Adam Nicolson, National Geographic 3/2015, 6 marzo 2015
DUE CITTÀ, DUE MONDI
BERLINO E ATENE POTREBBERO RAPPRESENTARE I DUE ESTREMI DELL’EUROPA: una ricca, nordica, grigia, senza sbocchi sul mare. L’altra affacciata sull’Egeo, con bouganville nei giardini e alberi d’arancio nelle strade.
In realtà nessuna delle due corrisponde del tutto alla propria immagine. La città tedesca è animata dallo spirito di libertà del postcomunismo e gode della fama di turbolenta capitale europea della musica dance, mentre l’antica metropoli greca, immersa nella luce dell’Egeo, non è ancora uscita dalla grave crisi dell’euro degli ultimi anni, né ha risolto i problemi che l’hanno fatta precipitare in questa condizione. A Berlino quindi splende il sole, mentre su Atene incombono ancora molte nubi di apprensione.
Di fatto, per molti versi le due capitali sono l’opposto di ciò che ci si aspetterebbe: Atene è nervosa, immobile, con una visione del futuro a dir poco nebulosa, mentre Berlino è rilassata, forse la più aperta e permeabile delle città europee, preoccupata casomai dei problemi legati al successo e pressoché indifferente a ciò che le può riservare il futuro.
Ma queste due città, l’alfa e l’omega dell’Europa moderna, sono legate da un destino comune. Il grande progetto dell’Unione Europea, concepito per correggere gli orrori e i danni della Seconda guerra mondiale e dell’Olocausto hitleriano e per unificare il continente, ha richiesto sei decenni di piccoli passi verso l’integrazione e l’allargamento. Ma i 19 paesi che oggi appartengono all’eurozona non sono bene assortiti. Pur condividendo la stessa moneta, ogni nazione ha sistemi fiscali e di gestione della finanza pubblica diversi.
Ad Atene i problemi del presente sembrano terribilmente impellenti. Amalia Zepou, antropologa e cineasta che ha dato uno scossone alla scena politica diventando vice sindaco, parla di «totale disillusione nei confronti del sistema politico nel suo complesso, un senso di impotenza davanti al fatto che le decisioni vengono prese in un contesto lontanissimo da quello in cui si vive. Perché la gente dovrebbe andare a votare? Per che cosa?».
Ad Atene la manipolazione elettorale è ancora una consuetudine. I candidati alle cariche municipali o parlamentari possono vincere soltanto accordandosi con i leader dei gruppi di interesse che controllano i voti. Si stipulano patti. I sacerdoti offrono le loro congregazioni. Gli uomini che controllano i mercati pubblici raccolgono i voti dei titolari delle bancarelle. Spesso sulle schede elettorali il nome del candidato è già barrato. «Se mi opponessi al sistema», mi ha confidato una candidata alle elezioni locali della primavera del 2014, «mi direbbero: “Ragazza mia, cresci, qui le cose funzionano così”».
«In Grecia funziona così da sempre», spiega Zepou. «È il sistema della famiglia di paese e ha anche un aspetto molto umano. In Grecia la regola è conoscere qualcuno, perché arriva sempre il momento in cui si ha bisogno e quel qualcuno ti aiuterà a risolvere i tuoi problemi».
Dietro tutte le storie di crisi e corruzione, dietro l’alto tasso di evasione fiscale, dietro i medici scoperti a truffare il sistema sanitario nazionale, c’è un elemento che rimanda a questa rete di rapporti personali, al fatto di credere di più nel contatto umano che nella correttezza di un’istituzione. I greci non hanno molta fiducia nella capacità della burocrazia di comportarsi equamente.
«A Berlino», dice il poeta e giornalista Kostas Kanavouris, continuando a fumare mentre chiacchieriamo in un bar di Atene, «tutti si sentono berlinesi, a prescindere da chi siano, da dove vengano o da quanto tempo ci vivano. Ad Atene è difficile che accada. Questa è la differenza. I berlinesi provano un senso di appartenenza. Ad Atene tutti pensano al villaggio in cui sono nati e a come sopravvivere in una città in cui non si sentono veramente a casa». Due poli opposti: da una parte la città delle istituzioni che accoglie tutti, dall’altra la città delle conoscenze personali nelle cui strade serpeggia l’insicurezza.
