Notizie tratte da: Ugo Fabietti # Materia sacra. Corpi, oggetti, immagini, feticci nella pratica religiosa # Raffaello Cortina 2015 # pp. 306, 25 euro., 11 marzo 2015
Notizie tratte da: Ugo Fabietti, Materia sacra. Corpi, oggetti, immagini, feticci nella pratica religiosa, Raffaello Cortina 2015, pp
Notizie tratte da: Ugo Fabietti, Materia sacra. Corpi, oggetti, immagini, feticci nella pratica religiosa, Raffaello Cortina 2015, pp. 306, 25 euro.
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Religio Cicerone facevano risalire il termine religio al verbo lègere (che rimanda all’idea di “riunire”), tra i primi autori cristiani, come Lattanzio e Tertulliano, prevaleva invece l’idea che religio derivasse da ligàre, “legare”.
Churinga L’aborigeno australiano durante l’iniziazione prende visione per la prima volta dei churinga, sino a quel momento tenuti nascosti alla sua vista dagli anziani. I churinga sono assicelle di legno o di pietra incise o dipinte, che riportano in maniera stilizzata il percorso degli antenati sul territorio del gruppo ai tempi della creazione del mondo. I segni “gli indicano” (in maniera stilizzata, ma a lui riconoscibile in quanto è stato istruito su come interpretarli) gli alberi del territorio, le sorgenti, i fiumi e le vie percorse dagli antenati che, cantando, hanno creato il mondo.
Papua Nuova Guinea In Papua Nuova Guinea nel corso dei rituali di iniziazione gli individui sperimentano una separazione più o meno prolungata (che può andare da qualche giorno a dei mesi interi) dal resto della comunità. Durante questo periodo gli iniziandi, sia maschi sia femmine, accedono ai “segreti” (verità) della loro religione. L’iniziazione ha spesso il carattere di evento traumatico che può consistere in un rapimento e nell’uccisione simbolica degli iniziandi, come tra gli orokaiva, oppure nel praticare degli interventi più o meno dolorosi sul corpo, come tra gli awa e gli arapesh o, ancora, nell’imposizione di rapporti di carattere omosessuale.
Ngaing 1 Tra gli ngaing (Nuova Guinea nord-orientale) il sangue materno, che rimane nel corpo del neonato dopo la resezione del cordone ombelicale, è considerato impuro e deve pertanto essere espulso. La circoncisione è il momento in cui ciò avviene. È soltanto allora che il giovane diverrà un “vero uomo” e che, come loro stessi dicono, “la sua pelle brillerà”.
Ngaing 2 Con il sangue impuro, “materno”, viene però fatto sgorgare dal corpo anche il sangue “puro”, che è raccolto in speciali contenitori e consegnato all’iniziato affinché gli assicuri forza e salute per il futuro. Dopo circa un mese, durante il quale gli iniziandi sono messi al corrente dei “misteri” della loro religione (miti, riti, contatto con oggetti sacri ecc.), l’iniziazione culmina nella visione dei “rombi”, tavolette di legno che, fatte roteare nell’aria attaccate a una corda, producono un suono cupo, un rombo appunto, che è considerato la riproduzione della voce degli antenati che vegliano sui loro discendenti. Alla fine, con i loro contenitori di sangue puro, strumenti musicali e altri oggetti rituali, gli iniziati sono ripresentati alla gente del villaggio e ai parenti come “uomini fatti”.
Ngaing 3 Gli ngaing, come molte altre popolazioni papua, sono convinti che i missionari – e i bianchi più in generale – non vogliano rivelare loro le verità più profonde della loro cultura (quelle che li fanno essere così ricchi e potenti), ma solo alcuni elementi secondari di essa. Questa loro opinione in merito al “segreto” detenuto dai bianchi è la stessa che, dalla fine dell’Ottocento alla metà del XX secolo, ha alimentato i cosiddetti “culti del cargo”, nei quali gli antenati erano evocati e pregati di far giungere un bastimento o un aereo (il cargo) carichi di tutti quei beni di cui disponevano i bianchi e che questi ultimi ottenevano in maniera misteriosa. In questi rituali (frammisti a potenti istanze millenariste) era spesso riprodotta la sagoma di una nave o di un aereo, e venivano accesi dei fuochi-segnale per “attirare” navi o aerei inviati dagli antenati.
