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 2015  marzo 15 Domenica calendario

NON SONO LOLITA, MA LA FIGLIA DEL RE DEL PORNO

Una sera del 1960 un uomo elegante e misterioso conduce una ragazzina di dodici anni in uno dei locali notturni più sulfurei di Parigi, La Grande Séverine. La ragazzina è sua figlia, porta un vestito con applicazioni di fiori e perline, i capelli raccolti, e ha braccia e gambe troppo magre per essere aggraziata.
Al tavolo del padre siedono «tre cavalieri del sesso e dei libri», che festeggiano la firma di un contratto editoriale. I tre signori offrono alla ragazzina un bicchierino di vodka, che il padre rifiuta per lei, e si fanno gioco di includerla nella conversazione, mentre lei osserva intimidita quel padre dall’eleganza austera, camicia bianca, cravatta scura, scarpe inglesi ben lucidate, che la gente chiama Giro, oppure Gid, o Momo, o anche Prince of porn.
Naturalmente si parla di Lolita, il romanzo di cui la ragazzina conosce a memoria la storia. Non la storia di come il professor Humbert Humbert perde la testa per una ninfetta dodicenne come lei: ma la storia di come suo padre Maurice Girodias ha pubblicato quel romanzo nel 1955, quando nessun altro ne voleva sapere, e anche di come Nabokov, adesso, non veda l’ora di sbarazzarsi di quell’editore imbarazzante. «Che ingrato» s’indigna Girodias con gli amici, «dopo quello che ho fatto per lui. Se penso che temeva per la sua reputazione di universitario, se penso che voleva usare uno pseudonimo e l’ho dissuaso. E ora che l’intero pianeta lo celebra, ora che grazie a me diventa ogni giorno più ricco e più famoso, si dispera di dover dividere il catalogo della mia casa editrice con dei libri di pornografia pura. E Beckett, allora, e Genet e Miller, non si vergognano mica, loro».
Che personaggio straordinario, Maurice Girodias. Un editore senza vie di mezzo: pornografia o grande letteratura. Un dandy sarcastico e geniale che invece di usare un’attività commerciale per finanziare la sua casa editrice, usava i profitti della casa editrice per finanziare quel locale notturno a Montmartre dove ogni sera intellettuali e parigini eleganti in vena di trasgressione andavano a sentire jazz e cabaret mangiando borscht e bevendo vodka. Il fatto è che Lolita era stata una miniera d’oro per l’editore mezzo ebreo che si era cambiato cognome da Kahane a Girodias per sopravvivere all’occupazione tedesca. E in quel locale che il prefetto avrebbe fatto chiudere per oltraggio al pudore nel 1964 mentre andava in scena la Filosofia nel boudoir di de Sade, Maurice Girodias si era divertito un mondo. Al quarto piano della palazzina di Rue Saint-Séverin, che nei primi tre ospitava La Grande Séverine, aveva sistemato la redazione della Olympia Press, che accanto a titoli come Cosce bianche o La vita sessuale di Robinson Crusoe, pubblicava Henry Miller, Burroughs, Donleavy, Bataille e persino Joyce e Beckett.
Se oggi in Francia si torna a parlare di questo provocatore determinato a non prendere nulla sul serio — nemmeno i processi che gli sono costati sei anni di condanne — è perché Girodias, con le sue scoperte geniali, i suoi imbrogli e i suoi diritti raramente pagati agli autori, è al centro di un sofferto libro di memorie di sua figlia, Juliette Kahane: la ragazzina «più larva che ninfetta» cresciuta nel lugubre appartamento di una madre melanconica, nel terrore che a scuola si
scoprisse che suo padre era l’editore di titoli come C’è una frusta nella mia valigia. «Una volta scoperchiata la vergogna, bisogna imparare a conviverci», dice a «la Lettura» questa donna esile dai capelli color rame e lo sguardo ferito, nello studio della sua casa alla periferia di Parigi.
A metà della stesura di Une fille (pubblicato dalle Éditions de L’Oliver), racconta di aver deciso di affrontare per la prima volta le carte lasciate da suo padre nel 1990, quando Girodias, ridotto a poco più che un barbone dopo anni di spese folli, morì per un attacco di cuore. E ha scoperto che usando il nome gentile preso a prestito da uno zio morto giovane nella Prima guerra mondiale, aveva fatto affari con i tedeschi e pubblicato anche un paio di libri antisemiti come salvacondotto.
«Da ragazzina mi sono sentita per anni inesistente, come un insetto. E mi rendo conto che la mia timidezza deve molto alla vergogna che ho provato per tutta la vita. Appartengo a quella categoria di persone che faticano ad affermarsi e a credere alla propria stessa esistenza. Per questo ci ho messo tanto a scrivere questo libro». Un libro scritto per liberarsi e per decifrare un mistero. Quel padre così elegante che passa ben pochi soldi alla famiglia, e rimprovera l’aspetto modesto della figlia dicendole «Piccola mia, sembri uscita da Buchenwald», le appare un attore intento a impersonare qualcun altro, sicuramente un non ebreo, e probabilmente lo zio giovane da cui aveva preso il nome.
Nel frattempo negli anni Sessanta Maurice Girodias sfuggiva dalla giustizia francese andando a New York, prendeva alloggio al Chelsea Hotel, e pubblicava, tra altri titoli scandalosi e di successo, gli scritti di Valerie Solanas, la femminista squilibrata che nel 1968 scaricò un intero caricatore nella pancia di Andy Warhol.
«Era me che voleva ammazzare, sai» si vanterà Girodias con Juliette, che a diciassette anni lo raggiunge a New York. Perché? Chiede la ragazza. «Oh, un malinteso sul contratto», minimizza lui. «Poi ha ripiegato su Warhol perché quel giorno non mi ha trovato». Dal suo punto di vista di editore era stata una fortuna: «Sparare a un uomo famoso è un bel lancio».
E Une fille? Che cosa è stato per Juliette Kahane scrivere questo libro così sofferto, che oggi tanti in Francia ammirano? Catarsi o vendetta? «Vendetta spero di no», si schermisce. «Spero di non avere ucciso mio padre sulla pagina, ma di avergli restituito una certa verità. Credo sia stato tutta la vita prigioniero di un labirinto, come me. Un labirinto da cui oggi almeno io sono riuscita a scappare».