Gabriele Romagnoli, la Repubblica 1/3/2015, 1 marzo 2015
SETTE MILIONI A HONG KONG E NESSUNO SI SENTE A CASA
Nel mondo ci sono tante Banana Republic. Non è un giudizio politico, né il riferimento a una catena di negozi di abbigliamento. Piuttosto a una vecchia canzone di Lucio Dalla e Francesco De Gregori: «Gli americani che espatriano si ritrovano tutti quaggiù, alle spalle una storia improbabile, un amore che non vale più. E spendono più di una lacrima su un bicchiere di vino e di rum. E piangendo gli viene da ridere, ballo anch’io se balli tu». Là si parlava di un “paese dei Tropici”, ma la perfetta fotografia di quel luogo è a Hong Kong. Bisogna entrare in un centro commerciale “in precedenza noto come Prince”, prendere un ascensore, salire al piano del Sevva Bar, attraversarlo e arrivare alla terrazza che si affaccia sulla baia.
Il tempo ha ridotto il senso della parola “altrove”. Guardi e vedi le insegne delle stesse multinazionali, le stesse banche. Il palazzo della HSBC l’ha disegnato Norman Foster. Lui, Jean Nouvel, Frank Gehry, sono la firma in calce ai nuovi panorami del pianeta. Più che la fine della storia, siamo a quella dell’architettura: al pensiero unico verticale. Lungo il percorso si è passati davanti: alle illustrazioni di Gladys Perint Palmer, nata a Budapest, formata a Londra, residente in California; ai dipinti di Vik Muniz “rockstar dell’arte contemporanea”, nato a San Paolo del Brasile e ora a New York; alle fotografie d’interni italiani scattati dalla tedesca Candida Höfer.
Le voci che si levano e si confondono parlano quasi esclusivamente inglese, ma è lingua matrigna. In una qualunque serata l’ho ascoltata sulle labbra di un’agente letteraria polacca, della sua protetta (una vj e scrittrice cinese), di un fotografo francese, di una ex modella italiana e del suo marito spagnolo, di una giornalista free lance israeliana e di un tizio olandese che lavorava in Asia per conto del Guinness dei Primati ed era in partenza per Singapore dove tre studenti cercavano di riconquistare il record dell’sms più veloce (il testo è lo stesso per tutti, in inglese: parla dei piranha).
Li chiamano “espatriati”, ex-pat nel loro “esperanto”. Se ne sono andati dalla patria sulle ali di uno slogan pubblicitario che diceva: «Non importa tu sappia da cosa stai scappando per diventare un fuggitivo». Un tempo erano ricercati, ora vorrebbero tanto trovarsi. L’ambiguo pescatore di aragoste francese che incontrai in un’isola di Los Roques, Venezuela, aveva cicatrici sulla pelle. Questo controllore di record: qualche eczema curato dalla stessa specialista che si dedica alle sue ferite nell’anima. Al netto delle razze in estinzione, diplomatici, corrieri, spie, corrispondenti esteri (quattro professioni spesso riconducibili alla stessa persona), non hanno redditi fissi. All’apparenza li muove la cometa del vantaggio economico: essere pagati in valuta forte e spendere in valuta debole, avere introiti alti e tasse basse. Per questo molti si sono fatti un giro in Medio Oriente, prima di arrivare qui. Dove comunque l’aliquota più alta (e devi avere sei zeri per raggiungerla) è del 17%. Niente capital gain, nessun prelievo legato alle proprietà. È questo a condurli sulla terrazza davanti alla baia con l’ennesimo bicchiere in mano? Osservando la specie, un entomologo americano disse: «Vanno a caccia di stili di vita». È vero, in parte: forniscono spunti alle guide raffinate e alle pagine patinate, si abituano ad ottenere sempre di più avendo sempre meno, praticano un nomadismo confortevole e sanno come smontare una casa e trasferire una residenza in 48 ore. Ma sarebbe sbagliato pensare che inseguano un’esistenza ideale, o anche soltanto più facile: stanno semplicemente prendendo le distanze. Dalla propria madre, dalla propria nazione, dalla propria lingua (perché fare psicoterapia in un’altra riduce il dolore). Se incontri un inglese che detesta Cameron e Farage sulla terrazza del Sevva e gli chiedi «Meglio i despoti di Pechino?», ti guarderà pensando che non hai capito. Tu puoi sederti a tavola con i genitori pazzerelli di qualcun altro, e divertirti perfino. Se sono i tuoi, ti vergogni.
Un espatriato è un espiantato: non sente più il cuore battere dove sta. Vive secondo un’equazione le cui variabili sono: moneta, fisco, avventura, rilevanza contemporanea. Perché Hong Kong allora, se in altri luoghi la soluzione è più facile? Perché questa è la cavità dell’impianto, la sede vacante. Un Paese, due sistemi. Colonialismo inglese, giapponese, in fondo pure cinese. Sette milioni di persone in poco più di mille chilometri quadrati, nessuno che si senta a casa. Porto di transito per merci, soldi e persone. A Hong Kong non ci emigri, ci passi. Una fase della vita. Che cosa ci impari? Se sai ascoltare, non solo comprare: ogni genere di cosa, da chiunque. Bonnae Gokson, che gestisce il Savva ed è considerata una regina delle torte e della vita mondana, quindi una icona della superficialità, spegne le luci e dice: «Il lusso non è avere una borsa griffata, il lusso è avere tempo».