Enrico Deaglio, il Venerdì 13/3/2015, 13 marzo 2015
L’INVASIONE DELLE UBER-AUTO
SAN FRANCISCO. Su Uber sentivo dire peste e corna. A partire dal nome, Uber, che ricorda tanto gli Übermenschen di Hitler, cosa che non deve essere sfuggita agli strateghi del brand. Uber, ormai la conoscono tutti, è un’app sul telefonino con la quale trovi un taxi subito, paghi meno dell’auto gialla, e direttamente sulla tua carta di credito. Uber è nata a San Francisco (tutto è nato a San Francisco: dai Beat al FreeSpeech, dalla rappresentanza politica dei gay alla Apple) e in pochi anni si è diffusa in duecento città del mondo, facendo strame – davvero una Blitzkrieg! – di una parte del nostro paesaggio umano: i taxisti. Per capirci: all’inizio del 2015 gli autisti di Uber, che crescono al ritmo di diecimila al mese, in Usa sono già 170.000 e si apprestano a superare gli storici cabbies, che sono 233.000. Uber è in Canada, in Australia, è a Nairobi, sta entrando in Europa, sta sbarcando in Cina ed è valutata 41 miliardi di dollari, orinai tra le più grandi compagnie americane.
Il suo padrone, Travis Kalanick è però diverso dagli altri figli della Silicon Valley. Ha solo 39 anni, ma è uno squalo capitalista vecchio stile, e per di più sessista, violento e con fama di malandrino; eppure, negli ultimi dodici mesi ha fatto quello che Steve Jobs, il carismatico figlio dei fiori e del Sessantotto ci aveva messo una vita a fare: ha sconvolto il mondo e ha creato un impero.
Dunque, mia moglie ed io una sera ce ne andiamo a sentire del jazz (San Francisco ha costruito da poco un delizioso tempio del jazz, che non ha uguali al mondo) e poi a cena a casa di amici che abitano un po’ fuori mano. Per tornare a casa, chiamiamo Uber Pool con l’iPhone. Uber Pool fornisce un taxi condiviso, e quindi con prezzo dimezzato. E sul display compare – subito – una scritta che mi chiede se non ho nulla in contrario a viaggiare con tale Melissa che va dalle mie parti. Ok? Ok. Allora l’iPhone mi dice che verrà a prendermi il signor Jaime (compare la sua foto) con una Toyota Corolla nera, in sei minuti. Compare il suo numero di telefono, e lui ha il mio. Arriva Jaime, che ha già imbarcato Melissa (che si rivelerà una di quelle in Italia chiamiamo «una vera stronza», piena di sé, supponente; ma tant’è). Scende Melissa e Jaime – che viene dal Salvador, studia per diventare infermiere e lavora con Uber quattro ore al giorno – ci porta a casa. Si raccomanda: lei sa che adesso Uber la chiama e le chiede se è stato soddifatto? Sì. «Mi raccomando, se è stato soddisfatto del servizio, mi dia cinque stelle. È importante, 5 stelle, non 4. Se scendiamo sotto le 4,7 ci licenziano». Jaime, ci mancherebbe altro! Tranquillo, 5 stelle.
Arrivo a casa e, naturalmente, sbaglio. Viene fuori che gli ho dato due stelle. Non riesco a correggere. Ho dato due stelle a Jaime, cioè, in sostanza l’ho licenziato! Non riesco a capacitarmene. Scrivo una mail direttamente a Uber. E loro mi rispondono: egregio signor Deaglio, non si preoccupi, abbiamo corretto il suo errore, Jaime ha avuto le sue cinque stelle. Sono sollevato; beh, sembra anche che Uber sia umana.
Prima dell’esplosione di Uber, ancora due anni fa, San Francisco era una città con notevoli problemi di trasporto. Dotata di un buon servizio pubblico, compresa la famosa metropolitana che attraversa la baia e mette in contatto i suoi 800 mila abitanti con la bay area, una megalopoli di sette milioni. L’ultimo boom della Silicon Valley ha portato in città 40 mila nuove persone, di reddito medio alto, che lavorano nelle varie Google, Apple, Genentech, Facebook a cinquanta chilometri di distanza. Come benefit (e anche per farli lavorare durante il viaggio) le grandi società si sono inventate i Google bus, enormi pullman ultramoderni con wi-fi e tutto il resto che spostano (gratis per loro) migliaia di techies, intasando però le strade della città con tale arroganza che gli abitanti hanno reagito con lanci di uova e rasoiate sui pneumatici. I taxi a San Francisco sono come ovunque: vecchi, scassati, non arrivano mai, il centralino non risponde e il lettore della carta è rotto per cui prendono solo cash.
