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 2015  marzo 14 Sabato calendario

IN GALERA PUR ESSENDO INNOCENTE

[Intervista a Mario Rossetti] –
«Ho scritto questo libro come una testimonianza civile, e ho avuto il coraggio di farlo con il ricorso in appello della Procura ancora aperto contro di me perché credo che sia un dovere raccontare i problemi della giustizia che toccano le persone normali. Cinquantacinquemila persone in vent’anni che sono andate in carcere senza colpe»: Mario Rossetti (che fu tra gli imputati celebri dell’inchiesta Fastweb, assolto in primo grado dal Tribunale di Roma) è figlio di un generale dei Carabinieri, ed ha fatto il servizio militare nell’Arma.
È un legittimista convinto, i colleghi che ha avuto nella sua carriera, dal gruppo Benetton alla Banca di Roma a Vodafone fino a Fastweb dicono di lui che, semmai, è piuttosto un puntiglioso, un pignolo, non certo un pressapochista spregiudicato.
Eppure, la Procura di Roma lo ha inquisito dal 2007 al 2010 per illeciti che avrebbe commesso da direttore finanziario di Fastweb e, dopo un unico interrogatorio nell’estate del 2007, tre anni più tardi, senza alcun preavviso, lo ha fatto arrestare dalla Guardia di Finanza, condurre a San Vittore e poi a Rebibbia, per cento giorni; e quindi spedito ai domiciliari per altri otto mesi, con tutti i beni di famiglia (cioè i suoi, ma anche quelli della moglie) posti sotto sequestro, costringendo la famiglia a vivere di prestiti.
Liberato anche dai domiciliari è stato assolto dal Tribunale con una sentenza che ha sgretolato tutte le tesi dell’accusa. «E così ho trovato il coraggio di scrivere la mia storia», spiega con semplicità.
A doppia firma con Sergio Luciano (un giornalista che collabora da anni a ItaliaOggi e che è stato suo collega nel gruppo Fastweb) per i tipi della Mondadori: «Io non avevo l’avvocato».
Domanda. Dottor Rossetti, che significa il titolo?
Risposta. È stata un’idea di Antonio Albanese, il comico. L’ho conosciuto pochi mesi fa a una cena di amici, gli ho raccontato del libro, della mia vicenda. Mi lasci dire: del mio calvario. E di quello della mia famiglia. Tra le altre cose raccontai ad Albanese che quando, quella mattina alle 5, i finanzieri hanno bussato a casa mia svegliandoci, mi hanno subito detto, notificandomi l’ordinanza di custodia cautelare, che avevo il diritto di telefonare al mio avvocato. Ma io, appunto, non avevo l’avvocato. Chi avrei mai potuto chiamare a quell’ora? Non ero più stato interrogato da nessuno da tre anni! E ho rimediato telefonando a un avvocato che era in realtà un mio compagno di allenamento nelle maratone, l’avvocato Lucio Lucia, sapendo che era mattiniero. Buona scelta: Lucio è stato bravissimo. Ma un altro titolo possibile per il libro sarebbe stato quel che spiegavo prima: ’Una storia per i miei figli’. Per sottolineare appunto che raccontare questo genere di storture è un dovere verso il futuro della nostra società.
D. Ce l’ha con i magistrati?
R. No, non lo creda: alcuni magistrati mi hanno inquisito gettandomi addosso accuse infondate e infamanti, e certo credo, e scrivo, che hanno lavorato male; ma altri magistrati come loro hanno constatato tutto ciò e mi hanno assolto. Non ce l’ho con i magistrati. Per questo mi sono difeso nel processo, non dal processo. E nel processo ho visto riconoscere la mia innocenza. Ce l’ho con l’uso abnorme della custodia cautelare, ce l’ho con le carceri, che fanno paura e schifo e che, lungi dal redimere i delinquenti, rischiano di far delinquere gli onesti. Ce l’ho con un corto circuito viziato tra Procure e media che sbattono il mostro in prima pagina all’apprendersi delle accuse e quasi sempre ignorano le assoluzioni.
