Gay Talese, la Repubblica 7/3/2015, 7 marzo 2015
TRA I RAGAZZI DI PONTE PETTUS CHE FECERO LA STORIA D’AMERICA
La settimana scorsa, mentre nel centro di Selma ripercorrevo la strada imboccata cinquanta anni fa al seguito di centinaia di manifestanti che marciavano per i diritti civili lungo il ponte Edmund Pettus e un’autostrada interrotta da alcuni avvocati bianchi ostili che presto avrebbero dato luogo al “Bloody Sunday”, la mia attenzione è stata attratta da un uomo di mezza età, nero, impegnato con vigore a scavare con una pala buchi nel terreno tra il marciapiede e il cordolo di Broad Street che porta al ponte. L’uomo ha iniziato a piantare violette, azalee e piccoli cespugli di ginepro scaricati dal pianale di un camioncino Ford del 1997 parcheggiato nei dintorni e che appartiene alla Steavie’s Landscape Design and Construction company.
«Steavie non sono io» ha detto dopo aver notato che l’osservavo da un po’, per poi farmi avanti con quelle che deve aver pensato fossero domande sgradevoli. Gli agenti della sicurezza e altri uomini in abito scuro arrivati da fuori stavano perlustrando questa zona in attesa dell’arrivo quevamo. sto fine settimana del presidente Obama per il Bridge Crossing Jubilee. Ma il giardiniere probabilmente è giunto alla conclusione che devo essere troppo anziano per dargli seccature (io mi considero un giovanile ottantatreenne). Così si è rilassato e appoggiatosi alla pala mi ha teso la mano senza guanto e ha detto: «Sono il fratello di Steavie».
Mi ha spiegato che insieme ad alcuni suoi amici sta dando una mano a Steavie nell’impresa, sponsorizzata dal comune, di rendere più bello il centro di Selma. «Avevamo soltanto otto giorni a disposizione per questa missione » ha detto, ammettendo poi che piantare fiori e cespugli lungo i marciapiedi di questa cittadina dalle risorse alquanto limitate e con molte vetrine di negozi chiusi è troppo da chiedere a un’azienda di decorazioni paesaggistiche come quella di Steavie.
Durante la mia passeggiata lungo quattro isolati lungo la Broad Street dal municipio, giù dalla rampa del ponte, ho contato quindici negozi sfitti e vuoti.
Il fratello di Steavie ha 59 anni, è alto un metro e sessantacinque circa ed è nato a Selma. Indossa un cappellino blu da baseball e sulla visiera compare la scritta «Obama». Sotto la giacca di flanella scozzese indossa una felpa grigia con cappuccio, i blue jeans e stivali di cuoio marrone. Quando parla sfoggia un ampio sorriso che fa sembrare più lunghi i sottili baffi sul labbro superiore. «Mi chiamo Ricky Brown» dice infine, come preparandosi a parlarmi con sincerità. «Quando ci fu il Bloody Sunday avevo nove anni. Mia madre era troppo spaventata per permettermi di unirmi alla marcia, anche se mia sorella maggiore, che aveva 15 anni, ebbe il permesso di andarci. Quando i poliziotti e la gang dello sceriffo Jim Clark iniziarono a suonarle a tutti, vicino al ponte, io non sentii il baccano, perché vivevamo più in fondo, dietro i condomini Carver, dall’altra parte della Brown Chapel, dove King aveva fatto i suoi discorsi e da dove era partita la marcia. Più tardi, però, sentii mia sorella rientrare in casa di corsa. Urlava perché le avevano lanciato contro un lacrimogeno e la gang di Clark era arrivata di corsa nella nostra zona, picchiando tutti a destra e a manca con i manganelli, e colpendo tutti quelli che beccava. Io osservai la scena dal secondo piano, dove vive- Avevo una pistola ad aria compressa e presi la mira per colpire i cavalli. Sparai nove colpi, forse, e colpii parecchi cavalli nel culo. Mi trovavo in mezzo a due miei amici alla finestra, mentre sparavo, ma poi uno mi vide e si mise a urlare a un altro: “Ehi, quei ragazzini negri stanno sparando al mio cavallo con una pistola ad aria compressa”. “Qual è stato?” fece l’altro. “Non lo so, cazzo. I negri sembrano tutti uguali”».
