Francesco Sisci, Limes: Moneta e impero 2/2015, 12 marzo 2015
PECHINO NON È PRONTA A INSIDIARE IL DOLLARO
1. I DISCORSI SUL NUOVO ORDINE FINANZIARIO mondiale quasi necessariamente partono da una premessa che serve a chiarire il terreno: il renmimbi non è oggi né sarà nel prossimo futuro una sfida seria alla centralità del dollaro nel sistema monetario mondiale. Perché la moneta cinese diventi un’alternativa al dollaro, Pechino dovrebbe essere disposta a metterne in circolazione una grande quantità, e ciò potrebbe avvenire solo accettando di avere per molti anni un deficit commerciale con l’estero, dunque un indebitamento netto con il resto del mondo simile a quello che ha oggi l’America.
Ma ciò sarebbe possibile solo avendo a disposizione un sistema finanziario e politico molto sofisticato, in grado di gestire una situazione complessa e rischiosa: perché un debito netto con l’estero significa anche essere sottoposti al potenziale ricatto dei creditori e comunque soggetti a crisi finanziarie difficilmente controllabili, come quella che ha travolto gli Usa nel 2008. La Cina, con un sistema finanziario ancora abbastanza primitivo, soffocato dai debiti dei governi locali che hanno costruito infrastrutture e abitazioni a rotta di collo e dove le banche, per sopravvivere, applicano spread (differenze di rendimento) tra prestiti e depositi del 5% e oltre, è terrorizzata dall’idea di diventare un debitore netto.
La crisi finanziaria del 1997-98 e quella del 2008 hanno mostrato a Pechino l’immensa potenza distruttiva della finanza. Nel 1997 i sistemi politici asiatici centrati su governi forti imperniati sui militari – dalla Thailandia alle Filippine, passando per l’Indonesia – sono crollati dopo una brutale svalutazione delle monete locali, cui hanno fatto seguito crisi sociali e istituzionali. Anche governi più solidi, come quelli coreano e giapponese, sono stati travolti. Essere esposti a crisi di queste dimensioni significa mettere a rischio la centralità del Partito comunista, cosa che Pechino è ben lungi oggi dal volere.
La Cina non può però neanche restare spettatrice passiva di un ordine economico mondiale in rapido cambiamento. Negli anni Novanta il crollo dell’impero sovietico ha fatto sì che un intero pezzo di mondo, prima escluso dall’economia capitalistica, entrasse a far parte del sistema commerciale e produttivo mondiale dominato dagli Stati Uniti. La globalizzazione, nuovo complesso fenomeno di produzione e distribuzione su scala mondiale, pareva dovesse portare molta acqua al mulino americano. La crisi finanziaria europea del 1992, che fece a pezzi il serpente monetario, e quella asiatica del 1997 parevano sottolineare la centralità del dollaro e dell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto), che doveva fornire l’infrastruttura legale per il nuovo ordine economico globale. L’ingresso della Cina nella Wto alla fine degli anni Novanta sembrava il coronamento di questo successo.
In realtà, nel decennio successivo le cose sono andate diversamente. Da un lato la Cina ha beneficiato più del previsto della Wto; dall’altro, gli Usa sono stati investiti da una doppia crisi. All’esterno, le guerre in Afghanistan e in Iraq non hanno portato i ritorni strategici ed economici previsti, hanno dilapidato centinaia di miliardi del bilancio federale e aumentato il numero dei nemici di Washington. La speranza che Medio Oriente e Asia centrale venissero integrati nel sistema americano e che gli Stati Uniti riuscissero a controllare il prezzo del petrolio sono andate in gran parte frustrate. All’interno, l’esplosione della bolla immobiliare ha polverizzato il sogno di un progresso continuo per la classe media, incrinando pericolosamente un pilastro centrale del patto sociale americano.
La presidenza Obama non ha invertito la rotta. Il sostegno alle «primavere arabe» ha aumentato la confusione in Medio Oriente, mentre il nuovo sistema sanitario nazionale, presentato come una rivoluzione per i milioni di indigenti e di working poor prodotti dalla crisi, sinora non ha dato i risultati auspicati.
2. La Cina intanto, negli ultimi 15 anni ha quadruplicato il suo prodotto interno lordo, aumentando ancor più il suo contributo al commercio mondiale. In tal modo è diventata un creditore ancor più grande dell’America. I legami finanziari e commerciali tra Usa e Cina sono ormai talmente profondi che una loro repentina rottura avrebbe effetti devastanti a livello bilaterale e mondiale.