LA CRISI ECONOMICA mondiale iniziata nel 2008 ha messo in luce le naturali spaccature del continente europeo, le profonde differenze economiche e culturali tra nord e sud. I tedeschi, che guadagnano in media il 50 per cento in più dei greci e hanno un prodotto interno lordo dieci volte maggiore, hanno assunto inevitabilmente il ruolo di leader, mentre in Grecia la crisi ha portato in superficie problemi che covavano da decenni.
Con lenta ineluttabilità il castello di carte ha cominciato a crollare. Nel 2009 Atene ha rivelato che il deficit annuo non corrispondeva al 6,7 per cento del PIL come dichiarato dal governo uscente, ma all’incirca al 12,5 per cento, con un debito pubblico che ammontava a 300 miliardi di euro. Il sistema di credito greco è imploso, con una conseguente fuga di capitali che sono finiti in gran parte nelle più sicure casse tedesche. Il governo greco ha ottenuto dunque i più imponenti prestiti della storia: 110 miliardi di euro nel maggio 2010 e 130 miliardi di euro nel marzo 2012. Ma le condizioni imposte erano durissime. I greci dovevano cambiare il loro stile di vita, tagliare le spese, aumentare le tasse e farle pagare, ridimensionare in modo netto il sistema pensionistico, amministrare con maggior rigore – in Grecia non si conosce ancora il numero esatto dei dipendenti statali – e accettare la supervisione della troika, composta dal Fondo monetario internazionale, dalla Banca centrale europea e dalla Commissione Europea, in cui Berlino fa la parte del leone.
A livello sociale, i greci hanno pagato un prezzo altissimo: la disoccupazione è balzata al 27 per cento ed è rimasta pressoché inalterata da allora. Ad Atene il tasso di disoccupazione dei giovani tra i 15 e i 24 anni è arrivato a sfiorare il 62 per cento. Negli ultimi sei anni l’economia greca si è contratta del 30 per cento. La capitale è stata teatro di violente proteste. Sono aumentate le violenze contro gli immigrati. Al momento pare che il peggio sia passato, ma non stupisce che nella città si respiri ancora un clima di preoccupazione ed esasperazione.
Parlando con i maggiori intellettuali di Atene e di Berlino si scopre che il confronto tra le due città è ben più complesso di quanto si possa immaginare. In nessun altro posto al mondo gli esempi di arroganti ambizioni politiche, tirannia, repressione, divisioni e fallimenti sono evidenti come a Berlino. Basta camminare per le sue strade per rievocare, quasi a ogni angolo, la storia dell’Ottocento e del Novecento. In questa città, che era un vero nodo del potere, le lezioni della storia sono incise nella geografia urbana, nel grande aeroporto nazista a Tempelhof, nei muri ancora crivellati di proiettili della Museuminsel, l’isola dei musei, nei frammenti del Muro che inevitabilmente compaiono qui e là. Se tentate di dominare, soffrirete. Se volete distruggere, sarete distrutti. Se volete diventare il centro del mondo, la vostra città sarà sfigurata e divisa.
Wolfgang Thierse, ex presidente del Parlamento tedesco, tra le voci più ispirate della riunificazione della città dopo il 1989, ribadisce: «I tedeschi e la loro capitale sono ancora influenzati dal passato e non sono pronti a considerarsi una potenza. Più di altre capitali, Berlino porta i segni delle tragedie del Novecento. Ma non vogliamo nasconderci o fuggire dalla nostra storia, vogliamo farci i conti».
«Berlino si reinventa continuamente», aggiunge Richard Meng, portavoce del senato della città. «Dopo il 1989 ci sono voluti altri dieci anni per trovare la nostra strada». L’identità a cui si è arrivati è stata, per citare le parole di Meng, quella di «una città aperta che accoglie la comunità internazionale e fa sì che i giovani possano vivere ed esprimersi liberamente». Vale a dire, l’opposto dell’immagine di Berlino del passato, quando era una vetrina del potere. Oggi l’elemento centrale del Dna di Berlino non è più l’autorità, bensì l’opportunità.