Da lì è iniziato il lungo viaggio che ha portato Brown a Detroit, dove in un primo tempo ha trovato lavoro in una catena di montaggio della Chevrolet fino a quando l’amministrazione non ha deciso che i robot potevano svolgere il suo lavoro meglio, per poi occupare per molti anni la posizione di riparatore di tetti iscritto al sindacato. Adesso è tornato a Selma. «Spero che tutte queste piante che abbiamo messo qui intorno questa settimana rendano le cose più attraenti agli occhi della maggior parte dei visitatori che arriveranno come lei per il giubileo » ha detto.
Concordo: i miglioramenti aiutano. Ma gli dico anche che non sono un visitatore qui per il giubileo. Sono venuto a Selma decine di volte, fin dagli anni Cinquanta, durante il mio secondo anno di università come studente della facoltà di giornalismo all’Università dell’Alabama. Mi ci sono recato insieme ad altri giornalisti del New York Times nel 1965, per coprire gli eventi del Bloody Sunday e i suoi strascichi, per ascoltare bianchi furibondi sputare epiteti razzisti contro la televisione al Selma Country Club e bighellonare con lo sceriffo Clark nei pressi del suo appartamento sovrastante la prigione, dove contai ben 88 camicie sue, tutte taglia 17/34.
Sono tornato a Selma di nuovo nel 1990, per scrivere del 25esimo anniversario del Bloody Sunday e dell’approvazione del Voting Rights Act, con tanto di fumo proveniente da una macchina apposita, spruzzato lungo il ponte per simulare il gas lacrimogeno respirato nel 1965 dai dimostranti, e con tanto di registrazione su nastro di urla che evocavano le botte date dallo sceriffo Clark e dai suoi compari. E sono ritornato ancora altre volte in un posto dal quale, proprio come Ricky Brown, sembra che nessuno di noi possa andarsene per sempre.
Selma, appollaiata su un alto promontorio a picco sulla riva nord del Fiume Alabama, prende nome dalla Canzone di Selma di Ossian, che si dice fosse una traduzione del XVIII secolo di un ciclo epico di poesie scozzesi risalenti al Medio Evo, ma di fatto era un mix di leggende e folklore che invece è stato considerato una sorta di bluff letterario. Oggi si torna a parlare di Selma e ci si aspetta che abbia un peso più simbolico di quello che una piccola cittadina qualsiasi è in grado di sopportare.
Senza dubbio qui si è fatta la storia dei diritti civili. I diritti civili della storia americana. Ma io sono cresciuto a Ocean City, in New Jersey, una stazione balneare politicamente e socialmente conservatrice fondata durante l’Ottocento da pastori metodisti. Anche se nella mia cittadina natale gli studenti neri frequentavano la scuola insieme ai bianchi, si trattava per lo più di una comunità in buona parte emarginata. Nel Village Theatre, gli studenti neri e i neri di ogni età se ne stavano seduti per conto proprio in balconata, mentre i bianchi se ne stavano sotto, in platea. Ricordo di aver visto gruppi di appartenenti al Ku Klux Klan ricoperti da lenzuola bianche riunirsi ogni tanto nei nostri campi, a pochi isolati di distanza dal centro affari, dove mio padre, di origini italiane e cattolico, possedeva e dirigeva una sarto- ria. Quando nel 1949 entrai nel campus di soli bianchi dell’Università dell’Alabama, non vidi nulla di diverso da ciò che avevo visto durante l’infanzia trascorsa in New Jersey.