Tuttavia la Cina non obbedisce a Washington: quattordici anni di fallimenti della politica estera americana in Medio Oriente e Asia centrale, oltre alla diminuzione relativa del peso commerciale e finanziario degli Stati Uniti rispetto a Pechino, stanno da tempo spostando il baricentro economico mondiale a favore di quest’ultima. Li presenza politica americana nel mondo deve fare i conti con il fatto che oggi la Cina ha soldi da investire all’estero e offre ai produttori di tutti i paesi la possibilità di entrare in uno dei mercati potenzialmente più ampi e a maggior tasso di crescita del mondo. Pechino si candida ad essere un volano per la crescita dell’Asia: la sua economia si irradia per tutto il continente, che ospita il 60% della popolazione del pianeta. Negli ultimi due anni questa forza di sviluppo ha cominciato a darsi delle strutture finanziarie più efficienti. C’è la Banca dei Bric (Brasile, Russia, India e Cina) c’è la nuova Asian Infrastructure Investment Bank, c’è l’impegno a costruire un fondo d’investimento da 40 miliardi di dollari per la via della seta.
Oltre ai progetti multilaterali vi sono poi gli impegni bilaterali, come il recente accordo per la costruzione di una linea ferroviaria veloce da Pechino a Berlino via Mosca, per 242 miliardi di dollari. Questi investimenti hanno una forza d’urto con cui nessun altro paese oggi può competere: sia diretta (per il volume degli investimenti in gioco) sia indiretta (grazie ai potenziali effetti moltiplicatori). Ciò non scalza il primato del dollaro, ma lo ridimensiona oggettivamente. Se il renminbi non può assurgere a moneta di riserva e scambio internazionale, esso diventa comunque moneta di conto. Oggi la divisa cinese è agganciata al dollaro con una banda di oscillazione del 3%, e anche una semplice espansione del suo uso trascina le sorti del dollaro, sostenendolo nei fatti. In futuro questo assetto potrebbe mutare: le due monete potrebbero essere sganciate ovvero essere ulteriormente legate, riducendo o eliminando la banda di oscillazione. Entrambe le opzioni avrebbero impatti potenzialmente enormi sul sistema economico mondiale.
Ma la partita non è solo a due. Il sistema economico mondiale pare aprirsi a cambiamenti senza precedenti. L’impatto di bitcoin, la nuova moneta dell’economia virtuale, oggi è minimo ma domani potrebbe aumentare e la Cina, con il mercato Internet potenzialmente piu grande del mondo, può giocare un ruolo centrale. Si tratta di un ambito inedito sinora sfuggito alla regolamentazione delle banche centrali.
Allo stesso tempo, rischia di prosciugarsi la grande riserva di petrodollari mediorientali. Il boom degli idrocarburi non convenzionati (shale gas/oil) riduce la dipendenza americana dal Medio Oriente e le entrate di quei paesi, le cui riserve di dollari sono ingenti ma non infinite. Al contempo, i progressi delle tecnologie verdi, a cominciare dalle batterie che promettono una più efficiente conservazione dell’energia per ogni genere di uso, aprono le porte a rivoluzioni tecnologiche e industriali potenzialmente in grado di cambiare faccia al pianeta.
Ancora, la crescita delle economie asiatiche, dall’India all’Indonesia, lascia intravedere l’emergere di nuove monete che forse vorranno legarsi in futuro allo yen giapponese, per compensare lo strapotere regionale di renminbi e dollaro. In questo senso è interessante che nel 2014 l’India abbia ricevuto dal Giappone investimenti per circa 30 miliardi di dollari, contro i meno di 20 dalla Cina, sebbene l’economia giapponese sia molto più piccola di quella cinese.
Queste dinamiche trascendono l’ascesa della Cina, ma insieme ad essa sottolineano come l’ordine finanziario mondiale incentrato sul dollaro e sulle istituzioni di Bretton Woods sia in buona parte anacronistico. Ciò ha un’enorme importanza per il dollaro, ma ne ha ancora di più per l’euro, moneta senza una capitale e senza una direzione politica, alla mercé delle fluttuazioni geopolitiche ed economiche mondiali. Ammesso che l’eurocrisi trovi infine uno sbocco positivo, come reagirà la moneta unica ai sussulti del nuovo ordine economico mondiale, soggetto alla doppia spinta dell’ascesa cinese e delle nuove rivoluzioni tecnologiche?
La tara europea rappresenta un rischio politico e strategico per tutti. Gli Stati Uniti dovrebbero farne una priorità, non meno del «contenimento» della Cina.