Stefano Bucci, Corriere della Sera - La Lettura 15/3/2015, 15 marzo 2015
LA MIA CAMERA SENZA PIÙ VISTA
Sembravano le bizze di una star. Niente di strano, insomma, per un regista i cui film, girati durante una carriera peraltro lunghissima, hanno collezionato sei Oscar (oltre a svariati Leoni, Orsi, David di Donatello) e innumerevoli nomination «di categoria». Non semplici lungometraggi, ma autentici cult-movie da tempo entrati nell’immaginario collettivo: Howards End e Camera con vista , Mr. & Mrs. Bridge e Quel che resta del giorno fino a Quartet , il più amato da Ivory e il più sfortunato.
Vediamoci nel mio appartamento a Midtown; no, c’è troppa confusione, meglio se ci incontriamo nella hall e facciamo l’intervista nel salottino del custode; no, devo partire immediatamente, mi raggiunga a Claverack (vecchia colonia fondata dai pionieri olandesi, seimila abitanti, due ore di macchina o di treno da New York), così potrà vedere anche la mia casa di campagna; no, forse potremmo parlarci alla stazione di Hudson (da lì alla proprietà Ivory-Merchant sono sette chilometri di taxi), la sala d’aspetto è «very comfortable», ma si copra bene perché fa molto freddo ed è appena nevicato.
L’ultima indicazione, proprio come accade nel gioco dell’oca, ci riporta al punto di partenza: una strada senza uscita, ma con una bellissima vista sull’Hudson River, sul Queensboro Bridge e sul Roosevelt Memorial, ultimo progetto del grande Louis Khan.
Eppure James Ivory, al primo incontro davanti al portone di casa (un classico brownstone newyorkese in mattoni vecchi di almeno mezzo secolo), non appare certo come un uomo capriccioso: cappotto grigio, un paio di jeans, scarpe scamosciate, calzini colorati, una bella testa perfettamente in ordine, gli occhi nascosti dietro un paio di occhiali con le lenti sfumate. Potrebbe sembrare un tranquillo professore in pensione, d’altra parte di anni ne ha ottantasette (essendo nato il 7 giugno 1928 a Berkeley, California, da una famiglia in cui si mescolavano sangue irlandese e francese) portati con una eleganza garbatamente wasp, un vecchio professore magari con la passione per il cinema e per l’arte.
Niente di meno impossibile visto che Jim, prima del master in cinema ottenuto nel 1957 con il cortometraggio Venice: Theme and Variations (quello stesso cortometraggio aprirà il prossimo 25 marzo a Venezia l’ottava edizione della rassegna «Incroci di civiltà»), si era già laureato all’Università dell’Oregon in Architettura e arti applicate.
Il piccolo appartamento al dodicesimo piano (due piani sopra abitava il suo compagno, di lavoro e di vita, Ismail Merchant, scomparso nel 2005, dopo quarantaquattro anni di unione e una quarantina di film prodotti; al settimo, la sua sceneggiatrice preferita e «amica insostituibile» Ruth Prawer Jhabvala mancata nel 2013) sembra voler confermare questa passione di Ivory per l’arte, una passione che quasi sempre si intreccia con i ricordi personali e le storie dei suoi film: ad esempio le stampe dai fiori coloratissimi e dalle strane figure che sovrastano il divano rosso coperto di lettere, libri, appunti, buste mai aperte e qualche cuscino arrivano direttamente dal set di Camera con vista («le ha fatte un artigiano fiorentino per la scenografia, mi sono piaciute, le ho prese per la mia casa»); oppure il mobile laccato di verde vicino alla grande finestra pensato per Passaggio in India («sono stato conquistato soprattutto dalla sua forma bombata»); o ancora il ritratto di Bernadette Peters firmato da Davide Salle, artista assai in voga nella Grande Mela alla fine degli Anni Ottanta, per Slaves of New York .