Ma c’è un piccolo problema. A causa della mancanza di industrie e grandi aziende la base imponibile di Berlino era, e rimane, inadeguata. Ancora oggi Berlino ha un debito di 62,75 miliardi di euro e si troverebbe a gestire un disavanzo di bilancio annuale del 20,7 per cento se non fosse per il sostegno finanziario di altri Stati tedeschi e del governo federale. Senza l’aiuto del resto della Germania, Berlino andrebbe in fallimento. Il deficit annuo si sta riducendo e si incoraggia la nascita di nuove aziende, ma sembra ci sia poca urgenza, a Berlino perlomeno, di tamponare il buco. Una sorta di piacevole noncuranza governa la visione del futuro di una città che, stando alle parole dell’ex sindaco, è «povera ma sexy».
Questa profonda trasformazione di Berlino da grande e travagliata città di potere a emblema di libertà è un po’ l’opposto di ciò che è accaduto ad Atene. Secondo Vassilis Papadimitriou – addetto stampa di George Papandreou, primo ministro durante gli anni peggiori della crisi, dal 2009 al 2011 – quando la Grecia è entrata nell’Unione Europea nel 1981 si è sentita «come una nave che arriva finalmente in porto». In quel momento i greci, che fino ad allora erano stati isolati dalla presenza del blocco sovietico a nord, impegnati in un’insostenibile corsa agli armamenti con la Turchia a est e irrimediabilmente poveri, «hanno pensato per la prima volta che sarebbero stati trattati come parte integrante dell’Europa».
L’ingresso nel club europeo ha inaugurato un lungo periodo di ottimismo, sovvenzioni e crescita della città, culminato nell’organizzazione delle Olimpiadi del 2004 e nella costruzione del nuovo straordinario museo dell’Acropoli, che poteva dimostrare al mondo quanto moderna e sofisticata fosse diventata la Grecia.
Per Elli Papakonstantinou, direttrice di un teatro sperimentale nel sobborgo industriale abbandonato di Elaionas, la crisi dell’euro è stata «un momento di colpa condivisa da tutti, in cui ci siamo sentiti in qualche modo responsabili delle cose negative che ci stavano accadendo». Un colpo durissimo all’autostima nazionale. Secondo Papadimitriou è stata la «conferma della peggiore paura dei greci, e cioè di non fare realmente parte dell’Europa tutto sommato».
Le sofferenze sociali e personali causate dal regime di austerità seguito alla crisi non sono ancora finite. Ermina Kontaratos, che si prende cura della figlia adolescente colpita da una grave disabilità, si torce le mani disperata per la battaglia che deve affrontare ogni giorno per ottenere un aiuto dall’assistenza pubblica. Da giugno del 2013 non prende alcun sussidio. Prima di quella data riceveva 1.000 euro ogni due mesi. Poi c’è stato lo sciopero dei medici. Poi è stata mandata dai medici sbagliati, che l’hanno liquidata senza troppe parole, e poi da altri in uffici lontani, burocraticamente impenetrabili, quasi impossibili da raggiungere con i mezzi pubblici. Ermina non ha l’automobile. «I funzionari lavorano nel caos completo. Non sanno neanche ciò che fanno».
Dopo la morte del padre, avvenuta cinque anni fa, la figlia di Ermina prendeva una pensione di meno di 200 euro al mese. Adesso anche quella è stata bloccata. Come faranno a vivere? «Continuerò a pregare», dice Ermina. «Mio figlio mi porta un po’ di pesce, ho un orto e qualche gallina. In fondo sto meglio di molti altri. Ho anche alcuni ulivi».