Uber è nata qui, combinando un algoritmo a un’intuizione sociale.
La seconda è la più importante e dice così: 1) ci sono un sacco di persone con un’automobile disposte a lavorare un po’ di ore al giorno per portare in giro clienti. 2) I clienti si fidano di persone che non sono taxisti professionisti. L’algoritmo mette insieme il vecchio Tom Tom, Google Maps, il sistema di pagamento PayPal e una sofisticata analisi del traffico. Ed ecco il risultato: il cliente mette l’app (gratuita) di Uber sul suo smartphone. Si registra con la sua carta di credito. Comunica dove si trova e dove vuole andare. L’app risponde facendogli vedere quante automobili ha in zona, gli comunica il nome e la foto di chi viene a prenderlo, la sua automobile e il prezzo della corsa, e questo è calcolato dall’algoritmo. Se piove, se c’è una partita di football, il prezzo sale parecchio. (Se c’è un attentato, come è successo a Sydney, una corsa Uber costava 700 dollari). Il conducente arriva, porta il cliente a destinazione, saluta e se ne va. Non si tocca denaro, vietate le mance. Un sms chiede di dare un voto al conducente. Punto e fine: per il cliente è una pacchia.
È legale tutto ciò? Sì e no. I 1.800 taxisti di San Francisco hanno protestato, ma hanno perso. In due anni hanno perso il 65 per cento delle loro corse e quindi dei loro guadagni. Uber invece è cresciuta esponenzialmente, arrivando ad avere 40 mila autisti nella bay area e un guadagno medio, per ognuno di loro, di 20-30 dollari l’ora.
A differenza di Google, Apple o Facebook, Uber non è nata in un garage e il suo fondatore non va in giro in jeans e t-shirt, anche se Uber, formalmente, appartiene alla sharing economy, ovvero quella Cosa che non vende, ma condivide. Facebook condivide relazioni sociali (un miliardo di iscritti), AirBnb condivide camere da letto in case private (un milione nella sola America); Uber invece condivide automobili. Il suo capo si chiama Travis Kalanick, 39 anni. Da ragazzo era un genio informatico, poi studente universitario fallito; non è buddista, non è vegetariano, non ha mission da compiere, se non quella di fare soldi. La sua ascesa è stata arrogante. C’era un’altra compagnia di auto a noleggio in città, la Lyft – con la simpatica idea di auto riconoscibili da grandi baffi rosa applicati sul cofano: Uber l’ha massacrata, blandendo e intimidendo i suoi autisti. Ai giornalisti che parlavano male di lui, Kalanick ha fatto pubblicamente sapere di essere in grado di raccogliere dossier su di loro e rovinarli; ha fatto sapere di conoscere, con il monitoraggio delle corse, un bel po’ della vita privata di migliaia di persone, ha praticato le forme più estreme di dumping (per un mese, qualsiasi corsa in città costava appena cinque dollari), ha espresso la sua filosofia con queste parole: «Uber è il massimo, i taxisti sono degli stronzi». Di fronte ad una denuncia di una donna molestata da un autista, ha accusato la vittima. Quando poi ha capito che era andato oltre, ha assunto come capo delle pubbliche relazioni nientemeno che David Plouffe, il campaign manager che ha fatto vincere ad Obama due elezioni presidenziali.
