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 2015  marzo 14 Sabato calendario

I BUDDENBROOK DELL’ORECCHIETTA ARRESTATI PROPRIO ALL’ORA DEL TÈ

Ci sono pure le colf eritree che usano i verbi all’infinito, le serate alla Scala e le aste di beneficenza, la Milano “dentro le mura” e la casa a Montecarlo anzi Monaco, come dicono i ricchi nei film di Tognazzi, in questa imperdibile biografia postuma di Emilio Riva, L’ultimo uomo d’acciaio (Mondadori), scritta dalla sua compagna Giovanna du Lac Capet. Tutto colazioni e battute di caccia, Africa e Lombardia, soldi e capi d’accusa, fino alla morte di Riva, ucciso non dal cancro ma “dall’ingiustizia”, a sentire Vittorio Feltri nella prefazione.
È il 1976 quando Giovanna, da poco coabitante more uxorio con l’imprenditore del ferro (dal 1995 padrone dell’Ilva ex Italsider), rientra nella villa di Malnate, accolta dalla colf: “È con me da due anni e non ricordo un compito domestico che questa donna eritrea non sappia svolgere perfettamente”. Non solo: un po’ come tutti gli africani “ci somministra perle di saggezza sublime” parlando come la tata negra di Via col vento: “‘Teberi, ha chiamato qualcuno?’ ‘Telefonato signor Emilio’ ‘Ha detto quando rientra?’ ‘Non sapere’” (citazione testuale). È una giornataccia: Emilio è stato arrestato, lo dice lui al telefono. “Giovanna, t’ho detto di stare tranquilla. È per via di quell’operaio in fabbrica di cui ti ho accennato”. L’incombenza è delle più spiacevoli. La sera prima c’è stato un incidente in fabbrica: “Abbiamo un percorso tracciato apposta per raggiungere uno dei forni. A volte qualcuno lo taglia, per fare prima. Forse era a fine turno, forse aveva fretta”. “Si è fatto male?”, chiede la signora candidamente. “Giovanna, è morto”, risponde il padrone con tempi drammatici perfetti. Seccante. Giovanna, “nobile donna italiana e africana, bizantina e francese, discendente dei re Capetingi, di Costantino il Grande e degli imperatori dell’Impero romano d’Oriente” (sempre Feltri), è sconvolta : “Emilio in centrale, e lui cosa c’entra?”. L’accusa è di omicidio, ma è ora di cena: “Il maresciallo concede uno strappo. Gli offre la cena” e poi, invece di condurlo nel carcere di Busto Arsizio, “gli offre ospitalità nella sua casa, e addirittura nel letto del figlio”. È un mondo di galanterie perdute, dove Emilio, in galera, gioca a poker coi detenuti e a Pasqua cucina per tutti un capretto “da acquistare tassativamente da Peck, la salumeria più rinomata di Milano”.
Lui è “il riassunto umano della concretezza. È presuntuoso, spesso arrogante”, “l’esempio più fulgido del vero self-made man”. L’ha conosciuto in Africa, e dire che l’incontro prometteva bene: “La jeep era già piena. ‘Dove mi siedo?’ dissi prima di salire anch’io. ‘Sulle mie gambe, bella signorina’, esclamò una voce che era già a bordo”. Era Riva.
Un giorno Emilio torna: “Amore, sei tornato?”, dice Giovanna, come facciamo tutte quando un marito ci esce di galera. Teberi gli dà il bentornato come la servitù de La mia Africa: “Signor Emilio, vuoi caffè, vuoi acqua?”. “No, lasciatemi fare una doccia”, risponde tetragono il patriarca. Giovanna si precipita in bagno per sistemare, sa quanto lui odia il disordine, “anche un dentifricio chiuso male poteva farci litigare”.
Tutto a posto? No: un giorno, mentre la signora è impegnata in un burraco “con mezza dozzina di ospiti” nella villa in Costa Azzurra, squilla il telefono. È Emilio, da Roma: “Giovanna, mi hanno arrestato”. Oh no, di nuovo. “Arrestato? Ma non avevi un appuntamento al ministero?”, chiede lei. Eh, “è saltato”, come succede quando ti arrestano. Gli amici accendono la Tv: disastro ambientale. “I mass media sparano a raffica notizie sconvolgenti: donne, uomini, bambini. Improvvisamente attorno a noi sono tutti morti, morti a causa delle esalazioni prodotte dall’acciaieria”. Proprio adesso che c’è il burraco. La signora sta per svenire: “Mio Dio, non ne sapevo niente. Ma sono morti tutti adesso? Cosa sta succedendo a Taranto?”. Questi meridionali. Quando si tratta di morire non hanno nemmeno il buongusto di aspettare che finisca il tè con le amiche. È disperata, piange, “stanno attaccando Emilio come fosse un nuovo Hitler”.
