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 2015  marzo 07 Sabato calendario

VE LA DIAMO NOI LA CINA


[Alessandro Diamanti e Alberto Gilardino]

Adesso Ginevra, 7anni, indica col ditino la collina di Fiesole e chiede: «Papà, la Cina è là dietro?». Alberto Gilardino sorride alla figlia e risponde soltanto: «Sì, è là dietro, ma lontana», e fa bene a restare sul vago, evitando di spiegarle quante migliaia di chilometri separino quel posto nel quale la sua bambina ha lasciato il cuore da Firenze, dove lui e Alessandro Diamanti sono tornati a gennaio, rispettivamente a distanza di 3 e 12 anni dalla prima volta, attratti dal richiamo del suolo natio e, più prosaicamente, del nostro calcio. Perché, sì, la Cina è bella, «ma la Serie A è un’altra cosa», dicono i due, compagni di avventura (durata 6mesi per il primo e 11 per il secondo) nell’Evergrande, la squadra (allenata fino a novembre da Marcello Lippi) di Guangzhou, la più importante città costiera nel sud della Cina, con i suoi 18milioni di abitanti la terza più popolosa del Paese dopo Shanghai e Pechino. Lì Diamanti e Gila hanno vinto un campionato e scoperto un mondo diverso, nel quale prima o poi vorrebbero tornare: se non per giocare a calcio (entrambi sono in prestito alla Fiorentina fino al 30 giugno, ma con diritto di riscatto a favore del club viola), sicuramente in vacanza. Lo devono ai loro bambini, che dalla Cina non sarebbero andati via. E un po’anche a se stessi.