Nel giugno del 1963, in qualità di reporter del Times, intervistai a New York il governatore dell’Alabama, George C. Wallace, arrivato in città per prendere parte come ospite alla trasmissione “Meet the Press” su Nbc. Alloggiava in una grande suite del Pierre Hotel nella Fifth Avenue, dove si svolse la nostra chiacchierata. Per i primi dieci minuti l’intervista andò bene, poi però il governatore Wallace all’improvviso si alzò dalla sedia, mi prese per un braccio e mi portò verso una delle finestre che si affacciano su Central Park e sugli edifici eleganti e costosi che costeggiano la Fifth Avenue. Indicandomi la strada disse: «Eccola qui la roccaforte dell’ipocrisia in America». Dichiarò che la gente di colore, neppure quelle persone che avrebbero potuto permetterselo, non accetterebbe mai di condividere quegli spazi e quella zona con i bianchi, e neppure le aree circostanti, a causa della prassi ancora in vigore, seppure non apertamente riconosciute, di segregazione delle proprietà immobiliari a New York e in altre città del Nord. E poi, proseguì, «se ne vanno al Sud, e si lamentano, sproloquiano di parità di diritti!».
Citai le sue parole esatte nel quotidiano del giorno dopo, ma me ne andai dall’intervista senza riferire al governatore Wallace di aver abitato io stesso in un appartamento a pochi isolati di distanza dal Pierre e di non aver avuto, né di avere ancora oggi, un vicino afroamericano che vive nel mio stesso isolato.
Anche la storia di Selma nello stesso modo sfida i contorni netti della storia: nel 1990 presi parte a un matrimonio interrazziale tra una trentottenne bionda dagli occhi azzurri di nome Betty Ramsey e un cinquantunenne nero di Selma, di nome Randall Miller, proprietario di una prospera agenzia di pompe funebri utilizzata per lo più dai neri. Randall e Betty Miller vivono in una casa di mattoni di otto stanze e con un ampio patio circondata da quattro acri molto curati di terreno erboso, che assomiglia vagamente alla distesa di un campo da golf. In effetti Randall era solito giocare regolarmente a golf, ma non lo fa più a causa della sua agenzia di pompe funebri che gli richiede di lavorare molto, una delle poche attività che restano floride in un’economia depressa. Come si confà a qualsiasi ricco, a prescindere che sia bianco o nero, ammette con riluttanza di essere un milionario.
Randall è anche uno dei neri di Selma più mobili dal punto di vista sociale. È in buoni rapporti con politici del posto quali George P. Evans, il sindaco nero che ha sostituito il sindaco nero che ha sostituito Joe Smitherman, morto nel 2005. È in rapporti cordiali anche con alcuni personaggi di primo piano dell’establishment bianco come l’82enne Joseph Knight, il cui nonno fu sindaco di Selma durante la Guerra civile; con il banchiere Catesby Jones, possidente terriero, il cui bisnonno fu un famoso ufficiale navale dei confederati; con l’avvocato Leopold Blum Babin, che essendo ebreo deplora che così tanti commercianti ebrei di spicco abbiano lasciato Selma (la sinagoga locale a lungo è stata priva di un rabbino a tempo pieno); e con il presidente del Selma and Dallas County Center for Commerce, Wayne Vardaman, che auspica che la città riesca a migliorare la sua immagine, che appare ormai macchiata dagli eventi del 1965 per l’eternità.
«Memphis non celebra l’assassinio» del reverendo Martin Luther King Jr, dice Vardaman, «mentre Selma festeggia il Bloody Sunday ». È un ritornello già sentito in questo posto nel quale la gente vorrebbe andare avanti, ma spesso non sa in che modo. L’attuale sceriffo della Contea di Dallas, Harris Huffman, è un cordiale ufficiale bianco di 61 anni, con i capelli grigi e il pizzetto. Teme che troppi residenti, bianchi e neri, siano rimasti fermi al passato. «Io tratto le persone come mi piacerebbe essere trattato io» dice. Poi però aggiunge: «A Selma alcuni vivono ancora negli anni Sessanta, e ce ne sono altri che vivono addirittura nel 1860».
