Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  marzo 01 Domenica calendario

’O ANIMALE, IL CUORE MANGIATO E IL BOSS CUTOLO

Pasquale Barra, il camorrista pentito morto ieri a 72 anni nel carcere di Ferrara dove stava scontando un meritato ergastolo per almeno 67 omicidi, era famoso per due circostanze sostanzialmente inesatte: il soprannome ‘o animale’, che gli diede il giornalista Giuseppe Marrazzo e che comunque gli calzava a pennello per la crudeltà con cui infieriva sui corpi delle vittime, e il marchio di essere il grande accusatore di Enzo Tortora. Barra, in verità, era soprannominato ‘o studente’. E non per la sua subalternità a Raffaele Cutolo, ‘o professore’, del quale fu a lungo il braccio destro. Ma perché era analfabeta e in carcere aveva frequentato i corsi per imparare a leggere e scrivere, essendosi – pare – innamorato di una maestra.
Inoltre il ruolo di Barra nella vicenda Tortora fu gregario: nei primi 17 interrogatori non disse una parola sul presentatore televisivo e iniziò a parlarne solo nel diciottesimo, confermando accuse riferite da Giovanni Pandico. Barra poi si rifiutò di ribadirle nei processi, e anche di questo si fa cenno nelle motivazioni dell’assoluzione di Tortora.
Le ragioni della fama di Barra sono evidenti nel cult movie trasmesso spesso sulle tv campane, Il Camorrista, l’opera prima di Giuseppe Tornatore, la biografia romanzata e coi nomi di fantasia di Raffaele Cutolo, sceneggiata nel 1986 sulla traccia del libro di Giuseppe Marrazzo . C’è una scena che tutti ricordano: Gaetano Zarra che uccide in cella un boss della mala milanese, Frank Titas, lo squarta, ne divora il cuore. È accaduto davvero, Pasquale Barra nella realtà ammazzò così Francis Turatello nel carcere Badu ’e Carros di Nuoro il 17 agosto 1981 e quell’episodio fu anche la causa della sua dissociazione dalla Nuova Camorra Organizzata. Barra iniziò a collaborare coi magistrati perché si sentì tradito da Cutolo, che pressato dai pezzi di mafia siciliana alleati di Turatello, fece sapere di non essere il mandante del delitto.
Terrorizzato dalla vendetta dei cutoliani, Barra iniziò a vuotare il sacco sull’organizzazione della Nco ma chiese e ottenne di essere trasferito in un luogo protetto. Fu portato nella caserma Pastrengo, il comando provinciale dei carabinieri di Napoli. Ma nemmeno lì si sentiva al sicuro, urlava appena individuava un volto non familiare nei corridoi. Trascorse in caserma i mesi precedenti al blitz del 17 giugno 1983, gli 850 arresti di camorra effettuati grazie alle sue dichiarazioni e a quelle di Pandico e di Gianni Melluso. A Napoli non esisteva un luogo abbastanza ampio per processare questa folla, gli imputati furono divisi in tre dibattimenti, affidati ai pm Diego Marmo, Federico Cafiero de Raho e Fausto Zuccarelli. Ne uscirono inevitabilmente sentenze contraddittorie, coi pentiti ritenuti attendibili nelle condanne di un troncone e inaffidabili nelle assoluzioni di un altro troncone.
Un altro soprannome di Barra era “il boia delle carceri”. Oltre all’omicidio Turatello, partecipò a numerosi altri delitti nei penitenziari, tra i quali i sei omicidi compiuti a Poggioreale durante il terremoto del 23 novembre 1980 e durante “la scossa di San Valentino” del 14 febbraio 1981, quando le celle vennero aperte per il panico. Durante i processi vennero a galla dettagli efferati: alcune delle vittime furono letteralmente ‘impalate’. In un’udienza del novembre ‘83 per l’assassinio di un detenuto a Campobasso, Barra rivelò la tecnica utilizzata per provare a mascherare come suicidio un omicidio in carcere: immobilizzare l’uomo e provocargli forzatamente un orgasmo prima di impiccarlo. Al giudice allibito, ‘o animale’ spiegò che nella morte per impiccagione avviene un’erezione e un rilascio dei fluidi. Una giornalista ebbe un malore.