Mauro Bevacqua, GQ 3/2015, 10 marzo 2015
QUESTA È L’AMERICA
Marco Belinelli, messo a nudo. Le bellissime cheerleader che vedete in queste pagine ci sono riuscite in un attimo. Ma con un registratore in mano è molto più difficile, questo è poco ma sicuro. Lo dice anche lui: «Avere tre fighe sul set aiuta».
E poi c’è il fascino tutto americano delle cheerleader.
«Che è assolutamente innegabile. Sarà che noi le vediamo sempre con quei costumi attillati o quelle tutine strette mentre ballano davanti a tutti: è come se ci fosse un non so che di trasgressivo».
Però, per tutti voi giocatori, quelle ragazze sono davvero off-limit, no?
«Si, c’è un regolamento».
Certo, un regolamento. Ma...
«Volete subito mettermi nei casini? Diciamo così: in teoria dovremmo ignorarci. Poi magari uno sguardo, un messaggio o un numero di telefono ci scappa; oppure le incontri in giro per i locali in città...».
Da questi “esemplari evoluti” di “pompon girl” a Miss Italia, dove sei stato in giuria: chi scegli?
«Quest’estate, a Miss Italia, ho visto solo ragazze bellissime, dalla prima all’ultima. Ma scelgo le cheerleader».
Quindi preferisci la ragazza americana a quella italiana?
«No, fermi tutti: da sposare, preferisco un’italiana. Ma visto che sono single...».
Neppure sei fidanzato?
«No, per adesso mi diverto. Ma so che prima o poi dovrò mettere la testa a posto».
Diffìcile essere “impegnati” in Nba?
«Sì. Molto complicato: viaggi molto, sei sempre in giro, le tentazioni non mancano».
Cioè, donne ovunque?
«Quello no, anzi, meglio sfatare alcune leggende. Sono all’ottavo anno in Nba e non ho mai visto sottolineo, mai – le scene di cui si sente parlare, ragazze che ti aspettano nelle hall degli alberghi, in ascensore se non addirittura in camera. Mai successo».
Quindi, se vuoi divertirti?
«Se vuoi divertirti, le occasioni comunque non mancano – e io mi sto divertendo parecchio. Durante l’All-Star Weekend, per esempio, ci sono bellissime ragazze ovunque. Esci a cena, vai ai party dei vari giocatori... Socializzare non è un problema».
Ma la donna ideale di Marco Belinelli com’è? Bionda o mora?
«Mora tutta la vita, senza discussioni».
Un nome?
«Elisabetta Canalis. Sempre piaciuta».
Non tì senti un po’ americano?
«No, amo l’Italia, ce l’ho nel cuore e sono certo che dentro resterò sempre italiano. Durante l’anno ho dei momenti in cui mi manca tantissimo Bologna, la mia San Giovanni in Persiceto».
Tornerai a fine carriera, allora?
«Sì, senza dubbio. L’Italia è casa mia, non resterò negli Stati Uniti».
Però c’è un’abitudine tipicamente americana che hai fatto tua?
«Il breakfast. Qui è fantastico. Anche il brunch. Per me sono diventati un’abitudine. I mille modi di fare le uova, i waffles, i succhi di frutta di ogni colore, il bacon e le salsicce: qui le colazioni sono illegali».
Magari non adatte a un atleta.
«Infatti durante la stagione, a colazione, mangio solo il bianco dell’uovo con un po’ di prosciutto cotto. Stop».
Altre tentazioni a tavola?
«Adoro le cheesecake. Se non prendo la Chococake è la New York Cheesecake, il classico. Ma se sgarro sul peso arrivano le multe... Se ne riparla a fine campionato».
San Antonio è la tua quinta città americana. La preferita?
«Fra quelle in cui ho giocato, a Ovest dico San Francisco: fantastica, è il primo posto che mi ha accolto in Usa. A Est, è un lancio di moneta tra Toronto – vivevo in un quartiere stupendo, Yorkville – e Chicago».
E fra quelle che hai solo visitato?
«Facile: a Est, Miami, dove vive il mio grande amico Alessandro (Saponaro, ndr). Ogni anno, quando finisce la stagione, un passaggio ce lo faccio sempre. Mi piace prendere il sole, godermi il colore clamoroso di quell’acqua. Magari in barca, anche se ho un po’ paura: quando è alla guida, “Sapo” fa spesso il maraglio (bolognese per sbruffone”, ndr) e io mi cago addosso. Miami, comunque, resta una città stupenda, super divertente, anche se per me ha una “data di scadenza”: dieci-dodici giorni al massimo, poi basta».
A Ovest, invece, cosa preferisci?
«Los Angeles, ovvio. Ci vive mio fratello Umberto, e per uno come me a cui piace fare shopping è il paradiso: ha i negozi più belli che abbia visto in America. Però il traffico è una rottura di palle incredibile».
Sei stato ricevuto alla Casa Bianca dal presidente, con gli Spurs.
«Una sensazione fantastica. Nel 2007 ho fatto un provino per la squadra di Washington. Quando ho finito, sono andato con mio fratello a vedere da fuori la Casa Bianca: bellissima, enorme, impressionante. Entrarci, però, è clamoroso: vedi alle pareti i quadri che ritraggono tutti i presidenti, i servizi da tavola, i piatti e le posate di tante epoche diverse. E hai, fortissima, la sensazione che lì dentro vive l’uomo più potente del mondo».
Cioè Barack Obama.
«Lo ammetto: quando gli ho stretto la mano ero quasi smarrito. Quando poi mi ha espressamente nominato («Belinelli manca molto ai miei Chicago Bulls», ndr), be’, sono impazzito. Ha pronunciato quelle parole dal podio, davanti a tutto il mondo: una frase che non scorderò mai».
