarlo, ma è vero: si pensi quali problemi di ordine pubblico hanno posto in passato le zone incolte dell’Aspromonte, o della Sardegna.
Non sono solo le pressioni di lobbies potenti, che non mancano, a trattenere allora l’Unione europea, gli Stati Uniti, il Giappone dal dare concessioni nei grandi negoziati della Wto, l’Organizzazione mondiale del commercio, che non a caso sono bloccati. È preferibile, per un paese avanzato, portare a zero dazi e sussidi ai prodotti industriali che fare un piccolo passo avanti sull’agricoltura. Se poi si pensa a quanto incidano le guerre sul fenomeno della malnutrizione - sono già 190mila le persone che hanno bisogno di assistenza alimentare in Ucraina - e quanto sia importante la pace e la stabilità, il compito di alimentare il pianeta appare davvero in tutte le sue proporzioni: immane.
Qualche storia di successo, a cui ispirarsi, non manca. Nel Nord Africa - guerre a parte - la fame non è un problema, malgrado il Sahara. L’America Latina è riuscita a raggiungere gli obiettivi che si era posta. Aveva 60 milioni di affamati negli anni 90, il 14,4% del totale, ne ha 29,5, il 5,1%. Nelle campagne della Bolivia i bambini malnutriti sotto i tre anni erano il 50% del totale, nell’89, oggi sono il 26%. «Ogni persona ha diritto all’acqua e all’alimentazione» recita la Costituzione del 2009 e le politiche hanno redistributo le risorse e favorito con una riforma agraria l’accesso alle terre. Il Brasile ha intanto portato la quota delle persone malnutrite sotto il 5%, attraverso il programma «zero fame»? che solo nel 2013 ha richiesto una spesa federale di 35 miliardi di dollari. Anche in questo caso l’assistenza mirata - comprese le mense scolastiche gratis - e una forte redistribuzione (tra il 2001 e il 2012 l’aumento dei redditi, secondo il governo, è stato inversamente proporzionale ai redditi stessi) sono stati al centro delle politiche. Non è scomparso il rachitismo, né la più grave «sindrome da disfacimento» dei bambini, ma oggi sono relativamente marginali.
Altri paesi sono stati meno fortunati: Haiti, per esempio, o il Madagascar, periodicamente colpito da cicloni, siccità, inondazioni e invasioni di cavallette: qui i bambini sotto i cinque anni cronicamente malnutriti sono oltre il 50%, l’84% della popolazione ha una dieta di scarsa qualità mentre l’instabilità politica ha ridimensionato gli aiuti internazionali. C’è davvero ancora tanto da fare.