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 2015  marzo 13 Venerdì calendario

IL MODELLO gestionale della Rai senza dubbio va cambiato. Un’azienda di quelle dimensioni non può essere amministrata con procedure e capacità decisionali arcaiche

IL MODELLO gestionale della Rai senza dubbio va cambiato. Un’azienda di quelle dimensioni non può essere amministrata con procedure e capacità decisionali arcaiche. INCAPACI di rispondere alle esigenze di velocità e concretezza che questo tempo impone. Ma nella bozza di riforma della Tv pubblica discussa ieri dal consiglio dei ministri manca qualcosa. Si tratta di un punto fondamentale. Non si può cambiare la televisione di Stato se non si corregge l’assetto che l’attuale, orribile legge ha assegnato al sistema radiotelevisivo nel suo complesso. Le norme studiate su misura dall’allora ministro Gasparri, infatti, hanno cucito il vestito della televisione italiana sulle misure di Silvio Berlusconi. In questi anni si è assistito a un sostanziale duopolio dell’etere, peraltro pesantemente sbilanciato a favore delle reti Mediaset. Basti pensare all’andamento della raccolta pubblicitaria. Quasi il 50 per cento del mercato pubblicitario è occupato dalle tv. E di questa quota oltre il 60 per cento è in mano alle emittenti del Cavaliere. La Rai è bloccata da un tetto che ne limita il reperimento delle risorse. Tutto questo nonostante i dati dell’audience indichino al contrario una prevalenza negli ascolti dei canali di Viale Mazzini (37% di share) su quelli di Cologno monzese (32%). Una situazione del tutto eccezionale rispetto al panorama europeo. Dove esiste un equilibrio maggiore tra carta stampata e tv. E soprattutto non è mai concessa una posizione dominante di un solo soggetto nella raccolta pubblicitaria. In questo quadro, se non modificato e corretto, diventa balzana anche l’idea di abolire tout court il canone. Significherebbe sottrarre altre risorse e dimenticare che la tassa sulla tv pubblica è la più bassa in Europa: si passa da un massimo di 377 euro l’anno in Svizzera a un minimo 131 in Francia. In Italia se ne pagano 114. Non è allora più accettabile che una normativa costruita ad hoc negli anni dei governi Berlusconi non venga rivista nella sua sostanza più profonda. Mettendo mano a uno stantio duopolio e a una legge che non tiene nemmeno conto di quanto il settore radio-televisivo sia cambiato con le nuove tecnologie. Il mercato non può insomma riguardare tutti i settori tranne quello dell’etere. La concorrenza, vera, deve essere il principio informatore anche in questo universo che è stato accompagnato da clausole di garanzia “statali” in favore di un soggetto privato. In quest’ottica non è accettabile che il servizio pubblico non venga messo in condizione di guardare al suo o a suoi concorrenti con mezzi adeguati. È evidente che la missione di una tv detenuta dallo Stato è diversa dalle reti commerciali. Il senso ne rende diversi gli obiettivi. La partecipazione ad esempio della prima Rai al processo di alfabetizzazione del Paese è stato fondamentale. Ma ora attenzione a non confondere una programmazione di qualità con la rinuncia a fare della buona e godibile televisione. O a diventare una rete di nicchia, invisibile ai più. Per renderla competitiva, certo, alla Rai serve anche una governance efficiente. Con la politica fuori dalla gestione. Parificarla alle spa che agiscono secondo le regole del codice civile. Con un capo azienda che sceglie e poi si assume la responsabilità delle sue decisioni. Ma anche in questo caso tutti devono fare attenzione a non concentrare i poteri di nomina nella tv pubblica al governo. Lo schema fatto circolare in questi giorni, infatti, questo lo rischia lo presenta. Se l’esecutivo nomina tre dei setti componenti il cda e gli altri tre li nomina il Parlamento la cui maggioranza è quella che sostiene il governo, è evidente che si potrebbe determinare un marcato sbilanciamento. I partiti non devono più entrare a Viale Mazzini, ma non può essere il solo esecutivo ad avere il diritto di accesso.