West Wing e House of Cards, le hai seguite? Guardavi Obama e pensavi a Martin Sheen o a Kevin Spacey?
«In un certo periodo ero entrato un po’ nel tunnel delle serie tv – ai tempi di Lost e di Prison Break. Ora invece mi sono buttato sulle storie di mafia e criminalità italiana: da poco ho finito di vedere Gomorra, serie clamorosa, ed ero impazzito per Romanzo criminale. Mi piacciono da morire».
Televisione a parte, Marco Belinelli come trascorre il tempo libero?
«Mi piace molto mangiar fuori, meglio se in compagnia, e scegliere ristoranti un po’ fancy, cool, magari con un po’ di musica in sottofondo. Posti ben frequentati, dove non mancano le belle ragazze».
Quali sono i tuoi preferiti?
«A Chicago ce n’è uno fantastico: il “Rpm Italian”. A Miami faccio tappa fissa al “Casa Tua” o da “Mr Chow”. A Los Angeles non manco mai di fare un salto da “Il Pastaio”, a Beverly Hills. Ecco, da questo punto di vista invece San Antonio non offre molto».
Poi però ci sono i club.
«Da quest’estate sono “member” della “Soho House”, ho fatto la tessera a Miami (ci sono sedi a New York, West Hollywood, Toronto. Chicago, oltre a quella originale di Londra, ndr). Quando sono in città trascorro lì i pomeriggi: si prende il sole, si mangia bene, c’è buona musica, bella gente. La sera è diverso, a volte preferisco un lounge bar oppure ho voglia di andare a ballare in discoteca, anche per conoscere nuove persone».
Soldi, ne hai. Cosa ti compri?
«Vestiti, pure troppi. Spesso finisco per non indossarli neppure: perché non ritrovo lo stesso effetto che ho avuto guardandolo in negozio o perché, semplicemente, me ne dimentico e così restano nell’armadio».
Spese folli?
«Non impazzisco per le auto. In Italia non guidavo; quand’ero a San Francisco, nel primo anno di Nba, non avevo la patente. Oggi ho una Jeep Wrangler e una Porsche S, a due posti. Ma non ci capisco nulla. Preferisco gli orologi e infatti sono anche testimonial di Audemars Piguet».
Qual è ul tuo look preferito?
«Adesso vado sempre sul black-on-black, è un po’ la moda del momento. Maglia, pantaloni, scarpe, tutto nero – a volte aggiungo anche un cappello, elegante».
Nella Nba spopola lo stile ribattezzato “nerd-chic“, un po’ alla Carlton di Willy, il principe di Bel-Air.
«Mi piace moltissimo, se non eccede. Oggi sono in tanti nella Nba a vestirsi bene: i look di Dwyane Wade, Chris Paul, Amar’e Stoudemire o Tyson Chandler sono fantastici; Russell Westbrook invece è un po’ sopra le righe, spesso esagera».
Mai piaciuto il look oversize?
«L’ho sempre odiato. Quei jeans enormi, quelle maglie 4XL... No, no, solo al pensiero mi vengono i brividi».
Anche perché stai crescendo, forse. Fra pochi giorni compi 29 anni, ti sentì un po’ più maturo, più uomo?
«Sì, assolutamente. Sono molto cambiato rispetto alla persona che è arrivata in America otto anni fa. Sono cresciuto, so gestire meglio i rapporti con le persone, dai compagni alla stampa, fino agli sponsor. Sono stato a lungo timido, chiuso, uno che faceva abbastanza fatica a comunicare: oggi mi sento decisamente più a mio agio, in mille situazioni diverse».
Che influenza ha avuto in questo il tuo attuale allenatore, Gregg Popovich, un’autentica leggenda negli Usa?
«Non esagero se dico che lo considero un secondo padre. È il compagno di conversazione ideale, se vuoi ridere e scherzare; ma lo è anche se magari hai un problema e senti il bisogno di parlarne».
Prova a farmi un esempio.
«Appena arrivato a San Antonio mi consiglia – lui, grande esperto di cibo e di vini – un ristorante italiano, “Osteria Il Sogno”, in città. Tutt’altro che indimenticabile. Glielo dico. Nessuna reazione. Due o tre mesi dopo, rientrando in spogliatoio, trovo un biglietto da visita al mio posto, con su scritto: “Ristorante Bliss. Già prenotato”. Ci vado, mangio e bevo da dio, e ovviamente è tutto pagato da “Pop”. Numero uno».
Proprio un tuo canestro, a febbraio, gli ha regalato la millesima vittoria in carriera.
«Sì, ed è stato un momento splendido. Per mille motivi: per me, per la vittoria, ma soprattutto perché per lui è stato un successo storico, che non scorderà mai. Sono contentissimo di aver potuto contribuire».
Due desideri per il tuo futuro: il primo, fuori dal campo.
«Mi piacerebbe fare un safari. Amo gli animali, ammirarli da vicino credo sia fantastico. Lo sto progettando».
Il secondo, in campo.
«Continuare a migliorare. Continuare a mettere a tacere chi non ha creduto o non crede in me. E continuare a vincere».
Con i San Antonio Spurs o con la Nazionale italiana?
«Eh, che bella domanda di merda! (ride) Oggi dico prima con gli Spurs – il secondo anello sarebbe fantastico – e poi con l’Italia. Partecipare alle Olimpiadi in Brasile, per esempio, sarebbe stupendo».
Oggi ti senti il giocatore di basket più forte d’Italia?
«Sì».