Songhay L’antropologo Paul Stoller, presso i songhay (Nigeria), fu iniziato alla stregoneria. Una volta iniziato, fu colpito da una paralisi perché attaccato da alcuni stregoni, e fu grazie all’aiuto di un altro stregone che riuscì a difendersi e a riprendersi. L’antropologo descrive così un episodio della vicenda in cui si è trovato coinvolto: «Attraverso il mio corpo avevo scoperto un mondo terrificante. Negli anni seguenti Adamu Jenitongo mi diede anelli, braccialetti e cinture che avevano ‘bevuto’ il sangue potente di animali sacrificali. Questi oggetti di potere, come il corpo dello stregone, devono essere nutriti di cibo e bevande. Egli mi disse di portare questi anelli nel dito medio della mia mano sinistra, i braccialetti al polso di sinistra e le cinture attorno alla vita. Egli disse che questa ‘medicina’ avrebbe funzionato solo, e solo se, avesse ‘toccato’ il mio corpo, completando, di fatto, la ricetta incorporata del potere».
Violenza e sangue 1 La violenza e il sangue sembrano ritornare senza sosta nella religione sotto forma di elementi fondanti la religione medesima: come nell’hinduismo, con l’autosacrificio del dio Parusa, dal cui corpo smembrato nasce il mondo, ma anche nel cristianesimo, con la morte violenta di Cristo, premessa di ogni possibile salvezza per gli esseri umani dal peccato e dalla dannazione eterna.
Violenza e sangue 2 Sangue e violenza sono ricorrenti tanto nei rituali dei popoli politeisti, antichi e moderni, quanto nei riti che riattualizzano ritualmente un patto tra l’uomo e il dio delle religioni monoteiste. Nel primo caso rientrano gli aborigeni australiani che, come molti popoli della Nuova Guinea, praticano sul corpo degli
iniziandi vari tipi di interventi aventi tutti lo scopo di “versare del sangue”, come del resto fanno molti altri popoli dell’Africa subsahariana, del Madagascar e del continente americano; nel secondo caso, riguardante le religioni monoteiste, i musulmani sgozzano il montone per la festa della ‘Id al Kabir, “consacrano” i nuovi membri maschi della ‘umma (comunità islamica) con la
circoncisione, come fanno del resto anche gli ebrei che, tuttavia, non praticano più sacrifici animali dalla seconda distruzione del
tempio di Gerusalemme (70 d.C.). Perfino il cristianesimo, che
con san Paolo rifiuta la circoncisione della tradizione ebraica trasformandola in un atto simbolico del cuore, e per il quale la morte violenta di Gesù è “l’ultimo sacrificio”, continua a celebrare il sangue dei martiri e ogni giorno, nel sacramento dell’eucarestia
e nell’immagine della croce, rammemora ai fedeli l’atto violento che è alla base della loro stessa fede. Come scrive Burkert, insomma, “nel cuore della religione incombe, affascinante, la violenza sanguinaria”.
Nutrirsi di sangue Come racconta la biologa Barbara Ehrenreich, molte sono le religioni in cui le divinità “si nutrono” del sangue delle vittime, siano esse parte di un universo politeista oppure no. Che siano divinità azteche “assetate di sangue” umano, feticci africani cosparsi e “nutriti” del sangue di polli, o divinità semitiche “a cui piace l’odore della carne” o la vista del sangue (“loro riservato”) dell’animale sgozzato, e che questo sangue sia versato sotto forma di sacrificio animale o umano, o come esito di un martirio, il fondo delle cose non cambia: la divinità è la traslazione, a livello metafisico-sacrale, di una belva primordiale a cui bisogna sacrificare qualcosa o qualcuno affinché la sua attenzione, come avviene nel branco animale sopraffatto dal predatore, si concentri su una vittima e la moltitudine possa, di conseguenza, salvarsi.
