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 2015  marzo 15 Domenica calendario

COSÌ HO ROVINATO L’INTERVISTA A CATHERINE DENEUVE

C’è comunque un passaggio che mi piace: quello sul ginkgo. A un certo punto le ho chiesto del giardinaggio, che mi avevano detto essere una delle sue grandi passioni, e lei si è messa a parlare dei suoi alberi preferiti di Parigi, in particolare del ginkgo di place de l’Alma. Mi sono ripromesso di farci caso, la prossima volta. Lei mi dice che ne hanno piantati molti a New York, specie sulla Quinta strada, e che sarebbe un’ottima cosa se facessero altrettanto a Parigi. È tanto bello il ginkgo, e tanto robusto, è bello proprio perché robusto, è l’unico albero che abbia resistito a Hiroshima e viene il sospetto, quando dice così, che s’identifichi con il ginkgo, lei che ha resistito a tutto, che è sopravvissuta a tutto, lei che, appena uscita dall’adolescenza, è diventata la più grande star del cinema francese e non ha mai smesso di esserlo.
Era questo mezzo secolo o quasi di una carriera leggendaria che dovevamo ripercorrere insieme; otto pagine d’intervista, una trentina di foto scelte da lei a fare da filo conduttore. Era questa l’idea, e sembrava ragionevole; purtroppo non ha funzionato. Un po’ lo temevo, tornando a casa dopo l’appuntamento. Cercavo di rassicurarmi dicendomi che su due ore di registrazione doveva pur esserci qualcosa d’interessante, ma ieri ho ricevuto la trascrizione di quelle due ore, l’ho letta e riletta, con la matita in mano, e bisogna riconoscere che, fatta eccezione per il ginkgo e un paio di cose qua e là, non c’è niente. Proprio niente.
Di certo la colpa non è sua, e mi piacerebbe pensare che non è neanche del tutto mia, ma questo, verbatim , meriterebbe di essere conservato al Pavillon de Breteuil di Sèvres (sede dell’Ufficio Internazionale dei Pesi e delle Misure, ndt ) come esempio di colloquio pasticciato, con l’intervistatore fuori fase e l’intervistata poco coinvolta, e per forza di cose mi domando: come siamo arrivati a questo punto? Riflettendoci, avrei dovuto stare in guardia. Alcuni giorni prima avevo letto A l’ombre de moi-même , raccolta di taccuini che Deneuve ha tenuto sporadicamente nel corso di tutta la carriera, perlopiù quando girava all’estero. Questi taccuini sono eccezionali. Semplici, schietti, acuti, profondamente onesti. Quel che colpisce, inoltre, è che quando gira Tristana Deneuve ha la stessa scrittura — nel senso di stile e calligrafia — di quando gira Dancer in the dark trent’anni dopo. Questa maturità precoce, e poi questa stabilità di rotta, sono impressionanti. Insomma, dopo i taccuini c’è un’intervista recente con il regista e sceneggiatore Pascal Bonitzer. È un amico, l’ho chiamato: com’è andata con Deneuve? Il vuoto in linea, poi un sospiro. «Atroce. Oddio, atroce… Lei è stata bravissima, sono io che non ero minimamente all’altezza, non me lo perdono…».
Ho riletto l’intervista: non mi è sembrata straordinaria, ma nel complesso non c’era neppure di che fare harakiri. E però ho pensato: toccherà fare meglio di Pascal. Ho letto un po’, ho visto e rivisto dei film — in particolare i cinque Téchiné , che trovo magnifici. In compenso non mi sono preparato nessuna domanda. Mi dicevo: andrà come andrà, affidiamoci al flusso della conversazione. Perché pensavo a una conversazione, in realtà, mica a un’intervista — e questo per una ragione che il mio amor proprio fatica un po’ ad ammettere ma che dovrò pur spiegare, altrimenti questa storia sarebbe incomprensibile.