Il momento indimenticabile del vostro impatto con la Cina?
Diamanti: «Le piogge ininterrotte dei primi 15 giorni. Non si vedeva il cielo».
Gilardino: «Io arrivai l’8 luglio. Dopo mi dissero che quel giorno la temperatura era di 34 gradi, col 70 per cento di umidità. Io so solo che, scesa la scaletta dell’aereo e messo piede a terra, mi sono sentito squagliare. Ed ero in pantaloncini e maglietta».
L’episodio più curioso della vostrapermanenza?
D: «In ritiro, servirsi al buffet degli alberghi insieme agli altri clienti».
G: «Poi sedevamo in tavoli un po’ appartati, ma certo non abbiamo mai vissuto
la clausura cui sono abituati i calciatoriin Italia».
D: «Ma soprattutto quello che si mangiava prima della partita... I cinesi e i brasiliani riempivano i piatti di tutto e di più...Altro che pasta in bianco e bresaola».
E voi?
D: «Io i noodles, una specie di pasta asiatica, con la zuppa. Ci mettevo su un po’ di olio e di sale portati da casa, perché lì non si usa, ed era come mangiare degli spaghetti trasformati».
G: «Io quello che trovavo nel buffet...»
D: «Tu provavi più di me. Certi intrugli...».
G: «Ah, e tu in aereo, allora? Ti ho visto buttar giù degli involtini che non ho mai capito cosa contenessero».
E Lippi non diceva nulla?
D: «Lippi è stato bravo a dare un indirizzo, non solo tattico, ma certe cose di quella cultura non puoi cambiarle e lui neanche ci ha provato. E poi, nonostante le mangiate, i cinesi in campo vanno a duemila all’ora».
Avete preso l’usanza cinese di mostrare il vostro gradimento per il pranzo con un sonoro rutto?
D: «No, quello no. Era permesso, ma neanche i cinesi ruttavano. Lì puoi fare rutti e scoregge, eh... (rìde). Quello che i cinesi fanno di continuo, ma non scriverlo, è scatarrare. Se non stai attento ti centrano in pieno».
Dove abitavate?
G: «In centro, vicino alla sede».
D: «Era un compound, un gruppo di edifici, bellissimo. Un cerchio di grattacieli nuovi con in mezzo ristoranti, supermercati, negozi, tutto».
G: «Nel nostro grattacielo c’erano spa, piscina, palestra...».
Il posto più alto dove vi è capitato di mangiare?
D: «Al centesimo piano del Four Seasons».
G: «Invece l’aperitivo l’abbiamo preso al 136° piano del Ritz Hong Kong».
In Cina chi è stato più felice: voi o levostre mogli?
D: «Forse le nostre mogli e i figli: la qualità della vita è di livello altissimo...».
G: «... Al top. Silvia, la moglie di Alessandro, è taiwanese, conosce cultura e mentalità orientali, ha vissuto negli Stati Uniti: insomma, è abituata a vedere le cose da una prospettiva diversa e ha in qualche modo preparato il marito. Per me e mia moglie Alice, invece, è stata la prima volta in cui siamo stati all’estero non per vacanza. E siamo rimasti colpiti da quello che abbiamo visto. A cominciare dalla scuola internazionale americana alla quale è stata iscritta la maggiore delle nostre figlie».
D: «La mia è andata alla scuola americana anche in Italia. Ma una cosa è studiare a Bologna o a Firenze, un’altra è farlo in Cina. Qui i bambini tra loro parlano inevitabilmente italiano. A Guangzhouo parlavano cinese, o inglese. Tanto che, anche quando giocavano tra di loro, la figlia mia e di Gila comunicavano in inglese. E poi quante attività avevano a disposizione nel doposcuola: il pongo, il basket, il tennis, il pianoforte... Ed eratutto lì, all’interno del complesso dove abitavamo. Le bambine potevano uscire alle 8 del mattino e tornare alle 7 di sera senza alcuna preoccupazione da parte nostra. Avevano il cervello sempre acceso, non come adesso».
G: «Io posso aggiungere che in un anno abbiamo acceso tre volte la televisione».
E voi come passavate il tempo?
D: «A girarla tutta, la città, non riesci. Diciotto milioni di persone significano traffico caotico. Per andare all’allenamento ci mettevamo un’ora e un quarto, nonostante la distanza da casa al campo fosse di 15 chilometri. Avevamo a disposizione un autista per noi e uno per le famiglie. Altrimenti si andava in taxi: sul cellulare avevo il traduttore vocale. Girare a piedi? Ci abbiamo provato e abbiamo rinunciato. Troppo caldo, venti minuti a piedi e sei fritto. E poi ci sono 30 gradi di differenza tra la temperatura all’esterno e quella di un centro commerciale».
Il posto più bello che avete visto?
D: «Il più bello non lo so, posso dire qual è stato il più strano: il mercatino dei fake, il più famoso del mondo. Ti copiano i prodotti di marca che vuoi, e ti garantisco che non capisci la differenza dall’originale. Sono identici».
Come si conquista un cinese?
D: «I cinesi si fanno gli affari loro. Lavorano e dormono».
Dormono?
D: «Si addormentano dappertutto. Loro dicono: chiudi gli occhi e riposa la mente. I miei compagni dormivano a tavola mentre io mangiavo. Li odiavo», (ride)
G: «E in aereo? Neanche il tempo di decollare e già russavano. Dieci ore filate, l’intero tempo del volo. Perché lì è così: ogni trasferta dura un’eternità».
D: «Una volta chiesi: “Dove giochiamo la prossima?”. “In un paesino”, risposero. Era una città di 8 milioni di abitanti. È tutta una questione di proporzioni».
E cosa non bisogna mai fare con un cinese per non farlo arrabbiare?
D: «Io non ho mai visto un cinese arrabbiato o lamentarsi. Non ci sono tante regole, forse perché sono troppi ed è impossibile che la pensino tutti uguale: perciò, vivi e lascia vivere».
Nessuna preoccupazione per la quantità di smog a Guangzhou, considerata una delle più inquinate al mondo?
G: «Sinceramente a me è parsa meno inquinata di Pechino e Shanghai».
D: «Io mi sono scaricato una app per controllare la concentrazione di polveri sottili giorno per giorno. Quando superava una certa soglia lasciavo le bambine a casa. Però in un anno nessuno in famiglia ha avuto un raffreddore. Certo, il cielo che vedi qua, là te lo sogni».
A che punto è il calcio cinese?
G: «Somiglia più alla Premier inglese che alla Serie A. C’è grande fisicità, tutti corrono, picchiano...».
D: «... E pensano a fare un gol in più dell’avversario, non a prenderne uno in meno. Noi eravamo la squadra più forte della Cina, ma non abbiamo mai trovato avversari preoccupati soltanto di difendersi. I cinesi sono ancora un po’ ingenui tatticamente».
E fuori dal campo come sono?
D: «Mia moglie organizzò una festa a sorpresa per il mio compleanno. Scoprii che era la prima volta che i miei compagni uscivano insieme. Nello spogliatoio sono tutti fratelli, fuori ognuno fa la propria vita».
G: «È diversa anche la preparazione alla partita. Sono capaci di stare a vedere un film sull’iPad fino a pochi minuti prima di entrare per il riscaldamento. E di ricominciare durante l’intervallo».
Gli arbitri?
D: «Ci lamentiamo dei nostri, ma là sono proprio scarsi, tanto che le partite vengono dirette da coreani o giapponesi. Io dicevo loro di tutto, ma in italiano. I cinesi protestano poco e in tv c’è solo una trasmissione sportiva, al lunedì sera. Finita la partita non ci pensano più».
In cosa siete diventati un po’ cinesi?
D: «Abbiamo imparato a distinguere i ristoranti orientali buoni da quelli da evitare. Qui da noi torna comodo».