Sacrifici di sangue La biologa Barbara Ehrenreich riferisce casi di popolazioni che, terrorizzate dall’alto numero di vittime procurate dai predatori, praticavano sacrifici umani fino a tempi recenti, e comunque sempre sacrifici di sangue, “per placare” le belve. Anche l’iniziazione appare frequentemente improntata,
sul piano simbolico, a un atto di “voracità sanguinaria”, dove gli iniziandi sono ingoiati da un animale o da un essere, reale o fantastico che sia, e risputati per condurre una nuova vita; oppure fatti simbolicamente a pezzi per essere “divorati” da belve e da demoni metafisici per poi rinascere sotto un’altra forma (sociale).
Rituali In un lavoro dedicato ai rituali di iniziazione, lo storico delle religioni Mircea Eliade offre una panoramica assai significativa del modo in cui, presso molti popoli, il passaggio dei giovani dalla pubertà all’età adulta viene socialmente sancito. In alcune di queste società (Australia) gli iniziandi erano “uccisi” da un essere sovraumano; in altre erano/sono i “Maestri dell’iniziazione” a travestirsi da animali carnivori. Infatti, commenta Eliade: «Si è colpiti soprattutto dal carattere terrificante di questi Maestri di iniziazione […]. Gli Esseri divini che intervengono nelle cerimonie d’iniziazione vengono […] per lo più immaginati sotto forma di bestie feroci: leoni e leopardi, animali iniziatici per eccellenza, in Africa; giaguari in America del Sud, coccodrilli e mostri marini in Oceania. Nelle cerimonie iniziatiche africane la circoncisione equivale alla morte, e gli operatori sono vestiti di pelli di leone e di leopardo; essi incarnano le Divinità di forma animale che hanno compiuto per la prima volta nei Tempi mitici l’assassinio iniziatico. Gli operatori sono provvisti di artigli di fiere e i loro coltelli sono muniti di uncini. Essi prendono di mira gli organi genitali dei novizi, mostrando così l’intenzione di ucciderli. La circoncisione simbolizza la distruzione degli organi genitali da parte dell’animale Maestro d’iniziazione. A volte gli operatori sono chiamati “leoni” e la circoncisione si esprime con il verbo “uccidere”».
Mordere Gli orokaiva della Nuova Guinea celebravano sino a non molti anni fa rituali iniziatici in cui gli adulti, travestiti da spiriti della foresta, inseguivano i bambini da iniziare al grido di Kambo! Kambo! Kambo! («Mordere! Mordere! Mordere!»).
Espiazione I chuchki dell’estremità orientale della Siberia, nel caso che uno dei loro abbia ucciso un individuo, sopprimono un membro della loro stessa famiglia, e in tal modo offrono una vittima ai loro avversari potenziali, invitandoli così a non vendicarsi, a non commettere un atto che costituirebbe un
nuovo affronto e che sarebbe poi di nuovo indispensabile vendicare. Questo elemento di espiazione somiglia in qualche modo al sacrificio e viene rafforzato dalla scelta della vittima, dal fatto che la vittima sia diversa dal colpevole. I chuchki sanno benissimo chi è il colpevole, ma è proprio questa loro consapevolezza che li porta a colpire un non colpevole, in quanto ritengono, in questo modo, di sviare la violenza dal sistema della vendetta. Tale sistema vorrebbe invece che gli offesi si rifacessero sul colpevole con la conseguenza di richiamare, ancora una volta, una controvendetta, e così via all’infinito. La soppressione di un proprio familiare è un modo studiato per sviare la violenza dalla sua continua ripetizione (la faida). Uccidendo un proprio familiare, che non è mai il colpevole della prima azione violenta, si evita l’estendersi del processo di ritorsione.
