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 2015  marzo 13 Venerdì calendario

C’ERA UNA VOLTA ITALIA CHE CORREVA E PRENDEVA LE MISURE A TUTTI


TORINO. Un omino che corre portando sotto il braccio un abito. «Tirato come un merluzzo» scherzò il grande maestro Armando Testa che lo aveva disegnato per trasmettere l’idea della velocità offerta dal prêt-à-porter. Ma era anche l’idea della velocità di un’Italia che negli anni Cinquanta del secolo scorso correva verso il boom economico, lasciandosi alle spalle il dopoguerra con le sue paure, i suoi ricordi, la sua miseria e le sue fatiche. Un Paese che, nell’ansia di cambiamento, stava ripudiando anche il sarto, quella figura di artigiano, centimetro e forbici, che sembrava rimandare al dipinto cinquecentesco di Giovan Battista Moroni (National Gallery di Londra) per irrompere in quella rivoluzione che la storia del costume avrebbe poi provveduto ad archiviare nel capitolo della moda pronta.
Artefice la dinastia dei Rivetti, signori della Marus e della Facis, tra Biella e Torino. Inizio nel 1872, due anni dopo la Breccia di Porta Pia, fine nel 2002: centotrenta anni in quindicimila pezzi ora consultabili presso l’Archivio di stato di Torino. Un baedeker messo assieme frammento dopo frammento per un viaggio nella stagione italiana della creatività. Che aiuta a ricordare com’eravamo, e forse a capire meglio come siamo. Ed è un racconto lungo a più voci che comincia nel Biellese laniero e tessile dei Sella dove Giuseppe Antonio Giovanni Rivetti decide, come si diceva una volta, di mettersi in proprio e affittare con i figli Pietro, Quintino, Ottavio e Giovanni una fabbrica a cui segue presto l’apertura di altre tre e poi l’espansione fino a Torino. Nella città non più Capitale del Regno la famiglia incrocia con la ditta David Emanuel Levi Figli & Compagnia, attiva nel campo della compravendita di tessuti, o più esattamente con la società di Donato Levi, cugino di David. È l’incipit della storia: Isaia, uno dei figli di Donato, nei suoi viaggi in Inghilterra e negli Stati Uniti ha visitato alcune fabbriche di confezioni e ne è rimasto impressionato. Al punto che quando torna a Torino prova a sperimentare in casa quella novità: nel 1887, al numero 13 di via Cavour, centro di Torino, viene prodotto il primo abito, giacca-pantaloni-gilet, confezionato pronto su misure teoriche e per un cliente teorico. È l’antenato del prêt-à-porter.
I Rivetti e i Levi e poi solo i Rivetti, già diventati Gruppo Finanziario Tessile, tra alti e bassi finanziari e attraverso due guerre, commerciano tessuti e confezioni: sede centrale in corso Emilia dove, progettata da Aldo Rossi, nascerà Casa Aurora, e poi i negozi Marus (Manifattura abiti ragazzo uomo signora) a Sestriere, Cesana e nella centralissima via Roma di Torino. La svolta risale al 1946, quando dopo la morte di Adolfo Rivetti, i figli Silvio, Franco e Pier Giorgio fanno una doppia scommessa: allontanarsi dal mondo tessile biellese e puntare sullo sviluppo della confezione che sinora è stata il 40 per cento dell’attività del Gruppo.
Nel 1963, in Italia, un vestito su tre è confezionato, al resto provvedono i sarti tradizionali, in città e in provincia. Ma nei quindici anni che vanno dal ‘50 al ‘65 il consumo italiano di vestiti e calzature è raddoppiato. E il sarto non basta più. Vestire però gli italiani senza conoscere le loro misure è un bel rimpicapo. Ecco allora un grosso camion in giro da Milano a Trapani: a bordo un gruppo di esperti, metro alla mano, prova a capire come sono fatti gli italiani, che proprio tutti eguali non sono: ce ne sono di longilinei e tracagnotti, alti e bassi, in un Paese che emerge da un dopoguerra in cui il mangiare è stata un’urgenza più impellente del mangiare bene. E di dieta non se ne parla proprio, se non su qualche rotocalco e per i personaggi del jet set.
