Riccardo Pratesi, SportWeek 7/3/2015, 7 marzo 2015
EL PASO 1966 BLACK POWER
La chiamano March Madness, negli Stati Uniti. La follia di marzo. Contagia tutta America, in questo periodo. Perché comincia il torneo di basket universitario. Sessantotto squadre, tabellone tennistico. Una Final Four da indovinare. Tutti, persino il Presidente Obama, che provano a compilare il tabellone perfetto. Non ci riesce mai nessuno... Un vincitore da proclamare. Quest’anno Kentucky e Duke sono le favorite. In giro per strada, dal manager da multinazionale al senzatetto, vedrete indossate le magliette dell’alma mater, o dell’università di casa. Ma quello che adesso sembra scontato, tanti giocatori neri sul parquet, solo 50 anni fa sembrava utopia. Poi un allenatore, Don Haskins, una squadra, quella di El Paso, un’università, allora si chiamava Texas Western, ora si chiama Utep, hanno cambiato tutto. E compiuto una rivoluzione sociale e culturale sul parquet. Con poche parole e tante vittorie. Nel 1966 vinsero il titolo nazionale con 5 neri in quintetto, nella finale, facendo giocare solo i 7 afroamericani. Mai successo prima. Nel Texas conservatore e razzista di allora. Siamo andati a El Paso, 50 anni dopo. E vi raccontiamo tutto.
NEL DESERTO – Arrivare a El Paso in macchina è una piccola avventura. «Vai a El Paso ?», chiedono a San Antonio. «Attento, là è pericoloso!». Estremo Ovest del Texas. Appiccicata a New Mexico e Messico. Mentre il resto del Texas ha un’ora in meno rispetto a New York, El Paso è -2 dalla Costa Est. Lasciata indietro San Antonio, la casa degli Spurs campioni Nba, vi trovate catapultati dentro a un fumetto di Tex Willer. Da Far West. I cactus, una mesa. Il freddo. Erba stinta, gialla. Pareti di roccia a bordo-strada, color avorio. Quasi nessuno in giro. Pneumatici rotti e animali morti sull’asfalto. Macchine abbandonate depredate. Manca persino la pubblicità: i cartelloni Usa campeggiano ovunque, non nel deserto. Un’area di sosta ogni morte di coyote. Vien voglia di promettere di essere più buoni in futuro, se la macchina non ti lascia a piedi... C’è Fort Stockton, e pure Apache Fuel e Comanche Restaurant. La descrizione del viaggio in pullman verso El Paso del film Glory Road (se l’avete visto confrontatelo, altrimenti guardatelo, merita), che racconta come i ragazzi neri reclutati da coach Haskins a New York arrivarono a El Paso El Paso, sbalorditi di fronte a una realtà inimmaginabile, è vera... Quando l’autoradio torna a funzionare, musica latina e country. Un cartello, vicino a Sierra Bianca: “Non raccogliete autostoppisti, potrebbero essere evasi dal carcere”. Pensi al ragazzo che camminava da solo sul ciglio della strada, pochi minuti prima. Suggestioni mentali, chiaro. Però...
EL PASO – Dopo 8 ore di guida, El Paso. Città disordinata e intrigante. Un tramonto di sole che va a sparire dietro le montagne, sfondo da cartolina. Utep ha 23.000 studenti, il 79% ispanici. Il 6% arriva da Ciudad Juarez, in Messico. Il presidente dell’ateneo è una donna, Diana Natalicio. Sulle sponde del Rio Grande sono abituati alle conquiste sociali. Abbiamo un indirizzo sul navigatore: Glory Road. La strada davanti al Don Haskins Center, l’Arena dedicata all’allenatore che ha messo El Paso sulla mappa sportiva americana. Siamo in città per una partita di stagione regolare della discreta Utep attuale contro Southern Mississippi. Entriamo. Dal soffitto pende lo stendardo di campioni del 1966, quella squadra e il suo coach sono nella Hall of Fame. Poi le maglie ritirate: Hill, Lattin, giocatori di quegli anni. Il venditore di tacos ci dice che di solito alla partita c’è uno degli ex campioni. «Vive qui. È in carrozzella, lo riconosci subito. Nero, grosso. Lo salutano tutti. Ha l’anello di campione al dito. Il nome no, non lo ricordo, ma di solito si piazza sotto la fila N, dietro al canestro». Indaghiamo: è “cuore matto” Willie Cager, un problema cardiaco lo costrinse a un impiego a singhiozzo, nell’anno di grazia cestistica 1965-66. Ma il suo cuore grande costrinse il compianto coach Haskins a farlo giocare, quando contava, al torneo. Stavolta non c’è. «Fa tanto freddo», ci spiegano. Anche gli eroi invecchiano. I tifosi sono di altre generazioni, proviamo con qualcuno attempato. Harry dice: «Certo che sono di El Paso. E certo che ricordo quel trionfo. Facevo il militare, allora. Resta un orgoglio. L’unica università texana ad aver vinto un titolo nazionale nel basket, lo ricordano sempre prima delle partite».