Huaulu 1 Gli huaulu, popolazione di orticoltori dell’isola di Ceram, si cibano solo della carne di animali non domestici. Essi considerano “tabu” allevare animali a scopo alimentare. La carne di cui ci si ciba deve essere sempre selvatica, al contrario di quanto accadeva presso gli israeliti e gli antichi greci che imponevano il consumo di carni di animali addomesticati. Gli animali possono inoltre essere mangiati, dicono gli huaulu, solo se c’è stata una “lotta”. Gli animali cacciati sono di grossa taglia: il porco selvatico, l’antilope e il casuario (un uccello incapace di volare, del peso di circa sessanta chilogrammi, con un becco potente, unghie estremamente taglienti e che può raggiungere anche i due metri di altezza). Tutti gli animali cacciati dagli huaulu, ma specialmente i tre sopra menzionati, possiedono qualcosa di definibile come “sacro”. L’offerta della testa dell’animale consente di “placare” i “signori della foresta” restituendo loro una parte della preda. Gli huaulu temono, infatti, la ritorsione di questi spiriti protettori degli animali, e quindi restituiscono una parte di ciò che è stato tolto al loro “regno”.
Huaulu 2 Tra gli huaulu colui che ha ucciso l’animale non può cibarsene. La sola cosa che può prendere è la parte inferiore della mascella, la quale viene esposta nella sua casa. La rinuncia al consumo non ha niente a che vedere qui con il senso di colpa per aver ucciso l’animale, ma concerne piuttosto la paura di una “ritorsione” da parte degli spiriti. Uccisore e consumatore devono restare separati. Simili tabu istituiscono una duplice reciprocità: tra umani e animali da un lato e tra umani stessi dall’altro (chi uccide animali deve dipendere, per la carne, da altri cacciatori).
Huaulu 3 Il cacciatore è obbligato a dare a ogni famiglia del villaggio almeno uno spiedo di carne. Uno spiedo di carne, costituito da tre parti vitali del primo animale ucciso da un giovane uomo, deve essere dato alla sua owai (zia paterna) o, mancando questa, a qualsiasi altra donna del lignaggio, sposata all’esterno, e deve essere mangiato esclusivamente da lei e dai suoi figli. La donna a sua volta dovrà dare in cambio un piatto di porcellana, che diverrà il primo contributo per la futura dote del giovane. Si dice che sia proprio questo scambio a inaugurare il tabu maschile secondo cui il cacciatore non può mangiare la carne dell’antilope,
del cinghiale maiale e del casuario che lui stesso ha ucciso.
Huaulu 4 Tra gli huaulu, nel caso dell’uccisione di un nemico, la testa è portata al villaggio, mentre il corpo viene abbandonato (al contrario che nella caccia, dove la testa è lasciata agli spiriti, e il resto dell’animale consumato). Mentre la mascella dell’animale è appesa dal cacciatore al soffitto della propria casa, la testa del nemico viene appesa al soffitto del tempio, dopo essere stata “trattata” mediante l’affumicatura (offerta agli spiriti).
!kung Cibarsi della carne degli animali uccisi con arco e frecce è, tra i !kung africani, vietato sino al momento in cui il capo non ne abbia preso un assaggio. Il divieto non riguarda il fegato, che i cacciatori mangiano sul posto ma che resta comunque vietato alle donne. Oltre a queste regole generali, vi sono interdetti permanenti per certe categorie “funzionali” (cacciatore/non cacciatore) o sociali (parenti/non parenti, uomo/donna, giovane/adulto ecc.). La moglie del cacciatore, per esempio, può mangiare solo la carne e il grasso di superficie della parte posteriore, i visceri e le zampe dell’animale ucciso dal marito. Queste parti rappresentano la porzione riservata alle donne e ai bambini. Gli adolescenti maschi, invece, hanno diritto alla parete addominale, ai rognoni, agli organi genitali e alle mammelle dell’animale, mentre il cacciatore può mangiare la spalla e le coste di metà dell’animale. La parte spettante al capo consiste di una fetta spessa prelevata da ogni quarto e da ogni filetto, e in una costoletta presa da ciascun fianco (Lévi-Strauss).
