Notizie tratte da: Luisella Ceretta # Le donne e la cucina tra le due guerre # Susalibri 2010 # pp. 158, 8,90 euro., 16 marzo 2015
Notizie tratte da: Luisella Ceretta, Le donne e la cucina tra le due guerre, Susalibri 2010, pp. 158, 8,90 euro
Notizie tratte da: Luisella Ceretta, Le donne e la cucina tra le due guerre, Susalibri 2010, pp. 158, 8,90 euro.
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Dal libro Non sprecate, degli anni Venti: «Sei centesimi al giorno sprecati da ogni italiano rappresentano per il Paese la perdita di 1 miliardo di lire all’anno. Fare attenzione a ciò che viene gettato nelle immondizie: stracci, spaghi, carta, ossa, gusci d’uovo, scatolame, foglie di ortaggi, bucce, gusci, noccioli ecc. Tutto può essere utilizzato».
Tra gli slogan che incitavano al risparmio: «Se tu mangi troppo derubi la patria!».
Amalia Moretti Foggia, nata a Mantova nel 1872. Figlia di farmacista, laureata in Medicina, specializzata in Pediatria. Con lo pseudonimo di Petronilla firmava ricette sulla “Domenica del Corriere”, inserto del “Corriere della Sera”. Una di queste, in cui spiegava come friggere il pesce avendo a disposizione poco grasso, si chiudeva: «Ma non è pregio di ogni fritto quello di non essere imbevuto di grasso eccessivo? La ristrettezza vi farà quindi apparire cuoche non solo economicamente sagge ma anche sapientemente brave».
Il caviale sintetico, descritto nella rivista “La massaia” (1937): melanzane con olive nere, cipolla e peperoni di Voghera («a tre punte che sono più piccanti degli altri»). Tutto tritato, funge da perfetto surrogato per «antipasti e per tartine da thé, o da servire col vino alle 17».
«Fortunatamente il popolo italiano non è ancora abituato a mangiare molte volte al giorno» (Mussolini nel dicembre del 1930).
Negli anni Trenta si passò dalla cucina “imperiale”, in epoca di conquista etiope, alla cucina della resistenza, detta anche delle «inique sanzioni», e poi alla cucina di guerra.
Ricette tipiche della cucina imperiale: la torta di banane, la torta di datteri, gli africani (dolcetti di uova, zucchero e buccia di limone cotti in stampini).
«È possibile portare il genio creativo plastico e colorante nella costruzione delle diverse vivande?» (da “Un’inchiesta per un’arte cucinaria imperiale” dei futuristi).
A Torino l’8 marzo 1931 fu inaugurata la Taverna Santopalato, pensata e creata dai futuristi Diulgheroff e Fillìa. «Dopo una febbrile giornata di intenso lavoro nella cucina, dove i futuristi Fillìa e P.A. Saladin gareggiavano con i cuochi del ristorante, Piccinelli e Borghese, nella presentazione delle vivande», fu servito questo menù: antipasto intuitivo; brodo solare; tuttoriso con vino e birra; aerovivanda, tattile, con rumori e odori; ultravirile; carneplastico; paesaggio alimentare; mare d’Italia; insalata mediterranea; pollofiat; Equatore-Polo Nord; dolcelastico; reticolati del cielo; frutti d’Italia.
Ricetta futurista: “Promontorio siciliano”. Tonno, mele, olive e noccioline giapponesi si tritano insieme. La pasta che ne deriva si spalma sopra una frittata fredda di uova e marmellata.
Ricetta futurista: “Il Littorio”. Gambi di cardi o sedani della lunghezza di 10 cm cotti in acqua, disposti dritti in modo da formare un cilindro vuoto. Fissati sotto da una semisfera di risotto bianco e sopra da un mezzo limone. L’interno del cilindro riempito con carne trita, olio, pepe e sale. Sulla semisfera di riso, distribuiti a stelle, un cetriolo, un pezzo di banana, uno di barbabietola.
In periodo di guerra si facevano le “costolette di riso” (insaporite con estratto di carne), il vino con le bucce delle mele, l’insalata senz’olio, la crema senza uova eccetera.
