Mathieu Palain, GQ 3/2015, 3 marzo 2015
SANGUE, SUDORE E FOLLIA
Stravaccato sul banco degli imputati del tribunale di Filadelfia, il 25 febbraio 1997, John Eleuthère du Pont ascolta l’avvocato che perora la sua causa. Invano. Il viso segnato da un anno di carcere, la barba irsuta e i capelli unti, a 58 anni il milionario americano accusato deH’omiddio di Dave Schultz – campione olimpico di lotta libera (categoria 74 kg) ai Giochi di Los Angeles dell’84, ucciso con tre colpi di pistola – pare un vecchio smarrito. Cerca di passare per pazzo. «Paranoico e schizofrenico», specifica la perizia psicologica. «Tossicomane e alcolizzato», dicono i conoscenti.
Poche ore dopo, la giuria lo condanna per l’omicidio dell’allenatore del “Team Foxcatcher”, una squadra di lottatori ripuliti, nutriti e alloggiati da John du Pont, a fine Anni 80, nella proprietà di famiglia di Newton Square. «La giuria gli ha riconosciuto l’infermità mentale», racconta a GQ Mark Schultz, fratello della vittima e anche lui medaglia d’oro a Los Angeles (categoria 82 kg), «ma ha ritenuto che fosse in grado di distinguere il bene dal male». E la storia di questi tre uomini che racconta il film Foxcatcher di Bennett Miller, una bella sorpresa all’ultimo Festival di Cannes, nelle sale italiane in questi giorni.
Dall’assassinio sono passati 19 anni. Mark Schultz sopravvive: su Skype, la webcam rivela un cranio calvo e una corporatura tozza. «Aspetta, cerco qualcosa di decente da mettermi!», esclama. Poggia il portatile sul guardaroba, sceglie una camicia grigia taglia XXXL. Si sfila la maglietta e resta a petto nudo. Tira indietro la pancia: «In forma per un cinquantenne, no?».
Parla della sua vita. «Ho iniziato con la ginnastica. A 15 anni ero campione della California ma volevo di più. Volevo essere felice». Era un bambinone scolpito con l’accetta. La madre racconta che aveva gli addominali definiti già a 4 anni, ma era il ragazzino triste in fondo alla classe, quello che si rifugia nei film di Bruce Lee sognando di poter pestare chiunque. «Mi mancava la fiducia, avevo un vuoto da riempire».
Sceglie la lotta perché vede Dave, di 17 mesi più grande, «fare il culo ai ragazzi che gli rompevano le palle. Per me, l’unico modo di essere felice era dare un sacco di mazzate al mondo intero».
Nel 1977 suo fratello, a 18 anni, è incoronato miglior atleta della California. «Ma era dislessico», confessa Mark, «e proprio quel disturbo lo spingeva ad allenarsi come un pazzo». Mark ha fatto da consulente a Channing Tatum, che lo interpreta in Foxcatcher. «Anche lui è dislessico, come Dave: insomma, un disturbo che nella vita può tornare utile...». Nel 1984, gli Schultz rappresentano gli Usa alle Olimpiadi di Los Angeles. Eppure Mark, sul gradino più alto del podio, non prova alcuna gioia. «Ero sollevato? Sì. Felice? Non so». A causa del boicottaggio sovietico, per gli americani l’alternativa era: o vittoria o vergogna. Un incubo ancora lo perseguita: «Sogno di essere all’apertura dei Giochi e di non essere pronto. Ma devo lottare e vincere. Mi sveglio quando l’arbitro dà il via al match».
Nel 1987 gli Schultz sono in Francia, a Clermont-Ferrand, per i campionati del mondo. Alain Bertholom, presidente della Federazione francese di lotta, ricorda con emozione: «Ho incrociato Mark, Dave e John du Pont. Era venuto con il suo aereo privato, ma a vederlo, con quella vecchia tuta sporca, sembrava un barbone».
John Eleuthère du Pont è il pro-pro-pronipote di Eleuthère Irénée du Pont de Nemours, che nel XIX secolo fece fortuna con la polvere da sparo. Bambino particolare, cresce nell’opulenza; i genitori divorziano quando ha due anni. A 18 anni, cocco di mamma spaurito, entra all’Università di Miami dove si laurea in Biologia. Ha molte passioni, molti milioni. Fa costruire il Museo di storia naturale del Delaware per depositarvi le sue collezioni, seimila uccelli impagliati e due milioni di conchiglie. Spende un milione di dollari per un francobollo del 1856, ma più di tutto gli piacciono gli atleti.
«Lui non è riuscito a diventarlo», racconta Mark Schultz, «così ha vissuto il suo sogno per procura. E la lotta allora era una terra vergine, in cui uomini privi di ogni sostegno si allenavano come dannati per battere i sovietici». Di lui esiste una foto in bianco e nero, all’epoca in cui non nuotava nella coca, in costume da bagno e felpa del Santa Clara Swim Club. Dietro alle pupille spente il vuoto, l’angoscia.
