Francesca Bonazzoli, Corriere della Sera 9/3/2015, 9 marzo 2015
Tra reliquiari, spille e tessuti d’oro Quei tesori pensati ed esibiti per impressionare gli ambasciatori M entre nel 1285 Firenze accompagnava in processione la pala della Madonna Rucellai in Santa Maria Novella, a Milano le tavole dipinte erano ancora un oggetto praticamente sconosciuto che rimase tale fino al Quattrocento
Tra reliquiari, spille e tessuti d’oro Quei tesori pensati ed esibiti per impressionare gli ambasciatori M entre nel 1285 Firenze accompagnava in processione la pala della Madonna Rucellai in Santa Maria Novella, a Milano le tavole dipinte erano ancora un oggetto praticamente sconosciuto che rimase tale fino al Quattrocento. Nel Nord medioevale dove i principi guerrieri (compreso Luigi XI che non volle mai una residenza stabile) spostavano le corti da un castello all’altro per controllare le terre sottoposte, la produzione figurativa si concentrava infatti sugli elementi fissi — pitture murali e statue — oppure sulle oreficerie, facilmente trasportabili durante i movimenti della corte. Ecco perché quella suntuaria divenne la produzione artistica più importante della Lombardia, una manifattura di corte e da esportazione conosciuta come «ouvrage de Lombardie» (miniature, vasellame, fibbie, spille, copertine di codici, reliquiari, antifonari, medaglioni). La tradizione degli orefici di Milano risaliva all’altare della basilica di sant’Ambrogio (circa 835); nel corso dei secoli si era specializzata nella tecnica del cloisonné, lo smalto colato fra sottili celle metalliche con l’effetto di un mosaico, e primeggiava per le coperte smaltate dei codici. Sia per i Visconti che per gli Sforza, entrambe signorie bisognose della legittimazione dell’investitura imperiale, le oreficerie furono una necessità politica e dinastica. Nell’intento di legare i Visconti alle famiglie regnanti europee, per esempio, la primogenita di Gian Galeazzo, Valentina, fu data in sposa a Luigi d’Orléans, fratello del re di Francia Carlo VI. La dote, raccolta con la vessazione dei sudditi, prevedeva la favolosa cifra di 400 mila fiorini, abiti e drappi d’arredo tessuti con fili d’oro e d’argento, trenta anelli, un sontuoso vasellame d’oro e argento, un numero strabiliante di collane, spille, fibbie, oggetti di devozione. La storia si ripeté con gli Sforza quando a Bianca Maria, nipote di Ludovico il Moro che a sua volta, come Gian Galeazzo, dovette comprare il titolo di duca di Milano, fu concessa una dote da favola come sposa dell’imperatore di Germania. Per impressionare gli ambasciatori Giorgio Contarini e Paolo Pisani, incaricati di riferire a Massimiliano I d’Asburgo, il Moro espose nella sala del Tesoro del Castello Sforzesco, tutti i suoi gioielli e oreficerie «le quali tutte non sono da comparar cum quelle del episcopo de Salzpurg, ne le altre, ma sono de molto major valuta», come scrissero stupefatti gli ambasciatori. Il matrimonio andò in porto e proprio partendo dall’inventario della dote, incrociato con altri documenti, Paola Venturelli ha iniziato una caccia ventennale che ha portato all’identificazione di molti di quei gioielli dispersi per l’Europa in seguito a passaggi ereditari, regalie o rivolgimenti dinastici con relativi saccheggi, e di cui si era spesso persa l’indicazione della provenienza lombarda. Il risultato fu presentato nel 2011 in una straordinaria mostra al museo Diocesano di Milano che lasciava i visitatori sbalorditi come a suo tempo gli ambasciatori dell’imperatore. Gran parte del successo dell’ouvrage de Lombardie era dovuta allo stretto dialogo con le novità dell’architettura, della moda, della pittura e della scultura. Il tabernacolo argenteo di Voghera, per esempio, riproduce la guglia e le finestre posteriori del Duomo di Milano; il tabernacolo Pallavicino riprende l’interno del tempio dell’Incoronata di Lodi; un fermaglio in oro conservato a Essen, in Germania, ha la foggia di una dama che porta lo stesso cappello disegnato da Michelino da Besozzo su una dama col falcone. E ancora a fine Quattrocento Leonardo stesso disegnava fibbie per cinture e inventava ricette a base di capelli di donna e bianco d’uovo per creare perle artificiali e vetro calcedonio. Passatempi di corte che nella pratica Firenze dei banchieri non gli erano concessi.