«Un popolo non potrà essere forte e dominare quando dipenderà per il cibo dagli altri: di qui l’importanza dell’autoarchia alimentare» (la professoressa di economia domestica, Elisabetta Randi, in un manuale dell’epoca).
La ricetta di una frittata con uova e cubetti di pane raffermo così si conclude: «Se riuscisse troppo sottile, si piega in due e si serve».
Miriam Mafai scrive che fare la spesa «era un’arte quasi esclusivamente propria della donna». Chi aveva sufficiente denaro, comprava in quantità e conservava tutto: le uova erano tenute nella calce, il burro andava salato, la frutta, messa sulle assi, controllata ogni giorno, come le patate, affinché non spuntassero i germogli. I torsoli delle verze, tagliati sottili, finivano nelle minestre.
Le massaie si facevano in casa la fecola di patate. Recuperavano anche il grasso bruciacchiato sul fondo della pentola.
«Preparate una besciamella, aggiungetevi il pesce avanzato da un pranzo precedente ben sminuzzato, due rossi d’uovo e due bianchi montati a neve. Mettete il composto in forno per venti minuti. Questo pasticcio è economico e delizioso».
Il tasso di natalità nel 1934 era del 23,4 per mille, contro il 27,5 del 1927 e il 31,8 del 1920. Negli anni tra il 1936 e il 1940 scese fino al 23. I bambini morivano soprattutto di tifo, tubercolosi, enterite, polmonite.
Nel 1939 fu emanato il decreto che ammetteva assunzioni di donne (al massimo potevano essere il 10% dei lavoratori). Mansioni riconosciute: bibliotecaria, archivista, commessa, direttrice e lavorante nel settore della moda, telefonista, dattilografa, cassiera, annunciatrice radiofonica e segretaria negli istituti scolastici. Con l’entrata in guerra, alle donne fu concesso fare anche gli altri lavori, ma tutti con contratti a termine, in modo che a guerra finita potessero lasciare il posto agli uomini.
Consiglio alla giovane sposa: «Che tu sappia di lettere può essere utile, ma che tu sappia di cucina è indispensabile».
Il Decalogo della Piccola Italiana, insegnato alle alunne: «1) prega e adoperati per la pace, ma prepara il tuo cuore alla guerra; 2) ogni sciagura è mitigata dalla forza d’animo, dal lavoro, dalla carità; 3) la patria si serve anche spazzando la propria casa; 4) la disciplina civile comincia dalla disciplina famigliare; 5) il cittadino cresce per la difesa e la gloria della patria accanto alla madre, alle sorelle, alla sposa; 6) il soldato sostiene ogni fatica ed ogni vicenda per la difesa delle sue donne e della sua casa; 7) durante la guerra la disciplina delle truppe riflette la resistenza morale delle famiglie a cui presiede la donna; 8) la donna è la prima responsabile del destino di un popolo; 9) il duce ha costruito la vera famiglia cristiana, ricca di figli, parca nei bisogni, tenace nella fatica, ardente nella fede fascista e cristiana; 10) la donna italiana è nobilitata dal duce al servizio della patria».
L’invito a sostituire i fiori sul balcone con piantine di ricino per ricavarne olio.
A un certo punto si disse che «l’esperimento delle sanzioni societarie» era «da ringraziare» perché aveva permesso di incrementare il consumo di «pesce nostrano», abbondante nei «nostri pescosi mari», «con grande vantaggio dell’erario pubblico» e della salute.
Da una rivista dell’epoca: «Ed ecco il formaggio, altro alimento sano, onesto e prezioso che la nostra industria casearia produce in gran copia ma da noi ancora scarsamente apprezzato. Le varietà di questo cibo sanissimo, ricco di qualità nutritive e il cui costo non è mai proibitivo, sono infinite sì da accontentare i gusti più svariati».