Se «Première» mi avesse chiamato per propormi di fare soltanto un’intervista a Catherine Deneuve, avrei detto: ammiro molto Catherine Deneuve, la sua bellezza, il suo talento, la sua carriera, ma c’è anche altra gente che ammiro, non faccio più il giornalista e anche quando lo facevo non mi piaceva molto fare le interviste, è un tipo di rapporto che mi mette a disagio, quindi no. «Première» mi ha detto una cosa diversa: anziché a un giornalista abbiamo pensato a uno scrittore, e Catherine Deneuve ha chiesto che fosse lei. Così, chiaramente, non è più la stessa cosa. Diventa: Catherine Deneuve desidera incontrarla, e uno risponde sì, ma certo, come no!, tutto tronfio. Mi lascio andare a pensieri come: avrà letto i miei libri, visto i miei film, magari mi chiederà di scriverle una parte, o mi lascerà intendere di non essere contraria all’idea. Ci fantastico sopra, ne parlo in giro. Catherine Deneuve desidera incontrarmi, non sono una groupie ma insomma, sono al settimo cielo.
Rileggo il bel capitolo che le ha dedicato Frédéric Mitterrand ne La mauvaise vie e ricopio questa frase nel mio taccuino: «…Cortese anche quando è sferzante, distante anche quando è calorosa, attenta e irraggiungibile, disponibile e riservata, appassionata e trattenuta, intrepida e prudente, generosa e diffidente, consapevole del privilegio della sua bellezza e reticente ad approfittarne, colta senza essere intellettuale, fedele fino alla possessività, sofisticata e semplice, golosa e disciplinata, libera e borghese, insolente e pudica, forte e vulnerabile, cerca l’eccellenza in tutto e aborre la falsità e l’inganno, allegra e triste, presente e assente…». Questo elenco di contrasti mi servirà da viatico, non ho intenzione di fare domande laboriose, del tipo: e com’è stato con Buñuel?, e con Truffaut?, non sono un semplice giornalista di cinema a caccia di aneddoti dal set, no, sono uno scrittore, come Patrick Modiano del quale si sa che è molto amica — e bisognerà che si scansi per farmi posto, Patrick Modiano, perché quella che farò io non sarà un’intervista classica, bensì un ritratto tutto sfumature e complicità della vera Catherine Deneuve. Una conversazione, uno scambio, un incontro. Ecco cosa sarà: un incontro.
***
L’appuntamento è fissato al Panthéon, un vecchio cinema del Quartiere Latino rilevato da Pascal Caucheteux, produttore, fra gli altri, di Arnaud Desplechin. Sono una delle famiglie di Deneuve, Desplechin e Caucheteux, e quando il primo piano è stato trasformato in salone bar, lei si è offerta di arredarlo. Rovistando nei mercati d’antiquariato ha scovato queste poltrone, questi divani, queste lampade, queste librerie piene di libri dall’aria vissuta. L’insieme è caldo, confortevole, ci si sta bene. A una delle rare domande sensate che le farò — cos’avrebbe fatto se non fosse diventata un’attrice —, risponderà: «Credo che mi sarei sposata molto giovane, avrei avuto dei figli molto giovane e avrei divorziato abbastanza in fretta, poi avrei lavorato. Forse in uno studio di architettura, oppure nell’arte decorativa: ho sempre avuto un interesse per queste cose».
Ma riprendiamo dall’inizio. Lei arriva: pantaloni e maglione blu, occhiali, i capelli biondi e quel fraseggio rapido, così riconoscibile, per cui Rappeneau diceva che Deneuve aveva il tempo di recitazione ideale, il massimo di sillabe nel minimo di secondi possibile senza mai saltarne una. Ossessionato dall’idea di essere semplice e naturale, scherzo sul tema: fa comunque un certo effetto trovarsi di fronte a Catherine Deneuve, del resto ho passato la mattinata a pensare a cosa mettermi, per fare bella figura ma senza essere troppo elegante… «Anch’io» dice lei, «all’inizio avevo pensato di mettermi la gonna, ma poi, siccome dovevamo sederci su questi divani un po’ bassi, ho optato per i pantaloni…».