Gisu In un lavoro dedicato ai gisu, Suzette Heald (1982) descrive un importante rito di iniziazione tra questi coltivatori ugandesi, il rito che segna il passaggio dei giovani maschi all’età adulta. I giovani, prima di essere circoncisi, vengono spalmati a più riprese di malto, chimo e fango di palude. Il primo è ottenuto con della birra di miglio fermentata, il chimo è una sostanza tratta dallo stomaco delle capre sacrificate per l’occasione, il fango di palude è qualcosa che viene preparato dagli anziani poco prima della circoncisione. Queste spalmature, ci dice Heald, sono momenti importanti durante i quali i giovani devono sopportare di sottoporsi a trattamenti del loro corpo ritenuti piuttosto repellenti, nonché invasivi della loro persona. Sono atti che, stando ai gisu stessi, vengono compiuti per vedere se il ragazzo sia deciso a compiere la circoncisione. Rendono freddo tutto il suo corpo così che egli rabbrividisca e gli venga la pelle d’oca. Fango, chimo e malto seccano la pelle del ragazzo. Gli mostrano che deve essere fiero e determinato. La circoncisione è un atto feroce e queste cose con cui viene imbrattato gli conferiscono forza.
jihad jihad, termine malamente tradotto, nelle lingue europee, con l’espressione “guerra santa”, ma il cui senso autentico è qualcosa come “lotta sulla via di Dio”.
Martire vivente 1 L’aspirante martire islamico, shahid, prima di compiere il gesto che porterà (auspicabilmente per lui) alla propria morte e a quella dei suoi nemici, si sottopone a un processo di sacralizzazione L’aspirante martire viene solitamente “consacrato” o “si consacra” con preghiere e dichiarazioni di intenti riguardo ai motivi che lo spingono ad affermare la verità della fede o della causa, e spesso dopo aver ricevuto una benedizione da parte di un imam. È solo a questo punto che sceglie il suo obiettivo. Egli parte per “procurarsi le vittime”, le sue “prede”. Le vittime dell’attentato sono obiettivi-preda scelti in luoghi in cui (come per esempio gli
animali allo stagno) si radunano per necessità o per abitudine: una fermata di autobus, un caffè, un supermercato ecc. L’attentatore-cacciatore si mimetizza, nasconde cioè le armi nel proprio corpo,
pronto a diventare un’arma egli stesso. L’attentatore parte per la sua missione come individuo “sacralizzato”. Poiché assieme alle vittime del suo gesto diventerà vittima lui stesso, l’aspirante martire è a questo punto in uno stato di “sospensione” che ne fa, per certi aspetti, un “già morto”. Infatti l’espressione con cui egli è
indicato dai suoi è al shahid al hayy, “il martire vivente”.
Bombe umane Il corpo dello shahid che nel caso delle
“bombe umane” si dissolve è quindi solo un mezzo per accedere alla trascendenza. In che modo? Mediante il sacrificio del corpo medesimo. Questa funzione strumentale del corpo che, autodistruggendosi, si accosta al trascendente, può essere meglio compresa alla luce di questo passo di Georges Bataille il quale, a proposito del corpo e dello spirito, ha scritto: «La miseria dell’uomo, in quanto è [si percepisce come] spirito, consiste nell’avere il corpo di un animale e dunque essere come una cosa, ma la gloria del corpo umano è di essere il substrato di uno spirito. E lo spirito è così strettamente avvinto al corpo-cosa che questo non cessa mai di essere assillato, non è mai cosa che al limite, al punto che, se la morte lo riduce allo stato di cosa, lo spirito è più presente che mai: il corpo che l’ha tradito lo rivela maggiormente di quando lo serviva. In un certo senso il cadavere è la più perfetta affermazione dello spirito. È l’essenza stessa dello spirito che l’impotenza definitiva e l’assenza del morto rivelano, allo stesso modo in cui il grido di colui che viene ucciso è l’affermazione suprema della vita». (Bataille, 1973).
