Silvio Piersanti, il Venerdì 13/3/2015, 13 marzo 2015
HOTEL ROBOT
TOKYO. Il tuo passaporto lo lasci nelle mani premurose di un robot che ti assegna la camera parlando la tua lingua da qualsiasi parte del mondo tu venga. Un altro robot si incarica del tuo bagaglio che trovi già nella tua camera quando vi giungi uscendo da un ascensore azionato da un robot. Non hai bisogno di chiave perché il robot al tuo servizio riconosce i tuoi lineamenti ed apre per te la porta. È un efficiente robot che ti augura il buongiorno servendoti, con la classe di un esperto maggiordomo, una ricca prima colazione. È dalle mani di un robot che ricevi il conto al termine del soggiorno. E tutti i robot che si sono occupati di te li trovi schierati a salutarti con un perfettamente sincronizzato inchino di ringraziamento e di buon augurio al momento della tua partenza. Naturalmente, niente mance. Un androide non saprebbe che farsene dei tuoi soldi. Sei nel futuro. O, più precisamente, ci sarai se prenoterai una camera ai Huis Ten Bosch (Casa nel verde), un albergo circondato da un parco a tema nel comune di Sasemo, vicino a Nagasaki, che a partire dal 17 luglio inaugurerà una gestione affidata al 90 per cento a robot. Un’iniziativa senza precedenti nella storia dell’umanità.
Quando arriverai ti stropiccerai gli occhi più volte: ti aspettavi un ambiente da stazione spaziale ed eccoti invece in una perfetta replica della fastosa residenza di campagna della famiglia reale olandese. A darti il benvenuto non sono però guardie reali nei loro storici costumi, ma androidi dalle stupefacenti capacità umane che sembrano usciti dalla penna profetica di Isaac Asimov.
Costerà un occhio della testa, ti dirai. Niente affatto: appena 100 euro a notte. Ma devi prenotare per tempo perché – con una prassi unica al mondo – nell’alta stagione (mesi estivi, vacanze invernali e pasquali) le camere ancora libere vengono messe all’asta ed assegnate ai migliori offerenti entro un determinato limite di tempo. Quindi può succedere che tu paghi cento euro lo stesso trattamento che a qualcun altro, meno sollecito, costa 10 volte tanto.
Non sorprende che il primo albergo operato da androidi sia nato in Giappone. È in questo Paese che si sta sviluppando l’industria robotica che permetterà nei prossimi pochi anni di ridurre del 25 per cento il costo del lavoro. Nazione di vecchi, molto riluttante ad aprire le frontiere a mano d’opera straniera, il pragmatico Giappone ha deciso di prodursi gli operai di cui avrà sempre più bisogno per far fronte autarchicamente alla cronica deficienza di forza-lavoro. Un androide sgobba 24 ore al giorno, 365 giorni l’anno e nel suo pur relativamente vasto vocabolario non esistono parole come stipendio, straordinario, vacanze, aumento, sciopero, sindacato. Né malattie, funerali della suocera, incidenti stradali ed altre ragioni per giustificare assenze. I robot hanno aspettativa di vita praticamente infinita. Vengono distrutti o riciclati solo quando la tecnologia permette la costruzione di modelli più evoluti.
Robot-infermieri sono già in funzione in diversi ospedali giapponesi con pieno gradimento sia dello staff medico che dei pazienti (recenti sondaggi hanno rivelato che l’80 per cento dei pazienti ospedalizzati trova soddisfacente l’assistenza fornita dai robot).
La Softbank Corp. è stata sommersa da ordini di acquisto del suo ultimo prodotto: Pepper, lanciato come il «primo robot del mondo con emozioni». Un robot umanoide alto 121 centimetri che grazie ad un emotion engine è in grado di «capire emozioni umane leggendo le espressioni facciali, interpretando il tono della voce e traducendo il linguaggio del corpo». Nei test che hanno preceduto la produzione è risultato particolarmente utile nell’assistenza ad anziani sofferenti di demenza senile. La Softbank aveva programmato una prima produzione di 300 esemplari, ma le richieste, anche grazie al
prezzo molto contenuto (198mila yen, circa 1.500 euro), sono giunte a valanga e la ditta ha deciso di ritardare la messa sul mercato sino a giugno per essere pronta con una produzione adeguata alle aspettative di mercato. Pepper può essere connesso ad Internet, pagando un abbonamento mensile pari a circa 12 euro per avere diritto ad una serie di servizi per esso predisposti.
Amazon ha assunto diecimila nuovi magazzinieri, ma non sono esseri umani. Sono robot. In Cina, la Foxconn, colosso dei gadget elettronici, ne ha assunti 12 mila. E si appresta, in collaborazione con Google, ad impiegarne un milione. L’invasione delle macchine pensanti sembra davvero inarrestabile
Il termine robot viene da robota, lavorare, in lingua ceca. Erano chiamati robotnik i servi addetti ai lavori più pesanti. Il primo ad usare la parola robot in un’opera letteraria fu lo scrittore ceco Karel Capec nel suo romanzo fantascientifico RUR, Rosumovi Univerzální Roboti (I lavoratori tuttofare di Rossum), pubblicato con grande successo nel 1920.
