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 2015  marzo 14 Sabato calendario

L’ELDORADO ADESSO È QUA

Pm Group, Bruno Magli, All Music-Deejay Tv, Calzaturificio Dalbello, Userfarm, Coord3 Industries, Restopolis, MyTable, Energeya e Desmon? Cos’hanno in comune queste aziende dei più disparati settori industriali e dalle dimensioni assai differenti l’una dall’altra? Sono tutte società italiane che hanno trovato l’America in casa. Perché sono i target finiti nel mirino e poi rilevati da gruppi d’Oltreoceano nei primi due mesi di quest’anno: dieci imprese di medio-piccole dimensioni ma dal solido know-how, soprattutto in campo manifatturiero e con un ciclo produttivo stabile. Si va dai 78 milioni di giro d’affari di Pm Group, primo costruttore italiano di gru idrauliche per autocarri, comprata da Manitex International (giro d’affari di 264 milioni di dollari), ai 12 milioni di ricavi dell’avellinese Desmon, specializzata nelle apparecchiature e attrezzature per il catering che, a vent’anni dalla sua fondazione, è stata appena rilevata dalla Middlebi Corporation (1,64 miliardi di dollari di fatturato consolidato). Mentre, passando alla new economy e al business digitale, TripAdvisor per conquistare il settore delle prenotazioni dei ristoranti in Italia ha deciso di definire in pochi giorni l’acquisizione di due start-up di successo come MyTable e Restopolis.
Questo inizio di 2015 così effervescente non è una novità in senso assoluto. Segue il boom registrato nel 2014 in termini di m&a a stelle e strisce; ben 43, su un totale di 201 deal conclusi nel corso dell’anno da gruppi esteri sul suolo italiano sono stati i colpi messi a segno da conglomerati, colossi o normali aziende americane nel nostro mercato, un record nella storia recente dell’industria nazionale. Nulla a che vedere con gli affari conclusi da cinesi e arabi che, seppure più d’effetto (basti citare l’ultimo deal miliardario del fondo del Qatar che ha rilevato l’intero capitale del progetto immobiliare e residenziale di Milano Porta Nuova da Hines sgr, o il precedente shopping strapagato della griffe Valentino), rappresentano una fetta assai minore in termini di volumi. Sono state, infatti, solo 16 le operazioni messe a segno l’anno scorso da società cinesi in Italia come emerge da una rilevazione effettuata dall’ufficio studi Kpmg su dati di Kpmg Corporate Finance che MF-Milano Finanza ha potuto consultare. Insomma, lo zio Sam è tornato prepotentemente ad affacciarsi sull’industria e sul made in Italy. Lo dimostra il deal miliardario Whirlpool-Indesit completato da poco, o le acquisizioni di brand consolidati del lusso quali Gianni Versace (rilevata dal fondo Blackstone, che a livello immobiliare sta facendo incetta di trophy asset nelle principali città e Poltrona Frau rilevata da Harworth.
Come si spiega il ritorno di fiamma americana per le nostre eccellenze che ha portato nell’arco di 12-18 mesi a un raddoppio della presenza a stelle e strisce nel tessuto manifatturiero italiano? «Alla base di questo trend ci sono fattori economico-finanziario ma anche strategici», sostiene Matteo Contini, partner di Kpmg che proprio in queste settimane è stata coinvolta nello shopping di Desmon da parte di Middlebi. «Le aziende americane oggi stanno bene perché il loro ciclo economico è ripartito e vogliono tornare a consolidarsi su scala globale. Inoltre hanno cash a disposizione da destinare ad acquisizioni senza ricorrere al debito. E, infine, sfruttano il cambio favorevole euro-dollaro». Ma non sono solo queste le leve che stanno sostenendo questa invasione d’Oltreoceano. «Non è un segreto che gli imprenditori americani siano attratti dal made in Italy, dai brand e anche dalla tecnologia. Quello che colpisce, però, è che c’è una particolare attenzione all’Italia rispetto ad altri mercati del Vecchio Continente», continua Contini. Un fenomeno, a onor del vero, che si spiega anche dalla maggior debolezza delle imprese italiane colpite sia finanziariamente sia dal punto di vista produttivo da una crisi senza precedenti: solo nel 2014, secondo il Cerved, in Italia si è assistito a qualcosa come 15 mila fallimenti (dato record degli ultimi 10 anni) . Un saldo che arriva a 82 mila crack dal 2008 a oggi con la conseguente perdita di 1 milione di posti di lavoro. «Queste condizioni facilitano le acquisizioni ma gli americani non sono avvoltoi. Non rapinano il know-how, non trasferiscono le produzioni all’estero. Anzi spesso preferiscono mantenere nel capitale delle società che rilevano la figura del fondatore, con quote di minoranza. Una garanzia per la continuità». Inoltre il tessuto di pmi locali soffre spesso di difficili passaggi generazionali, soprattutto quando si tratta di realtà a proprietà e gestione interamente familiare. «Ma ai colossi Usa piace la nostra tecnologia, la produzione», continua il partner di Kpmg. Ma soprattutto c’è un altro elemento distintivo che caratterizza lo shopping americano: «Nella maggioranza dei casi si tratta di conglomerate già presenti in Europa che conoscono il territorio nel quale operano e che vanno alla ricerca delle nicchie dove eccellono le aziende italiane che spesso sono loro piccoli competitor». Insomma, il gigante made in Usa ha bisogno della pmi per completare la propria gamma di prodotti. «Per questo nella maggior parte dei casi i deal che definiscono sono mirati, non passano dalle aste competitive, come invece avviene per il fondi di private equity, e non ricorrono all’advisor», conclude Contini. «Conoscono la preda, le riconoscono il valore intrinseco della catena produttiva e sono disposti a riconoscere multipli più alti della media. In un mercato che comunque l’anno scorso è tornato a crescere, nel 2014 in Italia si sono concluse 543 operazioni contro le 381 del 2013 per un controvalore di 50 miliardi di euro, rispetto ai 31 miliardi dell’anno precedente.
Andrea Montanari, MilanoFinanza 14/3/2015