IL GIORNALISTA La storia ce la facciamo raccontare da chi l’ha vissuta da vicino. Ray Sanchez, arzillo ultrasettantenne, che ci porge il biglietto da visita, come se potessimo dubitare sulla sua identità, dopo che tutti in sala stampa l’hanno indicato come la memoria storica di quegli anni di gloria. Allora era il giornalista di punta dell’Herald Post. Ha scritto libri su Texas Western. Racconta: «È stata la sorpresa più grande della storia del basket. Per il risultato: la sconosciuta El Paso che batte la grande Kentucky del mitico coach Rupp. Per le ragioni sociali: cinque giocatori neri in quintetto. La finale contro Kentucky, con 12 giocatori bianchi. Ero diventato amico di Haskins. Sai perché li fece giocare dal 1’ contro i Wildcats? Perché voleva vincere. Certo, voleva anche lanciare un messaggio sociale, ma soprattutto voleva approfittare della loro velocità per contrastare quella di Kentucky. La moglie di Don, Mary, vive ancora a El Paso. E che storia, Haskins. Allenava all’high school, gli avevano proposto ruoli da assistente allenatore in altre università. Ma voleva fare il capo allenatore. E così scelse un posto sperduto nel Texas. E lo rese famoso. Hill, il suo playmaker, era un ribelle. Andava alle feste. E sul parquet tanti giochetti: passaggi dietro la schiena, palleggi tra le gambe. Così Haskins lo mette in panchina per dargli una lezione. Lo fa entrare per punizione alla fine di una partita che reputa ormai persa. E Hill che fa? Gliela vince. Da allora non l’ha più tolto. La squadra più forte Haskins l’aveva avuta tre anni prima, nel 1963. Ma il suo lungo di colore, Bad News Barnes, al torneo finì presto fuori per falli discutibili...». Di coach Floyd, che di Haskins è stato giovane assistente, cosa pensa Sanchez? «Gran reclutatore, su come allena la giuria deve ancora pronunciarsi». È ancora un giornalista, il vecchio Ray...
L’ALLENATORE – Allora sentiamolo coach Tim Floyd, al termine di una partita stravinta davanti a 8.000 spettatori. Più tifo da ola che da palati fini. È finita con i giocatori che passavano a dare il “cinque alto” ai tifosi in prima fila. Floyd ha un curriculum importante – ha allenato i Chicago Bulls e New Orleans in Nba – e voglia di parlare: le vittorie fanno questo effetto. «Sei italiano? Salutami Daniel Hackett, l’ho allenato al college a Southern California, un grande». Poi si scatena quando gli chiediamo del suo mentore. «Haskins è stato il miglior allenatore degli Anni 60, 70 e 80. A Kentucky o North Carolina avrebbe vinto 6-7 titoli. Sapeva far diventare un corpo solo ragazzi con trascorsi personali completamente diversi. Per questa comunità rappresenta tutto. Ha avuto un impatto immenso. Il suo nome è ovunque. Pretendeva difesa, in attacco si adeguava alle qualità dei suoi ragazzi. E di nascosto aiutava i bisognosi: a volte caricava coperte e viveri sul suo camion e spariva. Ripetere le sue imprese è difficile, ancor più perché a El Paso siamo lontani da tutto per reclutare prospetti dalle scuole superiori: a Est da Dallas, a Ovest da Los Angeles. E a Sud se non vogliamo andare in Perù... Haskins mi ha insegnato tutto quello che so, ma non tutto quello che sapeva lui...».