Per risparmiare legna, carbone e combustibile si consigliava l’uso della «cassetta di cottura», piccola cassa foderata di trucioli, fieno e fogli di carta, che si poteva costruire anche in casa. Introdotta la pentola o la casseruola bollente nella scatola e chiuso il coperchio, la cottura proseguiva lentamente senza consumare altro combustibile. Ci volevano tre quarti d’ora per cuocere gli spaghetti, un’ora il risotto, due ore la minestra, quattro ore il manzo e i fagioli (se però li si era fatti bollire per almeno 15 minuti).
Per risparmiare sugli indumenti erano consigliati abiti double-face.
La crema si poteva fare con la zucca, risparmiando uova: lessare l’ortaggio, schiacciarlo, aggiungervi un solo cucchiaino di zucchero, uno di farina di riso, mezzo litro scarso di latte. Dopo 15 minuti di bollore, versare in tazzine e lasciar raffreddare.
Tra i modelli di donna proposti dalle riviste, Enrica, moglie di un ufficiale di Ciro Menotti, la quale, dopo l’arresto del marito corse ad autodenunciarsi pur di farsi rinchiudere nelle carceri di Venezia con il consorte. Lì morì «a soli ventisette anni, dopo tredici mesi di prigionia volontaria, felice di essersi sacrificata per coloro che amava e dai quali era devotamente riamata, chiuse gli occhi per sempre».
Il ketchup, usato per risparmiare grassi di condimento, si chiamava salsa Rubra.
«Al posto del tè, d’importazione inglese, veniva suggerito di bere karkadè, un infuso acidulo e rossastro che si produceva nelle nostre colonie. Si era ridotto l’uso del caffè. Ma non era una tragedia: sugli altipiani d’Abissinia, nel nostro Impero “fecondato dal lavoro italiano”, il caffè sarebbe cresciuto certamente in grande quantità e quello che i nemici si facevano pagare caro e in valuta pregiata sarebbe presto diventato un “prodotto nazionale”» (Miriam Mafai).
Nel maggio del 1939, con solennità, i giornali annunciarono che al bar della Camera non era più servito l’espresso. Si ripiegò su un surrogato d’orzo e di cicoria.
Per invitare al consumo di riso, in un opuscolo si citava il caso di un certo professor Ly-Cin-Jun che era arrivato all’età di 253 anni mangiando solo quel cereale.
Avevano calcolato che 1.000 calorie fornite dal riso costavano solo 0,42 Lire. Da pane e pasta: 0,63 Lire. Da uova: 4,30. Da patate: 1,12. Da zucchero: 6,30. Da formaggio: 2,22. Da lardo: 6,48.
Si poteva ottenere un surrogato del burro mescolando insieme grasso di vitello (oppure montone o bue), latte, timo, cipolla, succo di carote, sale e crosta di pane bruciacchiata. Olio da olive nere tagliuzzate, bollite con aglio e aceto. Aceto da acqua, vino e crosta di pane nero spezzettata. Marsala da prugne secche. Caffè da vinaccioli d’uva lasciati a bagno per alcune ore, poi tostati e macinati.
In mancanza di burro e olio, la teglia da mettere in forno poteva essere unta con paraffina.
Il pesce era meglio cuocerlo senza testa, per sprecare meno grassi visto che quella parte del corpo dell’animale non viene consumata.
Olio, burro e pane si potevano acquistare solo razionate, tramite le tessere annonarie. Alle ammalate era concesso un «supplemento viveri», che però non spettava a gestanti e puerpere.
Si consigliava di coltivare soprattutto legumi e patate, cavoli, cavolfiori, zucche, pomodori, cipolle, melanzane, zucchine. Sconsigliata, invece, l’insalata perché necessita di essere condita con olio, allora molto scarso.
Il prezzemolo riccio, da coltivare in giardino al posto dei fiori perché, essendo anche decorativo, poteva fungere, oltre che da alimento, da bordura per aiuole. Stessa cosa per la cicoria trevigiana rossa. Sarebbero state bene anche le carote, che hanno «fogliame fine e leggero, simile alle felci». I rampicanti sostituibili con piante di fagioli, zucche, taccole.