«Ricordo il nostro incontro come se fosse ieri, a un torneo del 1986», prosegue Mark. «Negli spogliatoi, si apre una porta e due occhi mi fissano, una faccia da matto con un taglio di capelli da clown. Aveva rimasugli di cibo fra i denti, puzzava di alcool, era strafatto: ciò che detestavo. Mi ha detto che gli piacevo, che voleva investire nella lotta». La maggior parte degli atleti contattati da du Pont accetta la proposta: stipendio, assicurazione sanitaria, una casa, tornei in tutto il pianeta, il miglior centro di preparazione d’America.
All’inizio lui, il mecenate, è invisibile. Poi si fa vivo ogni tanto. Poi arriva a ogni allenamento. Poi consiglia, ordina, infuria e segue tutto quel che fanno.
«I lottatori lo arrapavano sul serio», taglia corto l’ex allenatore della squadra francese Pino Massidda, passato per Foxcatcher. «Era sempre pronto ad accompagnarne uno in sauna... Valentin Jordanov, bulgaro sette volte campione del mondo, era strapagato per allenarlo. Una volta mi dice che gli ha insegnato una nuova presa, che dovrei lasciarmela fare. Sono stato al gioco e da quel giorno non m’ha più rivolto la parola: ai suoi occhi ero una merda, l’allenatore francese incapace di lottare», continua Massidda. «L’ambiguità sessuale saltava agli occhi... Ricordo un americano, neanche tanto bravo: a du Pont piaceva e gli ha fatto costruire una casa. A Foxcatcher, cose simili potevano capitare». L’immagine che offre di Dave Schultz, invece, è quella di una persona straordinaria e di un allenatore impareggiabile. «Era “il professore”, come Alain Prost: vinceva con classe, il suo stile era arte. Un uomo semplice che dei soldi se ne fregava». Massidda è stato suo ospite nella sua casa di Foxcatcher. «Un ragazzo generoso, un po’ fricchettone, che viveva a piedi nudi», sospira. «È stata una vera tragedia».
Quando Dave si è unito a Foxcatcher, nel 1988, Mark voleva andarsene. «Grazie a noi, du Pont si era guadagnato tanta credibilità. E io ho sudato sangue per la sua cazzo di squadra». Poi s’è imbattuto in un video girato dal “guru”: «C’era lui, che spiegava quanto fosse un allenatore eccezionale e blaterava stronzate. Alla fine, una foto di me sul podio; poi l’immagine sfuma e sparisco dietro a du Pont... Era un veleno, un manipolatore. Per lui tutto era un gioco. Si divertiva con la vita della gente».
Reclutato giovanissimo dal miliardario, il pentatleta americano Michael Gostigian racconta nel ’96 al New York Times che Dave era il più vicino a du Pont, ma che non si sottometteva. «Se John diceva che qualcosa usciva dal muro, Dave rispondeva che no, era un delirio. Du Pont lo temeva».
A metà Anni 80 du Pont aveva sposato una donna di 29 anni: la storia è durata tre mesi, poi lei ha chiesto il divorzio spiegando che il marito aveva tentato di strozzarla, di darle fuoco e di spingerla fuori dall’auto in corsa.
Con gli anni, l’alcol e la droga, la sua follia peggiorava. Girava in tunica arancione in quanto “Dalai Lama degli Stati Uniti”, diceva che durante la notte gli alberi della proprietà si muovevano e che i marziani gli lasciavano dei messaggi. A volte ordinava agli atleti di accompagnarlo, altre volte li minacciava con una delle sue pistole.
Il 26 gennaio 1996 du Pont chiede alla guardia del corpo di accompagnarlo dagli Schultz. Dave abita in una casa di Foxcatcher con la moglie Nancy e i due figli, Alexandre di 9 anni e Danielle di 6. Sta montando l’autoradio. «Ciao coach!», esclama vedendo la Lincoln. Du Pont abbassa il finestrino e gli spara un colpo calibro 38 alla spalla, poi un altro al petto.
Nancy arriva mentre il marito si accascia nella neve, colpito alla schiena dal terzo proiettile. I figli hanno visto tutto. Muore alcune ore dopo. John du Pont si barrica nella biblioteca della villa trasformata in rifugio antiatomico. Dopo due giorni i poliziotti mettono fuori uso la caldaia e lo catturano mentre tenta di riaprire il riscaldamento.
Il 9 dicembre 2010, a 72 anni, John du Pont viene trovato cadavere in cella. «È morto in prigione, com’era giusto», commenta gelido Mark Schultz. Parla da due ore nella sua bella camicia grigia, riaprendo ferite che si porta dietro da anni. «Credo che Dave non abbia mai smesso di proteggermi», dice. «Anche da morto gliel’ha fatta pagare, a du Pont. Gli ha fatto pagare quel che ha fatto a me, la carriera rovinata, la depressione... Sì, oggi la vedo così. Viviamo in un mondo fatto di percezioni e la mia è che Dave mi protegge ancora».