Poi di nuovo scenate di gelosia e party in Costa Azzurra, bolliti e salotti silenziosi tipo L’Adalgisa di Gadda, fino al 2012, quando Emilio viene arrestato per l’ultima volta, per gli stessi reati per cui fu condannato in via definitiva nel 2002 e nel 2007. Una vita dove si va dall’Africa in Svizzera per rilassarsi qualche giorno, dove le case non si vendono ma, come le fabbriche, si “chiudono”, degli anni d’oro di Montecarlo, quando potevi “incontrare Jackie Kennedy sul Riva che si spostava lungo le spiagge della Costa Azzurra” o “Onassis e Niarchos, con le loro donne che amavano sfoggiare i gioielli più sfavillanti del mondo”, dice la du Lac con un filo di malinconia. Essì, perché dal patriarca, “uno che con la propria donna in un istante si comporta da stronzo e l’istante dopo è la persona più meravigliosa che esista”, solo grettezza e vanagloria, come quando da “imprenditore dentro” qual è le impedisce di comprare degli orecchini da 3 mila lire in un mercatino di Ibiza ma poi a un’asta se ne aggiudica uno da 10 mila dollari, così. E lei lì a pensare a porcellane di Meissen, bicchieri di Baccarat, tovaglie ricamate di Jesurum, merletti di Bruxelles, tappeti iraniani e al “meraviglioso design italiano nell’arredamento e nella moda”, tutte cose che non esisterebbero, “senza i ricchi che spendono il proprio denaro”. Peccato che Emilio, nato povero, arruolatosi a 17 anni nella Repubblica di Salò, ai soldi ci tenga troppo per goderseli, a dai ristoranti fugga prima del conto per fare “uno scherzo” a un socio altrettanto taccagno (ma poi al cospetto dell’imperatore di Etiopia si fa benvolere perché i chihuahua del sovrano non gli abbaiano contro).
La principessa presto s’accorge che la grande famiglia industriale ha poco di grande e forse pure di famiglia: divorziata per stare con Riva, è odiata dai quattro figli di lui che la mobbizzano; così lo minaccia tipo “o me o loro” e vince lei, siccome lui è “ossessionato dal pensiero che, appena fossi diventata economicamente indipendente, l’avrei subito lasciato”. “Pensiero di uno squallore atroce”, ammette l’autrice, ma “ai miei occhi restava coerente con le sue convinzioni: col denaro si compra tutto”.
Lo squallore, pur atroce, era “un aspetto che mi faceva comunque avvertire il suo amore e il suo bisogno di me”, e “finiva col gratificarmi moltissimo”, come sanno le donne che competono con la roba dei propri mariti, il “sacrosanto privato privatissimo mio, mio!… mio proprio e particolare possesso” (ancora Gadda) che per Riva valeva più di tutto.
Così questi Buddenbrook del carrello dei lessi si muovono nella storia italiana, senza lasciar tracce se non le emissioni delle loro fabbriche, che peraltro resteranno nei cuori dei tarantini nel senso più crudamente letterale della parola. Del resto la vicenda giudiziaria la signora la liquida con un’evidenza lucente: come può essere colpevole di disastro ambientale uno che a Natale “regalava amici e parenti lattine d’olio prodotto nei terreni dell’Ilva, con etichetta Ilva”, come può aver avvelenato le acque se “il capretto tarantino era invece uno dei due protagonisti della nostra tavola durante il pranzo di Pasqua”? La giustizia mondana è quel che è. Piuttosto: colazioni con Prodi, allora presidente dell’Iri, che racconta barzellette terrificanti su alcuni pappagalli che fanno sbellicare i siderurgici; cene con miliardari poliglotti, in cui Emilio, che “non parla una parola d’inglese e di nessuna altra lingua che non sia l’italiano”, fa un po’ la figura dell’arricchito; cene per gli operai con 25 anni di carriera, quelli vivi, “in una rinomatissima trattoria” di Verona, gite a Parigi col noleggio di un “Boeing dell’Alitalia”, e persino il dono di “un lingotto d’oro massiccio da 100 grammi”. Intorno, i nemici: i giornali (specie il Fatto), l’opinione pubblica che non ragiona, i poveri che odiano i ricchi. Non disturbano gli operai e gli abitanti del quartiere Tamburi di Taranto, una specie di colonia da cui attingere risorse alimentari, spezie, fiumi di denaro; tutt’al più, morendo, producono puro rumore nella storia di una gloriosa ascesa nel potere cieco e sordo che non crea sapienza e estingue una dinastia.
E qui il libro della du Lac smette di essere un elogio funebre o una difesa postuma del suo uomo e diventa un romanzo storico sulla fine della grande borghesia industriale, l’autoritratto impietoso e inconsapevole di una generazione di arricchiti che sono l’alfa e l’omega del dramma italiano, condottieri del boom che, senza mai riscattarsi dalla loro arrogante ignoranza, trascinano con sé nella tomba le loro fabbriche, il lavoro e il benessere che raccontavano di aver creato. “In ogni pagina di questo volume ho avvertito la minaccia continua del cattivo gusto”, confessa la Du Lac. “Mi rendevo conto di avere un fantasma che mi braccava. Gli ammalati di tumore a Taranto. Sono l’argomento impossibile da affrontare che blocca ogni parola”. Fortuna che i morti non parlano: abbiamo rischiato che questo libro non uscisse mai.
Daniela Ranieri, il Fatto Quotidiano 14/3/2015