La nuova sede di Uber, nel centro di San Francisco (1.600 impiegati ) non ha gente che arriva in bicicletta e sneakers, quanto piuttosto un via vai di vestiti grigi, cravatte, facce da avvocati, lobbisti, mediatori che vedi discutere in salette con grandi divani di cuoio scuro. La principale attività di Uber oggi è la battaglia mediatico-giudiziaria e questa la si conduce con i professionisti della politica. Città per città. Stato per Stato, Uber ha dovuto contrastare l’opposizione dei taxisti, accusata di essere illegale, abusiva, senza garanzie di assicurazione o sicurezza. Uber in genere vince, e quando non lo fa, aggira leggi e regolamenti. I repubblicani (e quindi i loro sindaci e i loro governatori) la considerano un esempio formidabile di liberismo, soprattutto perché da Uber i sindacati sono banditi; David Plouffe copre l’altro versante. La quantità di denaro che Kalanick immette nelle «pubbliche relazioni» è imponente.
L’aggressività di Uber pare avere funzionato. Nell’ultimo anno i dipendenti e i finanziamenti sono cresciuti in modo esponenziale. Hanno messo soldi in Uber Google, Goldman Sachs, il fondo del Qatar e decine di hedge funds, mentre Kavanick si è premurato di costruire un assetto societario sofisticato che passa dall’Olanda, transita per Bermuda e arriva nel Delaware, che è lo stato più fiscalmente amichevole degli Usa. A colpi di sentenze, gli avvocati di Uber hanno vinto a Chicago, in Oregon, in Florida; in Colorado ci sono state manifestazioni pubbliche al grido di «Vogliamo Uber». Nella vecchia Europa, Kalanick si prepara alla battaglia finale, questa volta con la strategia del sorriso e dell’ecologia. Ai sindaci delle metropoli europee ha promesso di togliere dalle strade auto private e di creare, in ogni città, almeno diecimila posti di lavoro nuovi.
Le tassiste di SheRides il servizio di auto guidate da donne rivolto al pubblico femminile
Questo il quadro, ma non vorrei che fosse sfuggita la cosa più importante. Il signor Kalanick trattiene su ogni corsa il 20 per cento, come commissione. Mica poco, eh!.
Succederà anche in Italia? È possibile, anche se in Italia la corporazione dei taxisti ha una lunga storia di resistenza ad ogni proposta di modernizzazione o di liberalizzazione. I taxisti (ottimi agitprop) sono una grossa forza elettorale ed hanno una notevole capacità di influenzare l’opinione pubblica. Il Pd, per esempio, da tempo sa bene cosa vuol dire averli contro: ministri del governo Prodi vennero addirittura picchiati dai taxisti davanti al Parlamento. La destra invece li ha sempre coccolati e loro li hanno ricambiati votando Bossi, Berlusconi e Alemanno. Oggi minacciano di far fallire l’Expo, se sarà permesso a Uber di operare a Milano. Può darsi che ce la facciano, ma questa volta il loro tempo sembra essere giunto alla fine, scandito da una piccola icona su un telefonino. Prepariamoci: il tassametro, la macchina scassata, la condizione preagonica degli ammortizzatori, il sedile sfondato, le attese al telefono «per non perdere la priorità acquisita», il supplemento bagagli, la lagna contro gli zingari, i delinquenti, gli immigrati, le tasse, lo Stato che il conducente (quando non parla con la morosa al telefonino) propina regolarmente al passeggero, sono destinati a far parte del vasto capitolo delle cose che furono. Insieme alle cabine del telefono, ai facchini, ai negozi di dischi, agli scaricatori del porto, alle cartoline, ai giornali della sera (e speriamo non anche a quelli del mattino), al taxi driver Robert De Niro.
Per diventare un taxista, dovevi comprare una licenza. Tutto qui. Quella licenza era il tuo capitale, la tua pensione e la tua assicurazione sulla vita. In Italia vale sopra i 100 mila euro. A New York un medallion era arrivato a valere un milione di dollari. Per diventare un Uber driver basta avere la patente, possedere un’automobile in buone condizioni e assicurata, avere la fedina penale pulita e non essere un malato di mente. Uber ti paga con bonifico ogni 15 giorni, se scendi sotto le 4,5 stelle di valutazione ti de-attiva. Puoi scegliere quante ore lavorare, benzina e manutenzione te le paghi tu; mutua, pensione e ferie non se ne parla neanche. A San Francisco c’è una convenzione con il Banco di Santander per comprare una macchina nuova, al 21 per cento di interesse, rate trattenute direttamente sul bonifico bancario. Ed ecco chi sono, questi nuovi lavoratori, secondo il primo studio sociologico, commissionato al professor Alan Krueger, già consigliere economico del presidente Obama. Dati piuttosto inusuali: il 37 per cento è laureato, il 10 per cento ha addirittura un dottorato; 14 per cento sono donne; i bianchi sono il 40 per cento, i pensionati un discreto 10 per cento. Il loro guadagno varia da città a città: dai 30 dollari l’ora di New York ai 23 di San Francisco, ai 20 di Los Angeles ed è superiore a quello dei taxisti tradizionali.
