Stefano Cingolani, Panorama 5/3/2015, 5 marzo 2015
GOVERNO A ZIG ZAG TRA STATO E MERCATO
Nei giorni pari fa come Ronald Reagan: spezza la schiena ai sindacati, apre le porte agli sceicchi e vuole invadere la Libia in nome della libertà e della sicurezza nazionale. Nei giorni dispari imita Amintore Fanfani: rilancia le partecipazioni statali, nazionalizza banche, espropria acciaierie, detta legge su telefoni e televisioni. Sarà che ha un io diviso, ma Matteo Renzi procede a zig zag, due bussole opposte a seconda delle convenienze politiche.
Prima di tirar giù dalla soffitta il vecchio armamentario, il capo del governo deve aver riletto la sua tesi di laurea su Giorgio La Pira, l’ex sindaco di Firenze precettore spirituale dello statalismo democristiano. In dicembre viene nazionalizzata l’Ilva. I Riva fanno ricorso? Se la vedranno i tribunali. L’acciaieria non produce abbastanza se non cambiano i limiti ambientali troppo rigidi? Intanto, i sindacati stanno buoni. Poi arriva il Monte dei Paschi che non è in grado di restituire i Monti bond, ebbene il Tesoro diventa azionista di riferimento e i senesi la smettono di piagnucolare.
Non solo. Tra la bad bank che assorbe i crediti irrecuperabili facendo pagare i contribuenti, il fondo di salvataggio per le imprese con i quattrini pubblici, la Cassa depositi e prestiti tirata in ballo come un’altra Iri, torna in auge persino lo stato barelliere. Ma è il grande circo delle telecomunicazioni a ospitare le piroette più azzardate. Il Renzi liberista mette sul mercato la società della Rai che possiede i trasmettitori. Si fa avanti Mediaset con Ei Towers, e apriti cielo. Il partito Rai insorge. Il governo smentisce se stesso. «Su Ray Way una operazione di mercato; ma il 51 per cento resta pubblico», proclama il presidente del Consiglio. È un’evidente contraddizione che diventa insanabile nel pasticcio banda larga. L’Italia è rimasta indietro nell’agenda digitale, si trova poco sopra la Bulgaria e la Romania. Il governo, quindi, deve accelerare e fa balenare un piano che impone per decreto il passaggio alla fibra ottica entro il 2030, obbligando gli utenti a stipulare entro un anno i nuovi contratti. Ciò mette in difficoltà Telecom Italia, monopolista della rete che difende i propri doppini di rame potenziandone la capacità di trasmissione.
Un dirigismo così smaccato provoca una levata di scudi, anche perché sorge il sospetto di un secondo fine: costringere Telecom a riaprire le trattative con la Cassa depositi e prestiti per entrare in Metroweb, l’unica società che possiede una buona cablatura soprattutto a Milano. Il dossier è stato istruito dal vice sottosegretario alla presidenza del Consiglio Raffaele Tiscar il quale da tempo vuole creare un soggetto unico per la rete sotto l’ala della Cassa depositi e prestiti presieduta da Franco Bassanini. Telecom Italia ha stoppato il decreto «in stile Gosplan», ma Renzi cova la rivincita. In borsa si parla di un interesse di Orange, la ex France Télécom, il cui principale azionista è il Fondo strategico d’investimenti che fa capo allo Stato. L’operazione coinvolgerebbe Vincent Bolloré, azionista di Telecom con Vivendi. Palazzo Chigi accende i riflettori.
Tutte le carte, ora, sono sul tavolo di Andrea Guerra, l’ex amministratore delegato di Luxottica il cui compito è pelare le patate bollenti. Chissà se finirà nelle sue mani la ricaduta politica di un’operazione del tutto privata, come l’interesse di Mondadori per la Rcs libri. Torri metalliche senza appeal sono diventate bandiere ideologiche, figuriamoci le due principali case editrici italiane. Guidano il «sussulto morale» contro la concentrazione Umberto Eco e La Repubblica di Carlo De Benedetti che ha un potere di condizionamento rilevante.