Esempi di giardini con piante da orto. Grande aiuola ovale riempita con spinaci, lattuga o cicoria come fondo, cardi, indivia riccia o trevigiana sui bordi. Cavoli, verze e cardi come bordure di viali. Aiuola all’incrocio tra viali fatta di cavoli, o patate o fagioli con bordo di spinaci; oppure zucche non rampicanti contornate da peperoni.
«Io ho sempre saputo che alcuni “pochinini” fanno un pochino; che alcuni “pochini” fanno un poco; che alcuni “poco” fanno un parecchio; che alcuni “parecchio” fanno un tanto; e che alcuni “tanto” fanno un… “tantone” così, come tanti centesimini fanno un milione» (Amalia Moretti Foggia, alias Petronilla).
La battaglia del grano, iniziata il 18 luglio 1925 con l’istituzione del Comitato permanente del grano, il cui scopo era studiare e proporre soluzioni per aumentare la produzione del cereale in Italia e limitarne l’importazione.
Nel 1922 erano stati prodotti in Italia quasi 44 milioni di quintali di frumento. Per soddisfare il fabbisogno, negli anni 1922-23, l’importazione di frumento arrivò a quasi 32 milioni di quintali, con una spesa di oltre 3 miliardi di lire. La spesa salì ancora di più nel 1925, raggiungendo 3 miliardi e 850 milioni. Con l’aumento della popolazione si calcolava che nel 1950 sarebbero serviti 100 milioni di quintali. La Battaglia del grano portò, nel 1933, a produrre circa 80 milioni di quintali di grano con un risparmio di 4 miliardi di lire.
Il grano rappresentava il 71,8% dell’alimentazione degli italiani negli anni Venti. Il consumo medio annuo per abitante, nel quinquennio 1909-1914, era di 167 chilogrammi, che salì a 189 chilogrammi nel quadriennio 1925-1929. In Europa, solo in Francia se ne consumava di più: 199 chilogrammi.
Il fabbisogno di grano in Italia alla fine del 1928 era di 77 milioni di quintali per l’alimentazione, più 6 per le semine.
Nel 1939 la superficie di terreni coltivati a grano era di 5.225.308 ettari.
Nel 1935 il bresciano Antonio Ferretti, ricercatore del gruppo Snia Viscosa, riuscì a ficavare una fibra tessile simile alla lana dalla caseina del latte. Alla fibra fu dato il nome di Lanital. Dalla lavorazione di un ettolitro di latte, dopo averne ricavato il burro, si potevano ottenere 3 chili di Lanital. La produzione avveniva soprattutto negli impianti Snia di Cesano Maderno, da dove nel 1937 uscirono 7 milioni di chili di Lanital.
Il siero residuo della lavorazione del Lanital, debitamente rilavorato, era impiegato come additivo per i mangimi dei suini.
Il razionamento dei beni fu introdotto il 10 gennaio 1940, quando il governo decise di fornire tutti i cittadini del regno di una carta annonaria individuale. All’inizio servì per l’acquisto di caffè: ogni consumatore doveva registrare la sua carta presso il negoziante abituale entro il 27 gennaio, in modo che a partire del 10 febbraio fosse possibile ottenere il caffè nella razione stabilita. Dal 1° febbraio fu razionato lo zucchero (500 grammi al mese). Con l’entrata in guerra fu esteso il tesseramento a burro, olio, lardo e strutto. Il 1° ottobre del 1941 fu introdotto il tesseramento del pane e della farina di granoturco (rispettivamente 200 e 300 grammi).
Secondo i dettami del tesseramento, gli italiani avevano a disposizione 1.100 calorie al giorno (in Europa ne spettavano meno solo in Polonia: 850). Le razioni dei generi alimentari più importanti erano le seguenti: 200 grammi di pane al giorno, 400 di carne al mese, 500 di zucchero al mese, 100 di olio al mese.
Il pane razionato era di colore giallo, essendo la farina di grano mescolata con quella di granoturco.
Per accedere alle mense collettive era necessario avere una tessera apposita. Anche nelle mense i pasti erano razionati.
Alla fine del 1942 in città era impossibile trovare carne.