Enrico Deaglio, la Repubblica 14/3/2015, 14 marzo 2015
STEINBECK VIAGGIO IN AMERICA SENZA FURORE
A riprova che non esiste letteratura americana senza politica; e che non esiste politica senza narrazione; e infine che tutto è in America un incessante viaggio di moltitudini di persone, la cronaca ci dà continui esempi. Decisamente alto, quello di pochi giorni fa a Selma, piccolo paese dell’Alabama, dove un Obama in camicia, tra le sue figlie adolescenti e vecchietti in carrozzella, è tornato a marciare, calpestando l’asfalto di un brutto ponte costruito nel 1940.
Il ponte Edmund Pettus (dal nome – mai cambiato – di uno dei fondatori locali del Ku Klux Klan), dove 50 anni fa la polizia dell’Alabama massacrò una piccola folla pacifica che chiedeva per i neri il diritto al voto. Il presidente ha invitato a non smettere di marciare («Selma is now!») e ha avuto parole ispirate sulla storia del proprio paese: «Noi siamo gli schiavi che hanno costruito la Casa Bianca, gli operai che hanno posto i binari e scioperato per i loro diritti, i messicani che hanno guadato il Rio Grande…». Obama parlava da un luogo anonimo e tragico, ma si sentiva a suo agio; e forse per questo trasmetteva un’epica, una musica, l’odissea. Il viaggio di Obama mi viene utile per introdurre un libro notevole e originale. Si chiama In America, viaggio senza John , scritto dal giornalista-storico olandese Geert Mak, pubblicato in Italia da Ponte alle Grazie per la traduzione di Franco Paris. Il “John”, di cui l’autore sente la mancanza, è John Steinbeck, che nel 1960, all’età di 58 anni si attrezzò un camper (cui diede il nome di “Ronzinante”, come il cavallo di Don Chisciotte) e partì per un viaggio nel suo paese con il barboncino nero Charley, che rispondeva al suo padrone solo se questi gli parlava in francese. Steinbeck guidò Ronzinante dall’est all’ovest e tornò verso New York attraverso il Texas e il profondo sud del paese. Era fornito di fucile, di una scorta di viveri e liquori, di matite e di un taccuino e si lavava poco; si fermò in grandi città e centri sperduti, attaccando bottone con chiunque, andando a pescare con chi incontrava nei bar. Ne uscì una road novel, In viaggio con Charley, che, insieme a Pian della Tortilla, Uomini e Topi, Furore , gli fece ottenere, due anni dopo, il Nobel.
Geert Mak, che per Steinbeck nutre una sorta di venerazione, è un giornalista di Amsterdam nato appena dopo la guerra, con una lunga carriera di impegno progressista ed è l’autore del bestseller In Europa, biografia del vecchio continente a partire dalle macerie del 1945. Cinquant’anni dopo, Mak si è rimesso in viaggio, senza camper e senza cane, ma comunque calcando le stesse strade percorse da John, per dare conto di quel mondo e di quello nuovo . In America , nel suo andirivieni tra l’oggi e il passato prossimo, rinuncia all’originalità narrativa, per scavare piuttosto nelle arti del reportage sociologico, fino a diventare un inaspettato compagno di viaggio e insieme un bignami di storia contemporanea. Il piacere del libro sta nella percezione del tempo che trasmette. La scena si svolge in un anno, il 1960, e in un grande paese, allora per buona parte sconosciuto ai suoi stessi abitanti. A soli quindici anni dalla sanguinosa vittoria su Germania, Italia e Giappone, l’America, da esperimento sociale fascinoso, ma incerto, è diventata un paese ricco, smodatamente consumista e allegramente imperialista. John Steinbeck, che aveva cantato un altro mondo – i contadini in fuga dall’Oklahoma alla California; i braccianti messicani, i pescatori di sardine di Monterey, gli impauriti soldati in Europa – ora osserva stupito la nascita di nuove città dalle case prefabbricate – i “suburbs” – le vendite a rate, la televisione, la pubblicità delle sigarette, la ricchezza diffusa, il cambiamento nell’alimentazione, «le sequoie che rendono gli uomini nervosi ». Un paese non più isolato e sobrio ma che prende l’aereo per una cosa nuova chiamata week-end e confonde i lavoratori con i turisti. L’autore torna stupito nella sua Monterey: «una volta qui eravamo tutti poveri»; scopre che il popolo è più difficile da trovare, sommerso da una sconfinata middle class.
Il 1960 del viaggio di Steinbeck serve a Geert Mak come un anno spartiacque della storia. Il vecchio Nixon contro il giovane Kennedy (e dire che tra i due c’erano solo 4 anni di differenza), la paura dei conservatori: «saremo governati dal Papa di Roma?», la forza imprevista della televisione che ridefinisce la democrazia, la scoperta delle oscure grandi macchine elettorali. La modernità: solo 60 anni prima, annota Mak, l’America aveva eletto presidente Theodore Roosevelt, che si vantava di aver ucciso, nella guerra di Cuba uno spagnolo «con le mani nude, come un coniglio». Il 1960 è un anno felice, che precede di soli due anni la crisi atomica di Cuba, di tre l’uccisione spettacolare del presidente, di quattro la rivolta dei ghetti neri, di sei l’epocale disastro del Vietnam, di quattro la nascita del femminismo. Se gli appunti di Steinbeck prendevano le misure del cambiamento del “carattere americano”, Mak è efficace nel dare le coordinate di una grande trasformazione sociale, e della velocità con cui questa è avvenuta.
Nelle 600 pagine del libro, spiccano, per la forza narrativa di allora e del presente, le descrizioni di Chicago, di Detroit e di New Orleans. Se la sua amata San Francisco apparve a Steinbeck immobile e fascinosa «come il dipinto di una città medievale italiana», la capitale dell’Illinois gli fece invece paura: la metropoli popolata dai neri, meta finale di una biblica emigrazione (per Mak, Chicago è la spiegazione del fenomeno Obama); Detroit, la capitale dell’automobile, del lavoro meccanico, dell’acciaio e del socialismo americano, nel 1960 si presentava come «un luogo dalle fiabesche dimensioni»; nel 2010 Mak camminò in mezzo a «una favolosa rovina», un’astronave abbandonata, preda di violenza, senza legge, dove una casa intera si poteva compare a mille dollari eppure rimaneva invenduta. E infine New Orleans, dove Steinbeck assistette a una violenta manifestazione di donne bianche contro la presenza di una bambina nera in una scuola elementare. (L’autore aveva appuntato, in una pagina intera, tutti i più terribili insulti lanciati contro quella bambina; l’editor tagliò tutto, perché “troppo forte”; l’autore scrollò le spalle: «fate pure, ma fate male, perché tagliate la verità»); è la stessa città dove l’uragano Katrina nel 2005 dimostrò quanto razzista fosse ancora l’America e quanto New Orleans fosse vicina alla Selma del 1965 e di oggi.
Bel libro; naturalmente senza conclusioni. Steinbeck, alla fine del suo viaggio, disse «l’America è più grande di quanto pensassi, e più misteriosa». Per Geert Mak, il ventunesimo secolo non sarà più il secolo americano, ma gli americani il ventesimo l’hanno succhiato più di chiunque altro. Più nel bene, che nel male.
Enrico Deaglio, la Repubblica 14/3/2015