D. Ho capito: vuol buttarsi in politica
R. Non sto studiando nessuno sbarco, sto facendo il mio dovere di cittadino, padre di figli giovani che meritano un Paese migliore. Veda, io sono una persona fortunata perché sono qui a parlare della mia storia grazie al fatto di aver potuto difendermi, di essere stato assolto e, ora, di aver potuto scrivere anche un libro. Ma, stanotte, diecimila italiani dormiranno in carcere senza colpe accertate. Prenderanno forse delle malattie infettive per le condizioni igieniche degradanti delle celle, qualcuno verrà forse stuprato, qualche altro, per quieto vivere, dovrà voltarsi dall’altra parte quando in cella entrerà della droga e tutto questo sapendo che la sua famiglia sta soffrendo, senza soldi e senza più rispetto, sapendo che all’uscita non ritroverà il lavoro, che l’avvocato vuole essere pagato per condurre bene la difesa e lui non sa, in carcere, come fare per pagarlo. Duemila anni fa, in questo stesso nostro Paese, c’erano dei giuristi che avevano scolpito una massima: ’In dubio, pro reo’, significa che fin quando permane un dubbio sulla colpevolezza di un uomo, non lo si deve condannare. Invece con le misure cautelari comminate con tanta durezza e superficialità, la condanna è già consumata nei fatti quando ti arrestano.
D. Avranno avuto le loro buone ragioni per arrestarla: temevano, probabilmente, che lei potesse inquinare le prove!
R. Ma se ero fuori da Fastweb da tre anni, come le avrei mai potute inquinare, queste prove?
D. Che sarebbe fuggito, allora!
R. Con tutti i beni sequestrati e tre figli sotto i 12 anni in Italia?
D. Che avrebbe reiterato il reato, insomma!
R. Ah, be’: certo, tutto è possibile, allora arrestiamo tutti cautelativamente! E comunque, non lavorando più in Fastweb, io certamente lì dentro non avrei più potuto reiterare niente!.
D. Ma lei cosa propone? Che i Pm che sbagliano paghino?
R. Guardi, è un aspetto, questo, di cui nel libro non mi sono proprio voluto occupare. Tanto nessuno mi ridarà quello che si sono presi. Certo, è inquietante che nessuno paghi, se non monetariamente, in termini di avanzamenti di carriera, per i gravi errori professionali commessi. Ma questo, ripeto, è un altro tema. Quel che io propongo, ma da cittadino che pensa e si esprime, non certo da giurista, è che l’uso delle garanzie a tutela di chi viene sottoposto a misure cautelari sia molto più rigoroso. Il Tribunale del riesame è poco più che una foglia di fico, come del resto il Gip: finché un’istruttoria non arriva al dibattimento, è la Procura ad avere totalmente in mano, nel bene e nel male, il destino dell’inquisito. Senza veri contraddittori con nessuno.
D. Lei ha scritto il suo libro insieme con un amico giornalista, eppure, proprio i giornali, hanno tenuto la storia sua e degli altri imputati del caso Fastweb per giorni e giorni in prima pagina, salvo poi riportare soltanto in breve la notizia dell’assoluzione.
R. È un’ingiustizia nell’ingiustizia», risponde il coautore di «Io non avevo l’avvocato», Sergio Luciano, «che dovrebbe essere finalmente valutata e regolata anche dalla legge.
Nessun limite al diritto di cronaca, sia chiaro: ma obbligo di rettifica e riabilitazione reputazionale. Noi giornalisti abbiamo le nostre colpe e dovremmo essere assai meno supini alle informazioni più o meno ufficiose che trapelano dalle Procure. Ma quando la notizia arriva, ed è vera perché consacrata da un atto pubblico come un documento di istruttoria, è fatale che la si pubblichi. Solo che la pubblicazione in sé diventa già una condanna: una condanna al discredito, al sospetto, talvolta alla gogna sociale. Per questo bisognerebbe stabilire, per legge, che qualunque cittadino sia stato oggetto di cronache mediatiche per un rinvio a giudizio legato ad accuse dalle quali viene poi assolto, avesse il diritto di veder pubblicata la notizia dell’assoluzione con lo stesso risalto con il quale era stata pubblica quella dell’incriminazione.
Giulio Genoino, ItaliaOggi 14/3/2015