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 2015  marzo 07 Sabato calendario

SUL FRONTE DOVE NESSUNO CONTROLLA L’ESERCITO DI DISPERATI IN FUGA

La pioggia ha ripulito le strade di Tripoli. Adesso un vento fresco e veloce scuote chi passeggia fra le pozzanghere. Davanti agli occhi sventolano superstiti due bandiere italiane, una sul tetto dell’ambasciata, l’altra sul portone della bella palazzina bianca sul lungomare che fu. L’ambasciata è chiusa. Non c’è l’ambasciatore Buccino, in Italia dopo tre anni e mezzo in prima linea, non c’è la sicura segretaria, manca l’uomo dei servizi, scarpe grandi, calzini bianchi e cervello fino.
Ci sono i libici, l’Italia non c’è più. Per mesi abbiamo raccontato “siamo gli ultimi ad avere l’ambasciata aperta”, ma adesso? Come faremo a capire la Libia, a riconoscere il male in questa confusione, specialmente adesso che Frontex lancia l’allarme sul milione di profughi pronti a partire da queste coste? Da mesi in Libia ci sono due governi, e nessuno ha una vera legittimità. Non hanno un pieno controllo delle milizie e delle polizie. A Tripoli governa fra mille incapacità un premier, Omar Al Hassi, che è un professore universitario di Bengasi, perfettamente laico e presentabile, appoggiato dai Fratelli Musulmani, dalle milizie islamiche di Tripoli e dai laici della città più autonoma ed evoluta di Libia, Misurata. Dall’altra parte della Libia c’è il governo di Tobruk, appoggiato da un semi-parlamento riunito in un albergo e ormai tenuto in vita dall’Egitto, di cui è diventato il burattino. Il primo ministro è Al Thinni, ex premier a Tripoli, rieletto da quel parlamento uscito dalle elezioni del 24 giugno. Elezioni deboli (partecipò il 18% dei libici), in cui le milizie islamiche uscirono sottorappresentate rispetto al loro effettivo potere politico e militare. Quando capirono di essere in minoranza, gli islamici di Tripoli iniziarono a strangolare militarmente il gruppo di Al Thinni, costringendolo a fuggire a Tobruk per rifugiarsi sotto la protezione degli egiziani. Lì si è trovato praticamente agli ordini del generale Khalifa Haftar, un ex ufficiale gheddafiano, compagno d’armi del colonnello nel golpe del 1969. Haftar, che per 20 anni ha vissuto negli Usa protetto dalla Cia, nel febbraio del 2014 alla tv dichiarò un colpo di stato da operetta che all’inizio fece sorridere tutti. Poi si spostò a Tobruk, sotto la protezione degli egiziani: a Bengasi ha combattuto gli integralisti di Ansar Al Sharia devastando la città. Oggi l’ex gheddafiano è la testa di legno dei generali egiziani che da Est spingono per crearsi di fatto uno stato cuscinetto in Cirenaica (Tobruk e Bengasi) che sia anche uno sfogo economico per il paese. «Il risultato è chiaro», dice il misuratino Fathi Bashaagha, il deputato vice-presidente del Parlamento di Tobruk, che a Tobruk non ha mai potuto mettere piede essendo considerato un “nemico”: «L’Egitto con Haftar di fatto ha imprigionato il governo civile di Thinni, sta radicalizzando la situazione nell’Est perché i generali egiziani sperano di creare uno staterello satellite con dei militari che rispondono a loro e che controllino il petrolio e i commerci della Cirenaica». Con i suoi bombardamenti indiscriminati, Haftar per mesi ha mandato avanti un massacro senza tregua che ha ingrossato le fila della ribellione anti-egiziana, e quindi di fatto filo-jihadista. Claudia Gazzini, la ricercatrice italiana che vive in Libia e lavora per l’International Crisis Group, racconta che un giovane di Bengasi, un ragazzo perfettamente “laico” e moderno, ha chiesto permesso al padre di diventare martire, di farsi kamikaze per colpire i miliziani di Haftar che hanno ucciso giovani e donne nella loro guerra di devastazione.
L’Italia è tentata dal sostenere il progetto dell’Egitto. Qualcuno a Roma si illude di aver trovato il “liberatore” che faccia il lavoro sporco e blocchi l’immigrazione clandestina. «Noi siamo sorpresi », dice Suleiman Faghi, un altro deputato misuratino, «ma a Roma sanno benissimo che l’Egitto è incapace di stabilizzare la Libia, sanno benissimo che il 95 per cento dei libici, di qualsiasi colore, non accetteranno mai un’ingerenza egiziana in Libia: oggi stiamo provando a dialogare, ma saremmo pronti a combattere contro gli egiziani e i post-gheddafiani che loro stanno riportando nel paese». In effetti al Cairo il generale- presidente Sissi in questi mesi si è coccolato molti fra i vecchi capi del regime Gheddafi. Primo fra tutti Mohammed Ghaddafeddam, il cugino del colonnello, che in una tirata televisiva è arrivato addirittura a sostenere la legittimità dell’Isis contro il governo di Tripoli e la milizia di Misurata. «L’Egitto sta sostenendo un generale che è un ex gheddafiano, senza nessuna legittimità, capace di qualsiasi gioco sporco come strumentalizzare quelli dell’Isis per presentarsi come la soluzione, mentre invece loro sono solo un elemento di destabilizzazione paurosa», dice Faghi.
Per questo sia gli Usa che la Gran Bretagna hanno risposto di “no” a chi ha chiesto all’Onu di revocare l’embargo sulle armi soltanto alla milizia di Haftar. Anzi, l’Onu sta studiando l’unica proposta che sembra ragionevole: soffocare le capacità militari di tutte le milizie, imponendo anche un embargo navale. Un embargo che l’Italia dovrebbe accogliere con favore, perché ridurrebbe l’ingresso delle armi e anche quello dei migranti. I misuratini se lo aspettano: «È l’unica soluzione », dice il vice-presidente Bashaagha. «Noi per ora manteniamo i nostri arsenali, se ci attaccheranno da Est o da Ovest ci difenderemo. Ma sappiano bene che da soli non possiamo vincere, come nessuno può vincere: in Libia dobbiamo fare politica».