Il vaso di Pandora che Uber ha scoperchiato è decisamente pieno di sorprese ed economisti e sociologi sono disorientati. Dal punto di vista economico, per esempio, salta agli occhi un cambiamento sostanziale. Il «mezzo di produzione», per dirla con i marxisti, non è più la proprietà dell’automobile (o la sua licenza), ma è diventata un’immateriale applicazione tecnologica, peraltro facilmente copiabile da chiunque. Culturalmente, il passaggio è ancora più profondo. L’automobile non è più il tuo padrone, né un particolare oggetto del desiderio, né un grande investimento finanziario, né il più grande status Symbol, né un oggetto magico che devi lavare ogni domenica in giardino mentre ascolti i risultati delle partite. È solo un telefonino, un po’ più grande. Come ebbe a dire Travis Kalanick, in una delle sue migliori uscite: «Chiami una Uber limousine e, in un attimo, ti senti un irresistibile magnaccia».
Todo cambia, come si sa. Ma che possa cambiare così tutto all’improvviso, lascia un po’ disorientati. Uber sta per caso dicendoci che è finita la civiltà dell’automobile? Ehi, non scherziamo, non siamo pronti. Meglio rimanere coi piedi per terra. E, dunque, la parola all’accusa: Uber non è altro che il liberismo con venature di fascismo. I suoi drivers sono i nuovi schiavi, il suo monopolio porterà a un aumento dei prezzi, i suoi metodi sono gangsteristici; il taxi sarà scassato ed egoista, ma è pur sempre «servizio pubblico». Non si può assistere passivamente a questa ennesima cavalcata del precariato, del cannibalismo consumato sull’altare del liberismo. Già. Ma cosa possiamo fare contro Uber?
Una sola cosa: eliminare l’icona Uber dal nostro telefonino, per non essere indotti in tentazione. Ma, la cosa non sta avvenendo. Anzi, avere l’app Uber sul telefonino è Zeitgeist (spirito del tempo).
Però anche il signor Kalanick è meglio che non si monti troppo la testa. Così come è cresciuto, potrebbe precipitare. Sintomi: a
Los Angeles gli Uber drivers hanno inziato forme, per ora simboliche, di protesta. Chiedono che, così come il voto al guidatore, anche la mancia sia un’opzione per il cliente. (Occhio, Kalanick: per scioperare basta spegnare il telefonino...). E occhio alla concorrenza. Proprio a San Francisco, si stanno moltiplicando forme nuove di «uberizzazione» degli spostamenti. Due diverse compagnie di sole donne (SheRides e Shuddle) sono specializzate nell’andare a prendere i bambini a scuola e portarli alle attività extrascolastiche; un’altra offre autisti personalizzati per andare a fare la spesa, un’altra oiganizza il ritorno a casa degli studenti ubriachi dopo le feste di laurea, un condominio vende appartamenti senza box, ma con cento corse gratis all’anno. Uber stessa si differenzia offrendo car pooling di ogni genere, trasporto di cani e gatti, e gli stessi taxisti (gli ultimi rimasti) si sono finalmente decisi ad accettare il mondo digitale. Google prepara l’auto senza conducente, Amazon la consegna di pacchetti con drone, Enterprise affitta automobili a 80 dollari al giorno, te le consegna e viene a riprenderle. È il mondo nuovo.
Voi direte: sì, d’accordo, ma i vecchietti che devono andare all’ospedale? E quelli che non hanno la carta di credito? E quelli che non hanno il telefonino? E la risposta è: se a queste cose non ci pensa il sindaco, che cosa lo abbiamo eletto a fare?
Enrico Deaglio