Martirio In questa prospettiva la distruzione del corpo non è tanto ciò che “libera” lo spirito, quanto piuttosto ciò che lo fa più presente che mai. Uno spirito che, nella concezione dello shahid, come in quella del martire cristiano delle origini, è tanto più presente quanto più il suo corpo è dissolto. Ricordiamo che la dissoluzione del proprio corpo come mezzo per raggiungere la trascendenza e riaffermare i valori che tale trascendenza esprime è un tema presente anche nella patristica cristiana. Ignazio, vescovo di Antiochia, che fu condannato “alle belve” sotto Traiano (II secolo), così scrive in una delle sue epistole, pregando i confratelli di non fare nulla per fermare il suo percorso verso il martirio: «Com’è glorioso essere un sole al tramonto, lontano dal mondo, verso Dio […].Ho paura che la vostra carità mi abbia a nuocere. Io non avrò mai più una simile occasione di raggiungere Dio. Io sono il frumento di Dio, e sono macinato dai denti delle belve per essere trasformato in puro pane di Cristo».
Trascendenza Autodistruggersi imbottiti di esplosivo non è solo un mezzo efficace per sorprendere il nemico, per fare del proprio corpo un’arma aumentando la forza devastatrice dell’esplosione; è anche un’espressione estetica del modo di concepire un sacrificio, dove ciò che è corporeo scompare per far posto alla trascendenza vista come ragione ultima della sopravvivenza.
Vita ulteriore Il sacrificio del martire musulmano (istishahad) ha senso solo in vista di una vita ulteriore, la quale non è necessariamente solo quella del martire in paradiso, ma anche quella, fisica e terrena, della sua comunità. Percependo se stesso/a e la sua comunità come vittime di una violenza, compie un sacrificio con cui diventa possibile liberare quelle forze capaci di ridare un ordine al mondo.
Sesso e mestizia Agostino considerava il corpo dell’essere umano come un contenitore di energie individuali “finite”, ma anche come la possibile via di fuga di queste energie, quindi come un pericolo per l’anima. Le energie potevano disperdersi fuoriuscendo dal corpo invece di dirigersi verso l’anima e fortificarla. Per indirizzare bene le energie a disposizione bisognava pertanto adottare delle pratiche che inducessero il corpo alla rinuncia. Queste pratiche erano sia la continenza sessuale (meglio l’astinenza) sia il digiuno. Sappiamo infatti che i suoi sermoni guardavano all’amore coniugale con profonda mestizia. Il dovere di procreare figli per la città terrena mediante un moderato piacere, approvato anche dai medici, non era più sufficiente a giustificare l’atto sessuale. Gli sposi cristiani dovevano “abbassarsi” a compierlo “con una certa mestizia” perché l’atto stesso, attraverso il corpo, esprimeva la caduta di Adamo.
Corpus Domini Proclamato nel 1311 da papa Clemente V come festa di precetto, il Corpus Domini esisteva, di fatto, come rito diffuso in gran parte della cristianità europea già da più di cinquant’anni, e cioè dalla metà del Duecento. Tutto ebbe inizio verso il 1220 con la visione di una suor Julienne del monastero di Mont Cornillon (Belgio) che sognò ripetutamente per una ventina d’anni di seguito una luna luminosa e raggiante come un volto sfigurato tuttavia da una specie di cicatrice nera. Verso la metà del Duecento suor Julienne ebbe alla fine la visione rivelatrice. Cristo stesso le apparve rivelandole come la luna fosse il simbolo del ciclo delle feste liturgiche cristiane, mentre la striscia nera sul volto dell’astro era il segno di un’omissione: la mancanza, nel ciclo di tali festività, di un giorno dedicato alla celebrazione dell’ostia consacrata, il corpo e sangue di Cristo medesimo. Suor Julienne, che nel frattempo era diventata priora del monastero di Mont Cornillon, riuscì a far istituire nel 1246 dal vescovo di Liegi una festa in onore del corpo di Cristo “rappresentato” dall’ostia consacrata.
Ostia 1 All’epoca in cui suor Julienne ebbe le visioni era da tempo in atto un contrasto tra quanti, fra gli stessi ecclesiastici, consideravano l’ostia consacrata il corpo di Cristo e quanti invece mettevano in discussione il principio della transustanziazione, facendo dell’ostia consacrata un semplice “segno” della presenza del Salvatore nell’atto rituale della comunione. La disputa si concluse, come si sa, con la vittoria dei teorici della transustanziazione e con l’istituzione della celebrazione del Corpus Domini nel 1264, quando la suora di Mont Cornillon era morta ormai da diverso tempo. Con Urbano IV, belga come suor Julienne, la celebrazione fu infatti da quell’anno estesa a tutto il mondo cristiano (ma non accolta ovunque), sebbene la storia della sua istituzione si intrecci anche con quella del cosiddetto “miracolo di Bolsena” avvenuto l’anno prima, il 1263, in una località non lontana dalla sede papale che lo stesso Urbano aveva posto a Orvieto, e non a Roma.
