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 2015  marzo 07 Sabato calendario

LA FORTUNA DI MISTER CHEN


Come ogni altro giorno, Chen Guangbiao arriva alla sede della sua azienda in bicicletta. Ancora prima di stringermi la mano il controverso miliardario, autodenominatosi «il filantropo più importante di tutta la Cina», dà il via a un inatteso spettacolo. Fa una serie di piroette su due ruote e poi smonta dalla bici; senza dire una parola, azzanna la parte posteriore del sellino per sollevare la bicicletta con la bocca, prima di concludere lo show con una reverenza.
È l’immagine da istrione che cerca di proiettare quest’uomo, spiazzando continuamente i suoi dipendenti e gli estranei con le sue tante iniziative per costruire «una Cina migliore»: ha commercializzato aria pura in lattine per richiamare l’attenzione suH’inquinamcnto che devasta il Paese, ha distrutto una Mercedes con un trapano per stimolare i compatrioti a usare la bicicletta, ha distribuito contanti fra i più bisognosi a Taiwan, la «provincia ribelle», e nel dicembre dell’anno scorso ha superato se stesso lanciando un’offerta per rilevare il New York Times, dove precedentemente aveva acquistato una pagina pubblicitaria per far sapere al pubblico Usa che le isole Diaoyu (che Pechino contende al Giappone da tempo) appartengono alla Cina.
I suoi dipendenti mi avvertono però che questa stravaganza è solo una facciata di marketing, dietro alla quale si nasconde una struttura intellettuale solida. Non a caso Chen è uno dei pochi imprenditori cinesi che siano davvero riusciti a farsi da soli, senza agganci con il Partito comunista. Non solo: ha accumulato la sua fortuna (che l’istituto Hurun stima in circa 550 milioni di euro) introducendo innovazioni in un settore emergente come quello del riciclo dei materiali: la società di cui è a capo, la China Huangpu Recycling Resources, nella città di Nanchino, trasforma i calcinacci degli edifici demoliti in nuovi prodotti per l’edilizia. «Sei un imprenditore con una coscienza, per questo ti rispetto», gli ha detto l’ex primo ministro Wen Jiabao.
Il vero Chen, che parla con espressione seria e parole misurate, si manifesta appena ci sediamo nel suo ufficio. «Sono nato nel 1968 in una famiglia povera. Avevamo due galline e il nostro unico reddito veniva dalla vendita delle uova. Sette dei miei otto zii e due dei miei fratelli sono morti di fame durante la Rivoluzione Culturale (1966-1976): se sono ancora vivo è perché i nostri vicini divisero con noi il poco cibo che avevano. Lì ho capito il significato della carità. A nove anni, dato che non avevamo abbastanza soldi per pagare le tasse scolastiche, passai l’estate a vendere acqua che raccoglievo in un pozzo e portavo fino in paese, a un chilometro. Con quello che mi avanzò aiutai a pagare gli studi per il figlio del nostro vicino, e per questo la maestra mi premiò con una stella rossa di carta. Me la attaccai in fronte perché tutti la vedessero. Il giorno dopo molti altri bambini si misero a dare una mano per incombenze varie. In quel momento mi resi conto che non basta fare del bene, è necessario anche mostrare il bene che si fa al maggior numero di persone possibile, perché l’esempio si propaghi».
È questo che Chen cerca di fare, propagare l’esempio fra i miliardari cinesi. Con la grande copertura mediatica che ricevono le sue eclatanti messinscene fa appello alla loro responsabilità sociale. «Se hai un bicchiere d’acqua, lo bevi; se hai un secchio d’acqua, lo conservi in casa; ma se hai un fiume, devi imparare a condividerlo. Non possiamo dimenticarci che la nostra fortuna l’abbiamo fatta con la politica di apertura di Deng Xiaoping e grazie al duro lavoro di tutto un popolo», sentenzia.
Per ora, il suo esempio non è stato molto seguito. Nonostante siano già 358 i cittadini cinesi che possiedono più di un miliardo di dollari (solo gli Usa ne hanno di più), nel 2012 la somma che hanno destinato a scopi benefici – 10 miliardi di dollari – equivaleva al 4% di quanto stanziato dai loro omologhi americani: l’anno scorso i 100 maggiori filantropi cinesi hanno donato in beneficenza meno dei soli Mark Zuckerberg e moglie.
«Anche se sul piano del benessere la Cina ha fatto molti passi avanti, sulla qualità umana lo sviluppo è stato inferiore», aggiunge Chen. «Molti imprenditori non si fanno scrupoli quando si tratta di fare affari, cercano solo di fare soldi in fretta», proclama il miliardario riferendosi alla crociata anticorruzione lanciata dal presidente Xi Jinping, che ha già fatto due vittime di alto rango, l’ex segretario del Partito comunista di Chongqing Bo Xilai e l’ex capo dell’apparato di sicurezza pubblica ZhouYongkang.