Come per effetto di un movimento tellurico, la classe media greca è precipitata in uno stato di povertà. Gli anziani vanno a vivere con le famiglie; i giovani lasciano la città e ritornano nei villaggi d’origine. Molte famiglie non hanno più il denaro necessario per pagare gli insegnanti privati che hanno sempre fatto parte del sistema educativo greco. La popolazione di Atene è diminuita drasticamente; i dati del censimento del 2011 davano per vuoto quasi un terzo degli appartamenti in città. In alcune zone della capitale i prezzi degli immobili sono calati più del 40 per cento. Malgrado il battage pubblicitario che accompagna l’apertura di nuovi locali a Kerameikos o le attività della fiorente scena artistica, la crisi resta un fenomeno tangibile e diffuso.
Le strade tutt’intorno al Polytechnion, l’ateneo più radicale e anarchico di Atene, sono coperte di graffiti e slogan – “Mangiamo i ricchi”, “Uccidiamo il passato”, “Bruciamo le cellule” – e un terzo delle boutique delle più eleganti strade dello shopping a Kolonaki è vuoto. I poliziotti, con indumenti protettivi di gomma, giubbotti antitaglio e lunghi manganelli, aspettano ancora in piccoli gruppi fuori dai bar di quella che in modo non ufficiale è stata ribattezzata via Alexandros Grigoropoulos, dal nome del quindicenne ucciso da un agente durante uno scontro il 6 dicembre 2008.
In alcune zone della città le tensioni sociali ed economiche alimentano la xenofobia. Ho parlato con il presidente dell’associazione dei residenti di Aghios Panteleimon, uno dei quartieri in cui il gruppo neofascista Alba Dorata raccoglie maggiori consensi. L’uomo mi ha portato a vedere ciò che resta di una moschea improvvisata distrutta da un incendio nel 2011. «C’è qualcosa di più disgustoso di 70 paia di scarpe sistemate sul marciapiede davanti a una moschea?», dice. «Per forza è stata bruciata». Secondo lui Atene può consentire che si costruisca una moschea, ma nessuno accetterebbe un minareto. «Ci ricorda la vergogna ottomana», i secoli prima dell’indipendenza, quando Atene era una città come tante altre dell’impero turco.
ORA I GIORNI DELLA RABBIA sembrano finiti. La primavera scorsa la manifestazione più violenta ad Atene è stato il sit-in di protesta organizzato dagli addetti alle pulizie del ministero delle finanze, che sono rimasti a fumare e chiacchierare per una mattina in una strada vicino alla sede del dicastero. Qui e là si notano anche segnali di ottimismo commerciale. Start-up digitali come Taxibeat – “Diventa un tassista del XXI secolo. Il tuo smartphone può diventare la tua nuova fonte di reddito” – raccolgono milioni di euro di investimenti, e i siti di commercio elettronico di ogni genere si moltiplicano. Gli artisti di strada hanno iniziato a vendere le loro opere ai collezionisti internazionali; Un uomo chiamato Cacao Rocks ha affisso un adesivo a uno dei graffiti che aveva disegnato sul muro di una fabbrica abbandonata a Psiri: “Se vuoi comprare un mio lavoro mi trovi alla galleria, al 12 di questa stessa strada”.
Ad Atene si moltiplicano anche le piccole associazioni che cercano soluzioni ai problemi locali, che ripuliscono le strade, piantano alberi nei lotti abbandonati, dipingono i parchi dei bambini, offrono agli ateniesi visite guidate in zone della città che non conoscono, affiggono cartelli che ne raccontano la storia sui muri degli edifici, decorano con lo yarn bombing (una forma di street-art realizzata con filati) gli alberi di piazza Kolokotroni per rendere omaggio alla loro bellezza.
L’uso temporaneo di spazi urbani degradati o abbandonati è un fenomeno globale. È diffuso anche a Berlino, ma azioni apparentemente identiche assumono un significato diverso a seconda del luogo. Ad Atene il nemico da combattere è il senso di fallimento e disillusione. A Berlino si combatte contro la minaccia opposta, il rischio che tanto successo inizi a erodere le famose libertà che caratterizzano la città. Nella capitale tedesca si organizzano manifestazioni per protestare contro la costruzione di nuovi edifici residenziali. In quartieri come Kreuzberg e ancor più Mitte, che all’indomani della caduta del Muro erano pieni di case occupate e centri d’arte, il nuovo problema sono i soldi. La forza del denaro, l’invasione dei nuovi capitali attratti dall’immagine alla moda di Berlino e destinati alla gentrificazione, minaccia di alterare il prezioso e unico tessuto sociale inclusivo della città.