Incoraggiato da tanta naturalezza e semplicità, le racconto la mia telefonata a Bonitzer e, credendo di divertirla, magari addirittura d’intenerirla, le dico che il povero Pascal ha dei rimorsi. Lei non è divertita né intenerita: «Rimorsi? Ne ha ben donde. Non era un buon pezzo, non ha lavorato abbastanza». Bene. Colgo l’avvertimento, ma ciò non m’impedisce di partire per la tangente. Inizio a dire cose come: «Si sente che il rigore è importante, per lei…». Puntini di sospensione. Cosa volete che risponda, poveretta? «È vero, il rigore è molto importante». Dopo il rigore verrà il turno della lucidità, dell’onestà, della coerenza, di una franchezza non priva di durezza, tutte virtù che le attribuisco con un tono benevolo, etereo, come appannato da una vita interiore ineffabile, tanto che paragonato a me anche il più mellifluo Jacques Chancel è un Noël Godin che tira le torte in faccia. E quando, esaurita la lista delle sue superiorità morali, ci mettiamo a guardare le foto che ha scelto, dico: «Ah sì, l’ho visto tanto tempo fa, questo film, però ne ho un bel ricordo, mi sembra che fosse bellissimo». «Lo penso anch’io», dice lei. «Molto toccante».
Preso come sono a cercare di evitare l’intervista ortodossa a favore di una conversazione semplice e naturale, non faccio una vera domanda che sia una, e di conseguenza non ottengo nessuna vera risposta. A mia discolpa, va detto che mi sento sempre più a disagio. Cosa ci faccio qui? È stata lei a volere me, e non un altro, e ora mi lascia penare senza farvi il minimo accenno. Come scrivevano amaramente i fratelli Goncourt a proposito di una loro conoscente: «In lei non c’è traccia che abbia letto i nostri libri». Né visto i miei film, niente di niente. Ricordo un’intervista a Sigourney Weaver — era quando facevo il giornalista — in cui lei era riuscita a chiedermi se avessi fratelli o sorelle. Non ero così ingenuo da credere che gliene importasse davvero, immaginavo che fosse una cosa da coaching e che la ripetesse, con o senza varianti, con tutti i giornalisti che si avvicendavano nella sua stanza d’albergo, ma insomma mi era sembrato che quello sforzo per rendere l’intervista più simile a un rapporto umano normale scaturisse da una buona intenzione. Non mi aspettavo certo che Catherine Deneuve invertisse i ruoli e mi facesse domande sulla mia vita, le mie opere, i miei colori preferiti, ma insomma, una strizzatina d’occhi, una parola per segnalare che mi aveva scelto mi avrebbe senz’altro messo a mio agio e invogliato a scrivere su di lei il miglior articolo possibile. Anche solo per questo era nel suo interesse, che cosa le costava? Immagino ne fosse consapevole, eppure non l’ha fatto. Avrei dovuto avere la presenza di spirito di chiederle perché, questo sì sarebbe stato semplice e naturale, ma non l’ho fatto neanch’io, e ancora mi ci interrogo.
***
Nei giorni seguenti ho medicato il mio piccolo ego ferito raccontando la disavventura al mio entourage. È diventato una specie di sketch comico, in cui io appaio garbatamente imbranato e lei cortesemente odiosa, come l’anziana e dispotica nobildonna che incarna magistralmente in Palais Royal! di Valérie Lemercier. Ognuno azzarda la sua interpretazione. Il precedente di Pascal corrobora la tesi: Deneuve è abilissima a mettere a disagio le persone e, come se non bastasse, a convincerle che sono loro a essersi comportate male. Un atteggiamento da diva, un comportamento perverso.
