Leonetta Bentivoglio, la Repubblica 7/3/2015, 7 marzo 2015
PAPPANO: «CHE RITMO NEL MIO DIALETTO»
Capita che un dialetto imparato nell’infanzia resti incrollabilmente attuale e frequentato nella maturità, e che nemmeno un vasto successo internazionale e l’immersione quotidiana nelle lingue del jet set possa appannarlo. Il direttore d’orchestra Antonio Pappano, musicista tra i più celebri della nostra epoca, conserva l’idioma beneventano come «lingua originaria e lessico familiare». Sentirlo conversare con i suoi parenti è appassionante e incomprensibile per i profani, e rende ancora più genuina e calda l’umanità di questo cordialissimo Maestro. Il suo impeto comunicativo si è modellato su tre strade sonore diverse: la musica, innanzitutto, regno della sua vocazione; poi le lingue, dato che è un poliglotta, e nonostante il cognome italiano la sua lingua madre è l’inglese, e parla senza incertezze il francese e il tedesco; infine possiede il secolare vocabolario sannita, un codice affettivo e personale che ha assimilato da piccolo e continua a tenersi stretto. Bello immaginare che il suo destino corra lungo questi tre percorsi sonori, capaci di alimentarsi l’un l’altro. «Ho passato i primi anni in Inghilterra, dove i miei erano emigrati da Castelfranco in Miscano, provincia di Benevento», racconta Sir Tony, che dal 2002, con immenso successo, guida la Royal Opera House Covent Garden di Londra. Qui gli è stato conferito il titolo di Baronetto per meriti musicali, ma lui non si è mai montato la testa.
«Da bambino ero immerso in quella parlata simile al napoletano, e non l’ho mai dimenticata», riferisce. «Ormai mia madre abita da molto tempo negli Usa, in Connecticut, e in pratica è diventata un’americana. Però io e lei dialoghiamo in un buffo “patois” che mescola l’inglese, l’italiano e il castelfranchese». Spiega d’essere affascinato dalle lingue e in particolare dai dialetti: «Ogni volta che li sento mi mettono addosso un gran buonumore. Appena qualcuno, in Italia, parla in un modo un po’ speciale, gli chiedo di farmi decifrare la sua provenienza».
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L’APPRENDIMENTO
dell’italiano è stato per Tony una conquista adulta, che ha coinciso con l’investitura di direttore musicale dell’Accademia di Santa Cecilia.
Il titolo è giunto qualche anno fa ad affiancare l’incarico londinese, facendo di lui un instancabile pendolare della musica tra l’Inghilterra e Roma: «Fin dal principio del mio mandato italiano mi sono tuffato nella vostra lingua, che avevo già esplorato soprattutto grazie a Verdi e a Puccini: nei loro capolavori i testi dei libretti penetrano nella musica e viceversa».
Ora ha imparato un italiano fluido e brillante, però non gli basta: «Purtroppo non riesco a perdere il mio accento inglese e faccio qualche sbaglio. A volte, durante le prove, chiedo aiuto all’orchestra per trovare i termini giusti o farmi correggere».
Sostiene che l’attuale impegno a Santa Cecilia, nel suo itinerario professionale, è arrivato come «una conferma del mio legame con la cultura musicale italiana, espresso nell’amore per la voce e la melodia che nutro da sempre».
Narra di essere stato impregnato in età tenerissima dall’ascolto delle canzoni napoletane: «I brani che hanno rappresentato l’avvio della mia relazione con la musica sono stati Core ‘ ngrato, Torna a Surriento , O’ soldato ‘ nnamurato … ».
Cullarsi nel suono dell’italiano, confessa, non smette di commuoverlo, e ancora non ci ha fatto l’abitudine. Gli sembra un miracolo questa lingua che «sa trasmettere al massimo le sfumature emotive, mentre l’inglese non è affatto sentimentale, è meno lirico e più concreto».
Pappano vive posseduto dal sacro fuoco del suo bellissimo mestiere, lavorando come un matto («venti ore al giorno!») tra concerti, opere, dischi e tournée. Coinvolge nel proprio ciclone d’energia l’Orchestra di Santa Cecilia: ha appena realizzato un trionfale tour europeo, e con la quale, nei giorni scorsi a Roma, ha registrato il disco di “Aida” riunendo un cast prodigioso di cantanti (i protagonisti sono Anja Harteros e Jonas Kaufmann).
L’autodisciplina, il rigore e la costanza degli obiettivi da perseguire senza cedi- menti derivano, per Tony, dall’esempio di operosità ricevuto dai genitori, che hanno affrontato un’esistenza da emigranti molto dura.
«Sono nato nel 1959 a Epping, nella contea di Essex, dove i miei erano i domestici di una ricca famiglia locale. In seguito ci trasferimmo nelle case popolari londinesi di Old Pye Street. Mio padre era cuoco, e ogni giorno dava pure lezioni di canto. Mia madre è stata segretaria e donna delle pulizie, ed è stata assunta in ristoranti e uffici. Avevano entrambi un’etica del lavoro fortissima e un senso del dovere che mi hanno condizionato molto».
A cinque anni Tony viene spedito per un anno dai nonni a Castelfranco, insieme al fratello, mentre i suoi restano a faticare in Inghilterra: «Tornato a Londra ero uno scugnizzo che non sapeva più l’inglese, ci ho messo un po’ a rientrarci dentro».
A sei anni comincia a studiare pianoforte, e a dieci accompagna al piano le classi di canto tenute dal padre. Nel ‘73 i Pappano vanno a stare a Bridgeport, negli Usa, «e lì mi prendevano in giro per il mio spiccato accento inglese».
Mentre prosegue gli studi musicali, Antonio si tuffa nella prassi, «suonando pezzi sacri nelle chiese ed eseguendo musiche d’intrattenimento nei cocktail-lounge». Poi viene ingaggiato come “allenatore” dei cantanti nella compagnia d’opera di Bridgeport, e da lì si sposta nei massimi teatri statunitensi ed europei, trasformandosi da “terrone” in glorioso cittadino del mondo.
Oggi dice di sentirsi «italiano, inglese e americano. Appartengo a tre Paesi e a nessuno, perché quando si viaggia molto e si lavora in posti diversi si diventa un po’ camaleonti». Ama del cosmopolitismo «la possibilità di riflettere nella musica il rapporto con le culture, cogliendone le caratteristiche sonore: m’interessa indagare il nesso tra musiche e suoni delle lingue. Forse, se non mi fossi dato alla direzione d’orchestra, mi sarei occupato di linguistica». Anche se la sua casa è a Londra, l’Italia sembra essere il suo territorio del cuore, e tra un giro del pianeta e l’altro, in estate, Pappano si diletta a ritrovare i paesaggi di Castelfranco in Miscano, dove onora con incontri musicali la memoria del papà Pasquale, scomparso una decina d’anni fa: «Mi piacciono quei panorami ruvidi e quella campagna bruciata e anti-Toscana, dominata dal giallo e dal bruno anziché dal verde».