LA RISPOSTA BERLINESE al fallimento è questa: solo attraverso l’integrazione e la partecipazione, con una nuova forma di vicinanza, la città moderna può sperare di restare a misura d’uomo. È un messaggio che risuona ovunque a Berlino. Dal 2009 Marco Clausen, esperto di storia sociale, e Robert Shaw, cineasta, gestiscono un giardino urbano aperto a tutti, il Prinzessinengarten, nel centro di Berlino, realizzato sul sito dove sorgeva un grande magazzino bombardato durante la guerra e mai ricostruito. A chi obietta che l’orto di 0,6 ettari non sia poi così produttivo, Clausen ribatte: «Non è questo che ci interessa. Qui si producono scambi sociali, si crea un quartiere». A suo dire l’orto è «il simbolo di molte cose che la gente desidera».
Per molti la cultura berlinese, che affonda le radici nelle case occupate a Berlino Ovest prima del 1989, oggi è minacciata. «Che cosa diventerà questa città se continuiamo a vendere al migliore offerente?», domanda Clausen. «Una città non è fatta da urbanisti e architetti; è fatta dalla sua cultura e dai rapporti quotidiani fra le persone». È una visione elevata di come dovrebbe essere una bella città: non lasciamo che il denaro e il potere prendano il sopravvento, non lasciamo che il cemento si sostituisca all’umanità. Può sembrare paradossale, ma Clausen esprime esattamente l’ideale di rapporti e contatti umani che è alla base della cultura greca e che si è dimostrato così difficile da integrare nei sistemi di uno Stato moderno. È possibile conciliare i rapporti umani con un’economia pan-europea?
Wolfgang Thierse, politico che da decenni è coinvolto nella creazione della nuova Germania, riconosce che «uno degli aspetti più affascinanti di Berlino stava nel suo essere incompleta. Cerano molti spazi vuoti e un caos tremendo. Ma il fascino della confusione sta svanendo». Secondo Thierse, il 90 per cento dei residenti di Prenzlauer Berg, il quartiere in cui abita, si è trasferito lì negli ultimi 25 anni. «Questo significa che un numero analogo di persone è andato via. La gentrificazione è un fenomeno degli ultimi dieci anni ed è un’esperienza dolorosa», afferma. «La gente si aspetta che la città ponga un freno al processo, proprio per renderlo meno doloroso». Il grande successo conseguito dalla Germania dal 1945 a oggi è un prodotto di quello che i tedeschi definiscono “capitalismo con una dimensione sociale”.
Una giovane madre che ho conosciuto a Kreuzberg – non mi ha voluto dire il suo nome – mi parlava dei ricchi che parcheggiano accanto al palazzo in cui vive. «Non hanno bisogno di scuole», diceva. «Vogliono soltanto parcheggi».
Per sfuggire alle pressioni della modernità, Berlino deve trovare il modo di mantenere integro il proprio tessuto sociale inclusivo. Il modello londinese (un mercato immobiliare libero ma distruttivo) o quello parigino (un centro bianco super chic circondato da periferie povere e problematiche abitate da immigrati) devono essere evitati a ogni costo.
E sta proprio qui il paradosso. Berlino prospera grazie all’attenta organizzazione di una città apparentemente libera. Atene soffre per i limiti e i dubbi di una cultura che, al livello più profondo, dubita dell’autorità delle istituzioni e le indebolisce continuamente. Queste città fronteggiano due interrogativi: in che modo resistere all’influenza sempre maggiore del mercato? E come creare istituzioni in cui la gente possa credere? Per ora, non sembrano esserci risposte in vista.