Ma questo è quel che pensa chi non la conosce. Chi la conosce, nessuno escluso, è di tutt’altro parere. Ho appena parlato con l’attrice Hélène Fillières, che ha interpretato sua figlia nel film di Tonie Marshall Au plus près du paradis . Deneuve è il suo idolo: all’idea di trovarsela di fronte moriva dall’agitazione e dall’ansia, e invece ha scoperto una donna semplice e diretta, franca e infiammabile, rock’n’roll, dice Hélène, una donna che proprio perché sa benissimo di essere un oggetto del desiderio universale se ne va in giro sul set in bigodini senza metterla giù dura, una donna che la sceneggiatura prevedeva che Hélène a un certo punto baciasse sulla bocca, e baciare Catherine Deneuve sulla bocca è stata una cosa incredibilmente sexy e al tempo spesso incredibilmente spassosa: perché con lei ci si diverte, si beve del rosso, si parla di uomini e la leggenda è nell’aria ma non pesa mai. Ascolto Hélène Fillières, ascolto Nicole Garcia e Anne-Dominique Toussaint, la mia produttrice, che le sarà riconoscente in eterno per aver accettato all’ultimo momento, su due piedi, di sostituire un’attrice non più disponibile: Deneuve si è messa al lavoro senza tante storie, come ci si rimbocca le maniche prima di affondare le mani nel grasso e ha salvato il film senza mai farlo pesare a nessuno.
Questi racconti non coincidono con la mia esperienza imbarazzata e vagamente umiliante, e mi dico che a furia di voler essere semplice e naturale mi sono messo da subito in una pessima posizione: sdegnando quella del semplice giornalista, ma senza il coraggio di ricoprirne un’altra, totalmente obnubilato da questa domanda e di conseguenza paralizzando anche lei. Adoro, e gliel’ho citata, la frase di Marguerite Duras che intervista la cantante Leontyne Price: «Di fronte a lei, penso a lei». La trovo una frase folgorante per la sua semplicità, la sua evidenza. L’essenza dello zen, e quel che vorrei raggiungere, se possibile in questa vita: di fronte a una persona, pensare a quella persona e a nient’altro. Il problema è che di fronte a una persona come Catherine Deneuve la maggior parte della gente, e mi sono reso conto di non fare eccezione, pensa innanzitutto a se stessa e all’impressione che le farà. E dal momento in cui si pensa così, si è fregati: ci si ritrova in una posizione d’attesa, alienati e in difficoltà, e anche volendo lei non potrebbe farci nulla. E allora vi lascia annegare, è un problema vostro.
Ripenso a un momento dell’intervista. Caucheteux, il produttore e padrone di casa, ci ha raggiunti brevemente, ha poggiato il sedere su un bracciolo. Caucheteux è un tipo piuttosto burbero, con una giacca sformata e un paio di jeans cascanti, il tipo che legge «L’Equipe» senza neppure alzare il naso per salutare. Lei si era accesa una sigaretta, e non era la prima. Combattuto fra l’ammirazione senza riserve e l’ostilità nascente, io mi chiedevo se fumare in un luogo pubblico in cui è chiaramente vietato fosse un simpatico tratto di ribellione o volesse soltanto dire: sono Catherine Deneuve e voglio proprio vedere chi ha il coraggio di chiedermi di spegnere la sigaretta. Caucheteux ha alzato il mento con aria beffarda e ha detto: «Oh». Lei ha fatto finta di non capire e lui ha gentilmente precisato: «La sigaretta». Lei si è scusata: «Non c’è quasi più nessuno», ha riso, ha fatto un ultimo tiro e ha schiacciato il mozzicone.
Per un istante era diventata la donna semplice e gentile, né indisponente né smorfiosa, che mi avevano descritto e che io non vedevo. Per un istante ho smesso di vedere me che m’incarto e cerco invano la posa giusta, ho visto lei, e sono finalmente — nel vero senso della parola: ci ho messo del tempo — d’accordo con Frédéric Mitterrand, che avevo chiamato il giorno prima dell’appuntamento e che, con quella sua voce che conoscete, mi aveva detto: «Vedrai che non ti deluderà».