A mettere in moto questa singolare macchina è Silvio, che recluta sarti e tecnici e coinvolge venditori e negozianti in una massiccia campagna di rilevazione antropometrica: vengono rilevate le misure di 25 mila italiani e ciò consente di passare da venti taglie teoriche e standard a centoventi, perché adesso si sa più o meno come sono fatti questi benedetti italiani. Al resto provvedono i manifesti, la pubblicità sui giornali e alla radio e, soprattutto, Carosello. Si moltiplicano i marchi e tra questi c’è Cori che è pubblicizzato da Capucine e Catherine Spaak. Col titolo «Parigi e sempre Parigi» Capucine, sullo sfondo della Torre Eiffel, presenta gli angoli e i negozi più famosi della capitale francese. Poi una voce dice: «Questa è una delle donne più eleganti di oggi. Vogliamo scoprire il suo segreto? Questa donna veste Cori». Segue il celebre gingle di Carosello.
Ormai siamo oltre l’omino col «merluzzo» sotto il braccio di Armando Testa. Il Gft ha già cominciato a flirtare con gli stilisti ed è il trionfo del Made in Italy anche nell’abbigliamento. L’intuizione è di Marco Rivetti, figlio di Franco, il quale è convinto che industria e arte non possano essere due mondi distinti e che il loro rapporto non si debba esaurire in una sponsorizzazione: non a caso diventerà presidente del Museo d’arte contemporanea del Castello di Rivoli. Irrompono così in un Gft da 100 miliardi di lire di fatturato, 8 mila dipendenti e otto milioni di capi prodotti e venduti all’anno in settanta Paesi, Ungaro e poi Armani, Valentino, Luis Féraud, Massimo Osti, Chiara Boni, Claude Montana, Jimmy Taverniti, Dior. Ma questa suggestiva storia industriale e di costume si va esaurendo con la fine del Novecento per qualche errore, forse per la morte di Marco, perché Torino ha l’abitudine di lasciarsi sfuggire tutto, anche ciò che ha creato. O più realisticamente perché con la globalizzazione sta cambiando tutto e il «mercato» brucia la fantasia e va oltre quel gesto rivoluzionario che aveva mandato in pensione il sarto.
E così dall’attualità si scivola nella storia dove, fuori dagli archivi, si rischia di scomparire nel nulla. Almeno questo pericolo il Gft l’ha evitato, provvedendo a difendere per tempo la memoria del suo passato. Nei primi anni Ottanta, Anna Martina, direttore della comunicazione e immagine del gruppo con alle spalle esperienze culturali come l’Istituto Gramsci, parla a Marco Rivetti dell’idea di raccogliere tutta la documentazione degli oltre cento anni di vita dell’azienda sparsi negli stabilimenti, in archivi, presso privati, in Italia e all’estero. Vengono costituiti due gruppi di lavoro: uno per la parte industriale guidato da Beppe Berta, docente della Bocconi, e un altro per il prodotto – inteso come disegni, modelli, comunicazione e pubblicità – di cui si occupano Elsa Aimone e Jolanda Bonino.
Si lavora dal 1987 al 1991. Il risultato è una montagna di materiale, migliaia di pezzi, che il sovrintendente agli archivi del Piemonte Guido Gentile riconosce di «rilevanza nazionale». Nel 1995, quando già si avvertono i segnali della crisi che travolgerà l’azienda, è sempre Anna Martina a proporre a Marco Rivetti la donazione di questo materiale all’Archivio di Stato, che però lo stiva in un grande magazzino fino a quando la Fondazione Sanpaolo decide di finanziare con 1,8 milioni di euro il lavoro di catalogazione.
Da qualche settimana, completato questo imponente riordino, questa lunga storia che percorre uno dei miracoli italiani del Secolo breve è consultabile nelle sale juvarriane dell’Archivio di Stato, nel cuore di una Torino quasi affacciata su Piazza Castello, tra il Teatro Regio e Palazzo Reale. Una «memoria salvata» che chiunque può rivisitare, leggendola e osservandola. Proprio per capire «com’eravamo».