Ma tra le quattro mura di questo minuscolo flat, perduto in una sequenza di corridoi condominiali scuri e molto anonimi ricoperti da una tappezzeria a righe ben poco allegra, sembra nascondersi anche dell’altro: una vita oggi scandita da brevi passeggiate in solitudine intorno all’isolato («Come immagino questi miei prossimi anni? Molto solitari, certo, ma anche pieni di lavoro, almeno spero») e da lunghe letture soprattutto dei supplementi culturali del «New York Times» e del «Financial Times», almeno stando alla quantità di copie presenti (tutte ripiegate con grande precisione, nonostante siano magari finite, nell’indiscutibile disordine, sotto la poltrona su cui Jim abitualmente siede), e dei libri (in cima alla pila compare una versione bilingue delle poesie di Pasolini).
Poco spazio e voglia, invece, sembrano concessi alla cucina e ai ricevimenti: al momento dell’appuntamento, l’una newyorkese (ora perfetta per brunch, lunch o semplice breakfast) la cucina di Ivory è certo ingombra, ma solo perché piccola, secondo uno stile assai British, ma allo stesso tempo assolutamente priva di qualsiasi odore residuo di cibo (segno che Jim probabilmente pranza spesso fuori); né ci sarà il tempo per concedersi una tazza di caffè, tra una risposta e l’altra.
La prima domanda arriva dopo l’ennesimo colpo di scena: «È in anticipo — si giustifica Ivory —, io devo salire, aspetti ancora qualche minuto e quando è l’ora giusta venga direttamente su».
Trascorsi gli ultimi istanti di incertezza, a James Ivory tocca finalmente il compito di spiegare quanto è stata importante l’arte nella sua vita. «Infinitamente. Ed è un amore che arriva da lontano. Tutta colpa del mio maestro di scuola: aveva visto un mio disegno — non era niente di speciale, uno dei soliti scarabocchi che si fanno durante le lezioni; però l’aveva notato e aveva detto ai miei genitori: questo bambino ha del talento, non sprechiamolo. Ricordo la grande gioia quando ogni venerdì pomeriggio, finite le lezioni, andavamo con la nannie a dipingere paesaggi e campagne, soprattutto ad acquarello; o quando, un po’ più grande, visitavo lo studio di un’amica che frequentava casa nostra; di quel posto magico ho ancora davanti agli occhi un enorme quadro dorato, credo fosse anche quello un campo o un bosco, però con qualcosa di indubbiamente magico».
Mr. Ivory, si è mai ispirato a qualche artista in particolare?
«La sua è una domanda sciocca, lo sa? Sarebbe come se mi chiedesse perché mi piace quel quadro, quell’angolo di città o quella persona. Non c’è mai una sola ragione, sono sempre tanti i motivi che ti conquistano, proprio come accade quando ci si innamora di qualcuno. Certo, posso dire che mi piace Piero di Cosimo o la scultura greca o magari Matisse o che la prossima mostra che vorrei visitare è quella dei vetri romani al Met, ma la ragione di queste passioni rimane inspiegabile, nascosta nel profondo del mio cuore».
Venezia è certamente una sua passione. Quante volte l’ha visitata?
«Non lo so più nemmeno io. L’ho fatto per piacere e per lavoro — o meglio, per la Mostra del Cinema. L’ho vista da giovane, da adulto e da vecchio ed è una grande fortuna, mi creda, poter scoprire un luogo mentre gli anni passano. Quale Venezia amo di più? Ogni tempo ha la sua parte di bellezza. Ma posso dire che per me non ci sono solo Canaletto, Carpaccio, Tintoretto o il Giorgione».
E le altre capitali del Grand Tour?
«Firenze l’ho conosciuta molto tardi, ma sono felice che qualcuno pensi addirittura che Camera con vista sia stato girato da un italiano, segno che ho capito l’anima della città. Napoli l’ho vista sempre di passaggio, mentre andavo a Pompei. Ho un bellissimo ricordo di Palermo e del Duomo di Monreale anche se ora vorrei visitare piuttosto Cuba e l’Alhambra di Granada. Perché Cuba? Perché presto sparirà, almeno così com’è stata finora».
James, Foster, Ishiguro, Cameron: lei è sempre stato un grande frequentatore di buoni scrittori: qualche bella scoperta recente?
«Sto scrivendo le mie memorie e poi sto aspettando di iniziare le riprese del Riccardo II di Shakespeare, protagonista Tom Hiddleston. Non ho poi molto tempo per dedicarmi ai libri degli altri».