Miracolo di Bolsena Durante la celebrazione della messa in una chiesa di Bolsena, un sacerdote, dubbioso sulla dibattuta questione se l’ostia fosse realmente il corpo di Cristo, spezzando quest’ultima come prevede la liturgia, vide uscirne del sangue che si sparse sul suo corporale (la reliquia è conservata nel Duomo di Orvieto). Il miracolo di Bolsena del 1263 sottolineava la presenza, nell’ostia, oltre che della carne, anche dell’altro elemento
costitutivo del corpo di Cristo: il sangue. Infatti il Corpus Domini è la celebrazione del corpo e del sangue di Cristo che la Chiesa tiene per “prezioso”. Ancora nel IX secolo, la sacralità dell’ostia ne faceva una reliquia tra le altre. Benché fosse considerata una reliquia di un tipo speciale, essa funzionava come le normali reliquie. In occasione della consacrazione di una chiesa poteva per esempio essere posta sull’altare accanto ad altre. Questa pratica proseguì per alcuni secoli ma non senza tensioni. Un monaco cluniacense del X secolo ebbe una visione in cui un santo gli rivelò come una reliquia, esposta sull’altare, non aveva più alcun potere miracoloso in quanto l’altare era per eccellenza il luogo di celebrazione del mistero divino, quindi della sola eucarestia. In questo modo la differenza radicale tra l’ostia – degna
di stare sull’altare – e le reliquie vere e proprie veniva stabilita una volta per tutte.
Misericordina Un esempio di come l’immagine possa fungere da rinforzo della pietà religiosa ci è dato dal Sacro Cuore di Gesù, una delle immagini sacre più diffuse nel mondo cattolico. La sua presenza nell’iconografia cristiana risale al XIII secolo. Tale immagine ha conservato la sua importanza a tal punto che anche recentemente è stata riprodotta sulle scatole della Misericordina, una “medicina per l’anima” entrata in commercio alla fine del 2013 con un clamoroso spot da parte di papa Francesco dalla finestra di san Pietro. Essa consiste in una scatola contenente un rosario e un santino. Sulla confezione c’è un cuore riprodotto secondo i canoni scientifici convenzionali (con arterie e vene “al posto giusto”) sullo sfondo di un tracciato del battito cardiaco. Ma il richiamo al Sacro Cuore di Gesù è dato dal fatto che quest’organo, accuratamente riprodotto come in un testo di anatomia, è circondato da una corona di spine, simbolo della Passione di Cristo.
Macchia di salnitro In un pomeriggio dell’aprile 2005, da una fessura nel muro di un sottopasso di una strada di Chicago emerse una macchia di salnitro. La prima persona a notarla fu una donna di religione cattolica che passava di lì in auto nell’ora di punta. Dopo poche ore molti credenti abitanti nella zona cominciarono a radunarsi di fronte a quella macchia nella quale si sarebbe potuta intravvedere la figura della Vergine avvolta nel suo manto. Nel giro di breve tempo comparvero fiori, foto, croci, biglietti con messaggi, lumini. Per settimane un numero notevole di persone sfilò o si fermò in preghiera di fronte a questa “apparizione mariana” scaturita da una macchia nel cemento. Alcuni di quanti ritenevano il fenomeno un’emissione di salnitro dovuta all’umidità della parete ammisero però che l’immagine che ne risultava poteva essere accostata, per una strana somiglianza, a quella della Vergine di Guadalupe, la cui apparizione risalente al 1531 si era verificata “imprimendosi” sulla veste di un povero indio. Molti dei ladinos abitanti a Chicago videro in questa somiglianza un miracoloso elemento di continuità con l’apparizione di cinquecento anni prima, e in qualche modo la conferma della “presenza” della Vergine messicana.