Ma un robot non è solo un lavoratore: può anche essere un divertente compagno di giochi. Alla Fiera dell’Elettronica Giapponese Ceatec (Combined Exhibition of Advanced Technologies) appena conclusa, ha avuto enorme successo una sorta di dinosauro tripede, imbattibile giocatore di ping-pong, in grado di misurare il livello tecnico dell’avversario umano e di perdere di proposito qualche punto per non scoraggiarlo. La Toshiba Corp. ha realizzato un’androide dai lineamenti affascinanti, che gesticola con grazia e parla seducentemente, esibendo un corpo sinuoso ricoperto di pelle simil umana. Si chiama Aiko Chihira e se appena ci si distrae un po’ è facile prenderla per un essere umano. Sarà tra breve l’infermiera perfetta. E una sua versione ancora più evoluta sarà l’affascinante stewardess poliglotta che accoglierà i milioni di turisti attesi nel 2020 a Tokyo per le Olimpiadi.
Alla Settimana del Robot Giapponese, la star è stata il Robot Barista (sic, in italiano). Un androide alto 170 centimetri, con regolamentare grembiule, in grado di servire un espresso con la massima efficienza e cortesia. Il visitatore usa un telecomando per cliccare sul tipo di miscela desiderata, specificando aroma, quantità di zucchero, eventuale macchia di latte. Da quel momento entra in azione lui, l’androide Nextage: usando le uniche due dita della mano prende la capsula selezionata e la infila nella macchina espresso. Poi prende un vassoio, vi dispone un cucchiaino, una zuccheriera ed un bricchetto con il latte. Quando l’espresso è pronto, prende la tazza ed il relativo piattino e li depone sul vassoio che spinge con grazia verso il visitatore. Il giorno in cui dietro al bancone del nostro bar preferito non troveremo più un essere umano ma un androide non è poi così lontano. Speriamo che almeno lo programmino in modo che il cliente possa parlare male del governo o della propria squadra che ha perso il derby per un rigore sacrosanto non concesso e ricevere dal robot, assieme a cappuccino e cornetto, risposte consolatorie.
La corsa verso un mondo di robot può sfiorare il grottesco. Kagome, una grande azienda giapponese produttrice di succhi di vegetali, ha realizzato un androide indossabile che serve a rifocillare un atleta in gara in una maratona, senza che perda la concentrazione usando le mani per portare il cibo alla bocca. Si chiama Tomatan (Pomodorino). È di taglia piccola e pesa da 3 a 5 kg, a seconda del modello. La sua funzione è di prendere in un contenitore che ha alle spalle dei piccoli pomodori e metterli ad intervalli prestabiliti nella bocca dell’atleta. Lo useranno anche i tennisti per farsi dare bocconi di banana senza dover sporcarsi le mani per sbucciarla?
Parallelamente allo sviluppo tecnologico del popolo degli androidi è ormai inevitabile un approfondimento dell’etica della robotica e dell’intelligenza artificiale che permette loro di convivere armoniosamente con noi umani. Ma grandi profeti della tecnologia come Steven Hawkings, Bill Gates e Elon Musk hanno lanciato un appello condiviso da centinaia di scienziati , di tutto il mondo sul pericolo non immediato, ma concreto, che l’intelligenza artificiale un giorno sfugga al controllo degli uomini e li cancelli dalla faccia della terra. Ipotesi terrificante che vedrebbe il non più nostro pianeta popolato e gestito soltanto da robot e macchine pensanti. Eventualità profetizzata da romanzi e film come nel capolavoro di Kubrik Odissea nello spazio in cui il computer Hal non esita ad uccidere tutto l’equipaggio della stazione spaziale per assicurare il compimento della missione assegnata.
I robot sono l’icona del futuro, ma le loro radici affondano nell’antichità: Omero ci racconta del deforme Efesto, forgiatore di armi per gli dei dell’Olimpo, costruttore di automi antropomorfi che lo aiutavano nella sua ribollente fucina nelle profondità dell’Etna, dove diede forma alla bella e curiosa Pandora, prima donna dell’umanità, andata in sposa a Epimeteo dopo essere stata rifiutata dal fratello di questi, Prometeo. Discenderemmo quindi tutti, secondo questi racconti mitologici, da una donna-robot. Un robot semi-umano e quindi imperfetto, che non seppe resistere alla tentazione di sollevare il coperchio del vaso donatole da Giove con l’ingiunzione di mai aprirlo, facendo uscire, inarrestabili, tutti i mali fino ad allora sconosciuti all’umanità: malattia, vecchiaia, morte, invidia, gelosia ecc ecc. Li conosciamo fin troppo bene tutti per aver bisogno di snocciolarne i nomi. Solo uno spirito buono, probabilmente proprio perché buono, rimase incastrato sotto il coperchio: era Elpìs, la Speranza. E la sgomenta Pandora fece giusto in tempo a rinchiuderlo nel vaso.
Questo salvataggio estremo, ci permette di sperare che un giorno lontano, sciami di robot ad altissima, oggi inimmaginabile, tecnologia saranno inviati dagli uomini nei meandri labirintici della iperstoria con la missione di ricatturare uno per uno tutti i peccati involatisi dal vaso di Pandora e a rinserrarvili ermeticamente, concedendo così all’umanità la sua prima stagione di piena felicità.