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 2015  marzo 11 Mercoledì calendario

Gli indizi e il (falso) mito della pistola fumante L’udienza fiume segnala che un processo è cosa diversa dalle aspettative politico-sociali Anni di fumettistica retorica sulla «pistola fumante» hanno (dis)educato alla bizzarra idea che le uniche prove spendibili nei processi, e «legittimate» a fondare una assoluzione o una condanna agli occhi dell’opinione pubblica, siano ormai soltanto o la foto dell’imputato dall’altra parte del mondo nell’istante esatto di un reato altrui, o la sua confessione dal notaio

Gli indizi e il (falso) mito della pistola fumante L’udienza fiume segnala che un processo è cosa diversa dalle aspettative politico-sociali Anni di fumettistica retorica sulla «pistola fumante» hanno (dis)educato alla bizzarra idea che le uniche prove spendibili nei processi, e «legittimate» a fondare una assoluzione o una condanna agli occhi dell’opinione pubblica, siano ormai soltanto o la foto dell’imputato dall’altra parte del mondo nell’istante esatto di un reato altrui, o la sua confessione dal notaio. E invece nei palazzi di giustizia tutti i giorni pesanti condanne o clamorose assoluzioni si basano su processi indiziari, nei quali cioè il ragionamento di una prova logica, che collega dati di fatto acquisiti in maniera certa, può finire per essere persino più difficile da smontare di una prova del Dna o più demolitoria di qualunque spettacolare controalibi. E dopo la sentenza a mezzanotte di ieri in Cassazione dopo quasi 9 ore di camera di consiglio, ci vorrebbe un Jannacci giudiziario per spiegarlo a «quelli che». «Quelli che» nel marzo 2013 c’era da invadere il Tribunale di Milano alla testa di 100 parlamentari pdl capeggiati dall’ex ministro della Giustizia (oggi dell’Interno). «Quelli che» nel febbraio 2011 c’era da far votare solennemente in Parlamento a 315 deputati che al presidente del Consiglio poteva legittimamente risultare che Ruby fosse la nipote di Mubarak. «Quelli che» nel maggio 2013 c’era da invocare a gran voce il trasferimento del processo a Brescia per «legittimo sospetto» sulla non imparzialità dei giudici milanesi, pretesa ridicolizzata dalla Cassazione. «Quelli che» adesso i pm dovrebbero ripagare i milioni di euro delle intercettazioni, in realtà costate 26.000 euro, quando l’intera inchiesta ne è costata 65.000 (compresi noleggi e interpreti). Ma anche «quelli che», tra le fila di molti magistrati milanesi dopo l’assoluzione in Appello, nell’estate 2014 su alcuni giornali si erano riparati dietro l’anonimato di virgolette non smentite per accusare la giudice della sgradita sentenza di aver assaggiato il frutto avvelenato di uno scambio politico in salsa renziana/berlusconiana. Da questo punto di vista l’udienza-fiume in Cassazione suona la campana per chi da un processo pretenderebbe la risposta più conforme alle aspettative politico-sociali, o più adesiva al livello di gradimento ritenuto socialmente accettabile per le decisioni giudiziarie di una certa stagione. Ma suona anche per chi a lungo ha voluto contrabbandare per processo al peccato, per scrutinio di scelte sessuali, e per volontà di degradazione morale degli imputati quello che invece era il fisiologico meccanismo del dibattimento: procedura alla quale ora Berlusconi deve la sua assoluzione per motivi giuridici pur a fronte di fatti storici accertati dai tre gradi di giudizio (l’«abuso della propria qualifica per scopi personali» nella telefonata in Questura), e ieri ammessi persino dai difensori («Nemmeno noi contestiamo che ad Arcore avvenissero fatti di prostituzione con compensi»; e se l’affido di Ruby in Questura «fu regolare, che poi i poliziotti fossero contenti di aver fatto un favore a Berlusconi, questo ve lo concediamo»). Proprio l’indugiare sugli indici di inconsapevolezza o meno della minore età di Ruby, sulle connotazioni sessuali delle serate o sulle sfumature giuridiche della telefonata notturna del premier alla Questura, non era dunque fissazione di pm e giudici «guardoni», ma accertamento istruttorio inevitabile, fondamentale proprio come discutere di balistica in un processo per omicidio. Dove, spesso, neppure la pistola è mai davvero fumante. lferrarella@corriere.it Pagina Corrente Pag. 9 Immagini della pagina