«Molti anni fa mi ripromisi di fare soldi onestamente: lavorando duro, pagando le tasse e senza corrompere i funzionari pubblici. Fu quando cercai di arruolarmi nell’esercito: venni bocciato agli esami per quattro anni finché mi dissero che il segreto era corrompere gli ufficiali anche solo con qualche stecca di sigarette. Lasciai perdere». Successivamente, negli anni 90, Chen studiò medicina tradizionale cinese e ottenne il suo primo successo brevettando un apparecchio per l’agopuntura a bassa radiazione, da usare per la diagnosi di vari mali. Ma fu la sua capacità di guardare a lungo termine a trasformarlo, oggi, in uno dei 300 cittadini cinesi più ricchi. «Negli anni 90 cominciava il boom dell’edilizia e un’infinità di edifici venivano demoliti. Nessuno utilizzava i calcinacci: pensai che potevano essere redditizi». Non si sbagliava, riciclandoli scoprì il modo di fare soldi e aiutare l’ambiente. «Il mio successo non é stato un caso. Ma dato che non ho la tessera del partito, la maggioranza delle persone non lo vuole riconoscere. Amo la Cina, ma non il suo apparato amministrativo».
Indubbiamente i suoi discorsi danno fastidio a tanti, sia nel mondo delle imprese che tra i politici. Chen spiega che i suoi rapporti con le autorità locali sono tesi «perché hanno paura di chiunque pensi con la propria testa e possa mettere in pericolo i loro privilegi». Aggiunge che in certe province la sua compagnia è emarginata dai politici «che assegnano i progetti ai loro amici e ricevono mazzette». E ammette di temere ritorsioni: «Devo procedere con i piedi di piombo, ma al momento, la fama delle mie iniziative all’estero e il rispetto dei dirigenti del Governo centrale mi proteggono».
Due dei suoi soci in affari aspettano in un’altra stanza, e Chen propone di continuare la conversazione durante il pranzo che gli prepara il suo cuoco. Il menù include zuppa di pesce, granchio, verdura e pesce palla, il cui potente veleno, 12 volte più tossico del cianuro, può uccidere un uomo in pochi minuti se non è cucinato nel modo giusto da personale dotato di apposita licenza. «Non si preoccupi, prima lo assaggiano in cucina», ride uno dei suoi camerieri.
Perché spesso è stato accusato dalla stampa cinese di essere un bluff? «Si può essere d’accordo o meno con il mio modo di fare le cose, ma invece di cercare di trovare l’elemento positivo nel mio messaggio di rispetto per l’ambiente e per una società più egualitaria, certe persone preferiscono diffamarmi». Secondo The New Express, uno dei primi giornali a mettere in dubbio l’altruismo di Chen, i 1000 computer che il miliardario ha promesso a una fondazione della provincia dello Xinjiang sono diventati 500, e l’edificio che ha costruito per ospitare una residenza per anziani in realtà è abitato da suoi familiari. Poi il Southern Metropolis Daily, un quotidiano autorevole, lo ha accusato di essere coinvolto in demolizioni forzate su cui avrebbe lucrato la sua società per il riciclo dei materiali, che l’anno scorso ha registrato 37 milioni di euro di utili grazie a 200 edifici abbattuti. L’imprenditore preferisce non addentrarsi nella polemica, ma qualcosa da dire ce l’ha: «Non ho mai fatto niente di illegale e il 50% degli utili dell’impresa viene destinato a progetti di beneficenza. Nel 2010 dopo la cena a cui ho partecipato con Warren Buffett e Bill Gates per convincere gli imprenditori cinesi a fare beneficenza, ho promesso di donare tutto il mio patrimonio quando morirò. E cosi farò. I miei figli lo sanno e mi appoggiano».
Anche fuori dai confini, però, ha incassato più diffidenza che simpatia. La Cnn ha fatto notare che Chen sta pagando di tasca sua, negli Usa, i trapianti di pelle per due seguaci della setta Falun Gong (perseguitata dal Partito comunista) rimaste sfigurate quando si diedero fuoco in piazza Tiananmen per protestare contro la repressione del regime, nel 2001. Anche quando ha organizzato a New York un pranzo di lusso per 250 senzatetto, promettendo loro 300 dollari ciascuno, Chen ha fatto un buco nell’acqua: non è riuscito a distribuire le banconote perché l’associazione che lo aiutava temeva che alcuni potessero usarle per comprare droga. Chen però ribadisce che «l’unico modo per essere sicuri che le donazioni arrivino a chi ne ha bisogno è mettergli i soldi in mano». Ma nessuna delle sue iniziative ha suscitato tanto clamore come l’offerta di Chen, che non parla una parola di inglese, di acquistare quote del NewYork Times per un miliardo di dollari. «È il modo più efficace per far arrivare il mio messaggio: è il giornale più prestigioso al mondo. Ho proposto di lanciare una versione in cinese e portarla in tutte le edicole del Paese (il NewYork Times, come altri mezzi di informazione, è vietato in Cina). Ho promesso di non interferire con la linea editoriale e non toccare i dipendenti, ma volevo occuparmi di progettare un nuovo sistema di marketing».
Il quotidiano, le cui azioni sono schizzate al valore più alto degli ultimi cinque anni quando si è diffusa la notizia, ha risposto in tempi rapidi e senza mezzi termini. «Mi hanno detto che il giornale non è in vendita». Lui però non desiste: « Ora voglio entrare nel Wall Street Journal o in Voice of America. Perché? Perché credo che solo i grandi media statunitensi abbiano la capacità di cambiare il mondo».
(Traduzione di Fabio Galimberti)