Anche se siamo nel 2015, può risultare difficile indovinare in che anno siamo. Il Selma Country Club, dove nel 1965 vidi alcuni soci sibilare contro la televisione, non ha nessun socio di colore. La scuola superiore di Selma, che in occasione del 25esimo anniversario contava circa un terzo di bianchi, oggi è frequentata esclusivamente da neri e altri studenti di colore. Fuori dalla porta dell’ufficio del preside, nell’atrio, c’è il manifesto del film «Selma», ma il Walton Theatre di Selma è chiuso.
Da quando il film ha mostrato molte riprese scenografiche dell’Edmund Pettus Bridge, alcune di sanguigno splendore, altre di serena tranquillità degna di una brochure turistica, la cittadina è stata invasa da masse di narcisi che con la macchina fotografica trascorrono molto tempo sul ponte per immortalarsi in un autoscatto. Di sicuro il loro numero aumenterà a dismisura questo fine settimana, quando il presidente e forse migliaia di visitatori in arrivo da fuori, neri e bianchi, riempiranno ogni centimetro quadrato di strada per avere una chance di rivivere la storia.
In verità, ciò che si può vedere a Selma, come nella maggior parte delle località in America, è un processo doloroso tuttora in corso. Il parafulmine più famoso di Selma è Rose Sanders, avvocatessa laureatasi a Harvard, che da tempo è il volto ufficiale del movimento dei diritti civili della sua città.
La maggior parte dei bianchi di Selma l’accusa di distruggere il sistema della scuola pubblica locale, di istigare i bianchi a frequentare le scuole private, a causa di una campagna da lei guidata negli anni Novanta che incluse dei sit-in di protesta nella Scuola superiore di Selma e il boicottaggio delle aziende di proprietà di bianchi dopo che il consiglio di amministrazione della scuola, a maggioranza bianco, si era rifiutato di riassumere il primo sovrintendente nero del distretto. Ne nacquero un dibattito e rancore tra i genitori degli studenti di entrambe le razze, e quei sentimenti negativi sono perdurati per decenni senza tregua alcuna.
«Non si può incolpare me del fatto che i bianchi se ne vadano» dice Ms. Sanders. «La colpa è dei razzisti ». Per ciò che la concerne, ha cercato di liberarsi del suo nome «da schiava», scegliendo quello di Faya Rose Touré, e da poco dedica molto del proprio tempo al pianoforte per aiutare un gruppo musicale di giovani afro-americani a prepararsi per un concerto che eseguiranno alla presenza del presidente Obama. È difficile guardare Selma e non augurarle qualcosa di più. La sua popolazione, che nel 1960 era di 28.400 abitanti, la metà dei quali nera, oggi è inferiore a 20mila e i neri sono l’80 per cento. Il tasso di disoccupazione qui è superiore al 10 per cento, ovvero il doppio della media dello stato. Da alcuni punti di vista, lo scenario del giubileo di quest’anno non potrebbe essere più cupo, tenuto conto che il Voting Rights Act è stato abrogato dopo una sentenza della Suprema corte degli Stati Uniti.
E nonostante tutto, la vita qui procede come sempre e ovunque, e va avanti e indietro. I Miller ripensano con stupore al mondo di anche solo 25 anni fa, quando Betty aveva la sensazione che nessuna donna l’avrebbe più accolta, nera o bianca che fosse, mentre Randall si è ritrovato a pensare a Emmett Till, «che è stato picchiato e gli è stato cavato un occhio, per lanciarlo poi nel fiume Tallahatchie». In qualche modo, malgrado tutto, se la sono cavata bene.
Dopo la nostra chiacchierata, facciamo un giro nel patio e nei terreni intorno alla loro proprietà. Dato che è disponibile un fotografo, ha scattato molte foto che spero di poter stampare e regalare loro come anniversario per le nozze d’argento.
In alcune di esse compare Randall che abbraccia Betty, e la bacia amabilmente. Per un attimo si ferma a riflettere e dice: «Sai, se cinquant’anni fa da queste parti avessi fatto una cosa del genere a una donna bianca, avrei potuto essere linciato».
©2015 The New York Times
(Traduzione di Anna Bissanti)