Malcom Pagani, GQ 3/2015, 3 marzo 2015
SULLA LOGGIA
Dietro i palmizi di un giardino fatato, un signore di mezza età completamente calvo arrota l’accento toscano. Il senese Stefano Bisi, leva massonica della classe 1957, è il Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia. La Loggia numericamente più rilevante del Paese («Abbiamo quasi ventitremila iscritti»), la più importante e la più discussa, da quando un conterraneo di Bisi, il pistoiese Licio Gelli («Iscritto al Grande Oriente d’Italia e poi espulso»), deviò dal percorso e – con cappuccio e compasso – disegnò un piano di rinascita nazionale che sconfinò nell’eversione.
«Il pregiudizio è ancora radicatissimo», dice Bisi. «Ma, Gelli a parte, nella percezione di chi ci osserva con sospetto, abbiamo la nostra parte di colpe. Non ci spieghiamo bene, diamo tutto per scontato. Anche se raccontare a un “profano” la ragione per la quale un gruppo di seri professionisti, una volta dismessi gli abiti del proprio mestiere, si riunisca qui a sera per parlare e ascoltarsi, dopo aver indossato grembiuli e guanti bianchi e aver perfino pagato per farlo, non è semplice». La “retta”, comunque, è modesta: «Tra i quattrocento e i seicento euro l’anno».
Il Gran Maestro Bisi ama descriversi come un curato di campagna. Un collettore di anime perse in un mondo «in cui, erroneamente, sembra che abbia ragione solo chi alza la voce». Parla di «nuovi italiani», di ragazzi del Costa Rica a cui la Loggia ha dato un lavoro salvandoli da un futuro precario: di gite fuori porta, tra il Molise e le Marche, in cui la vera soddisfazione, più del potere, e «incontrare i fratelli e costruire insieme a loro un domani possibile. Se non credessimo nel futuro dell’Italia, non avrebbe senso neanche la massoneria. Perché i massoni sono costruttori di armonia e difensori della libertà, non certo un comitato di affari più o meno leciti, come molti credono».
Gli chiedi del potere, della politica, delle trame indicibili, dell’ambizione di spostare gli equilibri della nazione, e con voce tenue, senza mai perdere la calma, Bisi nega a mezza bocca, con un sorriso obliquo, spiegando i compiti della Loggia: «Parlare, confrontarsi, ascoltarsi, scambiarsi opinioni, certo non eterodirigere il Paese. Non sta a noi trovare ricette per l’economia né indicare il presidente della Repubblica, al quale comunque, come facciamo sempre in queste occasioni, ho inviato un telegramma di congratulazioni. Siamo qui per formare uomini. Per proporre cambiamenti. Come dice Vasco Rossi, cambiare una macchina è facile, ma l’impresa eccezionale è cambiare noi stessi». Poi: «Il libero muratore massone è un uomo che sta nel mondo e che impara un metodo. Siamo pietre grezze da levigare».
Insisti, domandi di Gioele Magaldi, Gran Maestro di un altro Grande Oriente, quello Democratico, impegnato da anni a dipingere una massoneria infiltrata e dominante nei gangli decisivi del pianeta, e Bisi, con gesto lento, porta l’indice alla tempia con espressione sconsolata: «Non ci sono prove di alcun genere. Non esistono fratelli coperti né sovralivelli. E non sono tollerate deviazioni».
Quindi, niente ministri negli elenchi della Loggia? «Non ho controllato, ma ne sono quasi certo». E nessun volto celebre: «Preferisco avere ventiduemila fratelli bravi e rispettosi che dieci fratelli noti».
Ogni tanto, rammentando gli inizi e la missione a cui è chiamato, indossa l’antico mestiere di giornalista e inforca la penna per difendere il buon nome della casa: «Ragionando sul Patto del Nazareno, il direttore del Corriere della Sera de Bortoli scrisse di aver avvertito un odore stantio di massoneria. Chiesi di replicare e mi venne concesso». Ma sui grandi vecchi, veri o presunti, concede briciole: «Mi domanda se Luigi Bisignani era davvero il nuovo, grande burattinaio quale il sostituto procuratore Woodcock pensava che fosse? Come faccio a saperlo? Bisognerebbe chiederlo direttamente a Bisignani. L’ho conosciuto durante la presentazione di un suo libro a Siena: uomo simpatico e libro divertente. Altro non saprei dirle».
Di delusione in reticenza su una massoneria ecumenica, priva di ambizioni e di addentellati nelle più alte sfere, tentiamo la carta del ribaltamento di prospettiva: se i massoni non chiedono nulla, saranno almeno interessati a essere rappresentati. Se i massoni non si difendono, chi difende i massoni? Lui, imperturbabile, non sembra cadere nel tranello. «Il nostro è un Paese in cui l’intolleranza verso i diversi e le minoranze è forte, ma non ci piangiamo addosso».
Poco di più viene alla luce quando si indaga sui politici che hanno incontrato Bisi in occasioni ufficiali, restituendo della Loggia un’immagine rassicurante: «Abbiamo recentemente invitato ad ascoltarci due parlamentari: Lucio Malan ed Ermete Realacci. Quest’ultimo ha detto di essere venuto senza preconcetti e di aver ascoltato discorsi improntati alla solidarietà. Le basta?».
Meglio dirigersi altrove. Al principio della scelta. A un’immagine, a una fotografia mai dimenticata dei primi Anni 80, quelli di Castiglion Fibocchi, in provincia di Arezzo, degli scandali e delle liste della P2.
«Ricordo che in via Montanini, sede del Grande Oriente d’Italia di Siena, ai tempi in cui venni ammesso nella Loggia, mentre salivo le scale altri fratelli scendevano per allontanarsi ed entrare in “sonno”. Quelle dimissioni di massa mi colpirono. Da allora, avendo iniziato come apprendista, lavoro in silenzio per dare della massoneria un’altra immagine».
Del suo luogo natale, Siena, e del “groviglio armonioso” di interessi concentrici su cui, con il comodo piedistallo del Monte dei Paschi, la provincia ricca aveva governato più in là dei propri confini, Bisi ha le idee chiare e il timbro laconico di chi non ama sprecare parole.
«C’era una banca pubblica che, come tale, era governata dalle amministrazioni pubbliche. Erano loro a nominare gli amministratori. Fino alla fine della Prima Repubblica il sistema ha funzionato. Poi è crollato tutto». Implicitamente, sostiene Bisi, l’unico conto in banca che valga davvero è quello con la propria coerenza: «Sono a capo di un’istituzione carica di storia. Ho il dovere di non sporcarla. E questo», dice senza enfasi, «provo a fare».