Pietre forate Verso la metà degli anni Settanta del secolo scorso, uno studioso di arti visuali e culture africane raccolse un’interessante testimonianza presso un villaggio di agricoltori situato sulle sponde congolesi del lago Tanganyka. Qui alcuni locali parlavano di un “culto delle pietre” che cercavano di far risorgere dopo un lungo periodo di oblio. Questi agricoltori vivevano, come del resto vivono anche oggi, in prossimità del fiume Lufuko. Il Lufuko forma un delta che si estende su un’area particolarmente propizia all’agricoltura. Benché il lago sia particolarmente ricco di pesci, i tabwa (la popolazione) di Lubanda (il villaggio) sono, a differenza di altri gruppi stanziati sulle rive del lago, soprattutto
agricoltori. In epoche precedenti l’arrivo dei primi missionari belgi nella regione, alla fine dell’Ottocento, i coltivatori tabwa avevano rinvenuto nel terreno alcune pietre rotonde con un diametro di circa dodici centimetri, spesse circa tre, e con un foro al centro. Questi anelli di pietra, che secondo le ricostruzioni degli archeologi potrebbero essere parti di strumenti da scavo
in uso presso i cacciatori-raccoglitori di regioni più lontane, sarebbero in ogni caso da far risalire alla fine dell’età della pietra in Africa centrale, quindi ad alcuni secoli fa, ma potrebbero anche essere molto più antichi. In ogni caso per i tabwa queste pietre forate non hanno un’origine umana. Nessuno potrebbe averle
fabbricate così perfette, per cui esse non possono che essere di origine “sovrannaturale”.
Statue buddhiste In Giappone il materiale delle statue buddhiste non può essere un materiale qualunque, ma il legno deve provenire da alberi che, secondo la tradizione, sono particolarmente adatti a
ospitare entità spirituali, per esempio alberi molto vecchi, colpiti dal fulmine o con una forma particolare. Nel suo studio sul buddhismo giapponese Roberta Rambelli ci offre una descrizione della ritualità che contraddistingue la fabbricazione di una statua. Innanzitutto il materiale scelto è sottoposto a un rito di purificazione. Poi c’è “l’inserimento del bulino”, quando questo strumento viene posto al centro esatto del pezzo di legno e colpito con un martello. Può allora cominciare il lavoro di cesello. Vi è poi la cerimonia della cosiddetta “apertura degli occhi”, che consiste nell’infondere nell’immagine stessa la spiritualità del Buddha.
Apertura degli occhi Un atto simile a quello della apertura degli occhi lo ritroviamo, seppure sotto altra forma, in quasi tutte le religioni. I buddhisti dello Sri Lanka considerano un’immagine sacra quando alla statua vengono dipinti gli occhi, gli antichi
quando all’immagine della divinità venivano offerte libagioni e le si rivolgevano delle preghiere, nel cristianesimo quando un crocifisso, o anche una chiesa, vengono consacrati attraverso preghiere e aspersione di acqua benedetta.
Spirito Quando la statua buddhista deve essere riparata o restaurata l’immagine va desacralizzata per poi essere risacralizzata al termine dell’operazione di restauro. Lo spirito della statua deve essere trasferito, nel frattempo, in un oggetto inanimato fino a quando le operazioni di restauro sono terminate.
Ihai Il caso delle tavolette funerarie (ihai), che sono considerate il ricettacolo e perfino il corpo “alternativo” di un antenato. Il giorno stabilito per la cerimonia, il sacerdote chiama lo spirito del defunto a entrare nella tavoletta che verrà posta nel botsudan, l’altare domestico giapponese. Dopodiché il nome postumo e la data del decesso vengono scritti sul fronte della tavoletta, mentre sul retro sono registrati il nome del defunto da vivo e altre informazioni Lo spirito, che in vita è latente, emerge ora sotto forma di nome postumo, entra in primo piano, mentre la materia, il corpo, l’essere umano in carne e ossa, scivolano in secondo piano
sul retro della tavoletta.