Federico Rampini, la Repubblica 14/3/2015, 14 marzo 2015
LA SVALUTAZIONE DELL’EURO SPIAZZA L’ECONOMIA USA IL MADE IN ITALY GUIDA L’INVASIONE DI PRODOTTI UE
NEW YORK.
«Una manna per l’Europa, ma l’America comincia soffrire». Così rapida, così brutale, la svalutazione-lampo dell’euro non l’aveva prevista nessuno. Il Wall Street Journal elenca i vincitori, mette in evidenza proprio il lusso made in Italy: +28% Moncler, +13,4% Luxottica, +10,4% Brunello Cucinelli, +9,3% Salvatore Ferragamo. Sono gli aumenti delle vendite di questi marchi sul mercato Usa, nell’ultimo trimestre del 2014. Da allora l’euro è sceso ancora, molto più giù. E sì che quelle cifre spettacolari di aumento — percentuali che un tempo erano da “mercati emergenti” — sono state ottenute dal made in Italy senza trasferire sui prezzi di listino l’intera svalutazione. Anzi, finora la strategia di molti imprenditori italiani dà la priorità a un recupero di margini di profitto, che erano stati sacrificati negli anni di euro forte. C’è ancora spazio per spingere sull’acceleratore delle vendite, trasferendo ai consumatori americani un po’ più vigorosamente il calo della moneta d’origine. Ma per una volta che il Vecchio continente è dalla parte giusta della svalutazione, tocca all’industria americana soffrire. Il premio Nobel dell’economia, l’americano Paul Krugman adatta una vecchia battuta e dice: «L’euro è la loro moneta ma è il nostro problema». Nella versione opposta, «il dollaro è la nostra moneta ed è il loro problema», fu detta dal segretario al Tesoro di Richard Nixon negli anni Settanta, quando Washington cominciò a usare l’arma della svalutazione competitiva per esportare nel resto del mondo i suoi problemi (inflazione, deficit provocato dalla guerra del Vietnam). Con un dollaro che ha guadagnato il 27% in un solo anno, oggi è l’eurozona che “esporta i suoi problemi”. Prevalentemente in America, visto che le nazioni emergenti sono inguaiate pure loro. Per ora l’America ha spalle abbastanza robuste per trainare da sola la crescita mondiale. Fino a quando? Le tensioni cominciano a farsi sentire: questa settimana per ben due volte Wall Street ha sofferto cadute pesanti. Se le imprese europee possono allargare i loro margini di profitto grazie a quel che incassano in dollari, al contrario le multinazionali Usa stanno soffrendo una riduzione dei profitti: quando rimpatriano in America, ciò che hanno guadagnato in euro, yen o renminbi vale sempre meno.
Per ora Washington fa buon viso a cattivo gioco. La debolezza dell’euro era scontata: Draghi non fa che applicare da qualche giorno (con 6 anni di ritardo) la cura che fu sperimentata dalla Fed sotto Bernanke. Stampando moneta la Fed contribuì alla ripresa americana, anche per effetto di una prolungata svalutazione del dollaro. Ora le parti s’invertono, anche se nessuno si aspettava che il ribaltamento fosse così fulmineo, concentrato in un arco di tempo breve, e già vicino alla parità uno a uno. La maggior parte degli analisti e delle banche prevedevano un euro a quota 1,15 sul dollaro nel dicembre 2015. La velocità e la violenza del terremoto valutario può provocare contro-reazioni? Sul piano politico qualcosa si avverte: la crescente opposizione verso i nuovi trattati di libero scambio. In passato le voci contrarie si erano levate in Europa. Ora invece sono i sindacati Usa, la sinistra democratica, e anche il Tea Party a contestare quelle liberalizzazioni. Ancora più importante è capire se la svalutazione dell’euro avrà un impatto sulla Fed. La settimana prossima si riunisce il suo comitato monetario. Si attendono segnali su un rialzo dei tassi Usa: è proprio una delle ragioni per cui si rafforza il dollaro, i cui rendimenti risalgono. Finora le attese erano per un aumento dei tassi americani tra giugno e settembre. E se invece la Fed ci ripensasse? Dopotutto, quel che sta accadendo con il riallineamento euro-dollaro, equivale a “importare deflazione” dall’eurozona in America; e si aggiunge alla deflazione già importata col petrolio meno caro. La Fed potrebbe decidere di soprassedere, visto che non c’è nessuna tensione inflazionistica all’orizzonte. Per ora è poco probabile che faccia così (visto che il mercato del lavoro è la stella polare di Janet Yellen e su quel fronte la situazione florida consente un rialzo dei tassi), in caso contrario la sorpresa avrebbe ripercussioni sostanziali sui mercati.
Federico Rampini, la Repubblica 14/3/2015