Il risveglio del Leviatano, dunque, non segue una strategia di lungo periodo. Ma intanto oscura la facciata liberista il cui segno più eclatante è il Jobs act. Il totem dell’articolo 18 è caduto. La Cgil di Susanna Camusso è sconfitta, la Fiom di Maurizio Landini è emarginata al punto da cedere alla tentazione di farsi partito. La minoranza del Pd è con le spalle al muro.
La svolta risale all’incontro con Mario Draghi martedì 12 agosto 2014, nella casa di vacanza che il presidente della Bce possiede in Umbria vicino a Città della Pieve. Doveva essere segreto, ma Renzi arriva in elicottero. Due giorni dopo, si reca «nella quiete di Castel Porziano» per vedere Giorgio Napolitano pronto a lasciare il Quirinale non senza essersi assicurato che il giovanotto faccia i compiti a casa. Un viatico che arriva fino alla scelta di Sergio Mattarella.
Accelerare sulle riforme è l’unico modo per ammorbidire la Germania e ottenere flessibilità fiscale. Renzi annuncia a ferragosto una sequenza di provvedimenti, dalla scuola alla giustizia, fino alla stretta sul Jobs act. Anche in questo caso, il messaggio è forte, l’impatto concreto più modesto: nessuna ondata di licenziamenti, ma nemmeno la corsa alle assunzioni, perché i posti di lavoro si creano aumentando la domanda e la produzione. E qui non ci siamo ancora. L’Istat ha pubblicato le stime per il primo trimestre e si vede un segno più. È appena più 0,1 per cento; per il governo, però, è il simbolo che conta, anche se tirano soltanto le esportazioni, la domanda interna è piatta, i prezzi scendono e i consumi non salgono. La disoccupazione a gennaio cala, ma di un decimale appena, dopo aver raggiunto nel 2014 il 12,7 per cento, livello più alto dal 1977.
È vero, la statistica fotografa il passato, mentre Renzi guarda al futuro e giura che sarà radioso. La Confindustria di Giorgio Squinzi, del resto, vede una crescita che potrà arrivare a due punti percentuali. Persino la Banca d’Italia si sbilancia. La doccia fredda viene da Bruxelles: secondo Eurostat, l’anno finirà con un più 0,6 per cento, troppo poco per marcare una vera svolta, sottolineano le agenzie di rating che considerano ancora ad alto rischio i titoli italiani, nonostante il calo dello spread.
Sui mercati finanziari, si sa, volano gufi, corvi e sparvieri. Ma che importa. Ci sono gli «emiratini», gli arabi del Golfo Persico. A Milano hanno comprato i grattacieli che gettano un po’ di spolvero newyorchese sullo skyline meneghino. Etihad farà volare Alitalia nei cieli dell’Asia, anche se francesi e americani denunciano che gli sceicchi finanziano il Califfato. Arrivano i cinesi che prendono di tutto un po’. Sbarcano i giapponesi di Hitachi che acquista Ansaldo Breda e Sts il campione mondiale del segnalamento ferroviario. Secondo una logica di mercato ça va sans dire, la stessa che ispira, giura Renzi, la riforma delle banche popolari sollecitata dalla Banca d’Italia e da Mario Draghi.
Un cambiamento della governance e della natura giuridica è in ballo dal 1998, ma trasformarle per decreto in società per azioni appare una forzatura. Nuovo esempio di schizofrenia oppure c’è dietro un chiaro intento politico: scompaginare il sistema economico-politico del Nord est, culla della Lega? Altro che aria nuova, si sente odore di muffa, di scambio tra benefici e consenso, di sovrapposizione tra logica economica e interventismo governativo. Se è così, il Bel Paese che Renzi celebra, assomiglia come una goccia d’acqua all’Italia di sempre. Vuoi vedere che tra Reagan e Fanfani, prevale l’arte del ballon d’essai, cioè tirare la palla in aria per capire la direzione del vento, nella quale era maestro Charles-Maurice de Talleyrand?