E al suo giardino a Claverack chi ci pensa?
«Anche di quello mi occupo poco, in pratica c’è solo quello che nasce a seconda delle stagioni. Non ho mai pensato al verde come a qualcosa di troppo disegnato, il mio non è un giardino perfetto all’italiana, ma qualcosa di molto più selvaggio. Se lo vedesse ora, ad esempio, lo troverebbe certo brutto e spoglio».
Il cuore di James Ivory è più antico o più contemporaneo?
«Dipende. Guardi qua».
James Ivory adesso impugna lo smartphone e mostra i due acquisti più recenti: una strana micro installazione contemporanea che mette insieme la copia del ritratto di Folco Portinari di Hans Memling; una calligrafia tutta giocata sul blu e sul bianco. «Non si assomigliano per niente, ma a me piacciono e questo basta».
Stesso principio anche per l’assemblaggio bello e imperfetto del piccolo soggiorno dove convivono il Leone d’oro conquistato con Maurice e un bellissimo ritratto firmato George Platt Lynes, il tappeto delabré e la cassettiera stile ufficio con le foto di scena e le sceneggiature originali dei suoi film.
Praticamente assenti, invece, foto e ritratti privati, quasi fossero confinati in una camera stavolta senza vista (un altro di cui «non so niente» e che raffigura quattro giovani sconosciuti è invece diventato «un biglietto di auguri» per gli amici più cari): «I ritratti ci sono, certo, ma preferisco tenerli per me», ripete con estrema amarezza il regista, mentre chiede ancora una volta se non sia meglio che si cambi quei jeans («sono bruttissimi, ne ho un altro paio che sarebbero invece perfetti») o che le sue foto vengano tutte fatte dal basso («perché con l’età il viso si allarga sempre, meglio correre ai ripari»).
Sono gli unici momenti in cui si avverte, pesantissima come un macigno, la mancanza di Ismail e Ruth: «Abito qui ormai da cinquant’anni. Abbiamo comprato tre appartamenti su tre piani diversi perché così potevamo avere tre differenti viste dello stesso angolo di città. Ora che sono rimasto solo, questa idea non ha più tanto senso e oltretutto qui davanti c’è questo cantiere che sembra non finire mai», aggiunge il regista indicando il grande scavo che di fatto impedisce la vista dell’edificio vicino. Cielo compreso.
Mr. Ivory, non compra mai opere d’arte pensando di poter fare un buon affare?
Lo sguardo disgustato e la piega amara della bocca sono più eloquenti di ogni altra risposta (e bolleranno altri argomenti particolarmente ostici a Mr. Ivory — soprattutto lo sport, in particolare il baseball, e la politica). Le parole chiariscono ulteriormente il concetto: «Quelle teste africane sopra l’armadio le ho comprate perché mi piacevano e non certo per guadagnare, così come quella veduta di fronte alla libreria l’ho trovata da un antiquario a Buenos Aires senza sapere che l’aveva dipinta il principe Enrico d’Assia che avevo conosciuto tanti anni prima a Venezia. Forse solo per l’arte indiana posso dire di aver avuto buoni maestri. Prima l’antiquario di San Francisco dove ero entrato per comprare una veduta di Canaletto e dal cui negozio sono uscito con una cinquantina di miniature indiane. E poi Ismail».
Merchant, indiano e musulmano, faceva parte di quella che lui stesso definiva «il mostro a tre teste» composto appunto da Merchant, da Ruth (ebrea tedesca) e da Ivory (americano protestante).
Cosa pensa allora di artisti come Hirst o Koons?
«Non posso dire che mi piacciono o che li comprerei domani. Ma ogni grande artista è comunque una star, destinata a essere costantemente sotto i riflettori. Pensi a Picasso. Il genio e il talento portano, almeno per me, come conseguenza logica la spettacolarizzazione. Ma non c’è niente di male o di cattivo».
Lo stesso vale per l’architettura?
«Certamente. Anche se certi progetti, per quanto mastodontici, hanno maggior senso di certe opere contemporanee. Ho visto da poco il nuovo Louvre di Abu Dhabi, firmato da Jean Nouvel, e ho pensato: ecco qui l’ottava meraviglia del mondo».