Notizie tratte da: Andrea Di Nicola, Giampaolo Musumeci # Confessioni di un trafficante di uomini # Chiarelettere Milano 2014 # pp. 176, 12 euro., 3 marzo 2015
Notizie tratte da: Andrea Di Nicola, Giampaolo Musumeci, Confessioni di un trafficante di uomini, Chiarelettere Milano 2014, pp
Notizie tratte da: Andrea Di Nicola, Giampaolo Musumeci, Confessioni di un trafficante di uomini, Chiarelettere Milano 2014, pp. 176, 12 euro.
«I clandestini durante la traversata pregano. Io sono la loro unica speranza. Avrei potuto dare il timone in mano a uno di loro, prendere il gommone e tornare indietro. Abbandonarli al loro destino. Ma non me la sento di far correre dei rischi così grandi a quella gente. Sarebbe un reato. Lo è anche lo smuggling? Mosè per me è stato il primo scafista della storia! E io sono come lui, come Mosè!»
Aleksandr, trafficante di uomini.
Il momento più importante è quando il migrante varca l’ultima frontiera. Osservare il sorriso del poliziotto alla dogana di Malpensa che ti restituisce il passaporto e ti fa passare, socchiudere gli occhi quando si apre il bagagliaio dell’auto in cui sei stato nascosto per ore e scoprire che tutto ha funzionato e che sei sbarcato al porto di Bari eludendo i controlli. Essere avvicinati dal guardacoste nei pressi di Lampedusa dopo giorni e notti alla deriva o calpestare la sabbia delle spiagge salentine mentre lo yacht di lusso ormeggia ad alcune centinaia di metri dalla battigia pronto a tornare in Turchia, dopo sei giorni di navigazione. L’intera macchina dei trafficanti lavora per quel momento. È lì che si perfeziona l’accordo, il contratto tra migrante e trafficante. È lì che lo smuggler trionfa: ha fatto passare la sua «merce» aprendo una breccia nella fortezza dei controlli europei.
Dvali riferisce che i suoi prossimi clienti sono una famiglia di americani di Seattle: una coppia con due figli adolescenti che vuole passare un paio di settimane in yatch tra le coste turche e le isole greche. Quando, dopo sei giorni di navigazione gli uomini della finanza affiancano lo scafo per un controllo di routine trovano quaranta uomini afgani dai sedici ai trentadue anni. Gli yacht di lusso, a vela e a motore di solito non attirano l’attenzione delle forze dell’ordine. I migranti possono essere nascosti sottocoperta, invisibili dall’alto quando un aereo o un elicottero sorvola i mari. L’unico segnale esterno, il tallone di Achille, è il notevole abbassamento della linea di galleggiamento di barche che, nate per portare al massimo dieci persone, arrivano a contenerne quattro o cinque volte di più.
Uno dei big dello smuggling si chiama Muammer Küçük, origini turche, per anni boss indiscusso degli sbarchi illegali nel Mediterraneo. È un genio del marketing, ha conquistato fette di mercato sbaragliando la concorrenza con un’offerta all’insegna dell’eccellenza qualitativa: chiede i soldi solo a destinazione raggiunta, garantisce viaggi più sicuri fornendo mappe e telefonini di ultima generazione ai suoi equipaggi, ha diversi agganci nei luoghi di destinazione, che assicurano appoggio a chi sbarca ma vuole raggiungere altri paesi. Il sistema degli yacht è una sua invenzione.
«Quando i miei occhi sono chiusi vedo lo stesso quello che succede. Si chiama istinto, se io mi tappo le orecchie sento lo stesso quello che succede. Io ho scelto questa vita, sono libero di fare ciò che mi pare. Domani è sempre un giorno diverso. La mia vita è istinto».
El Douly trafficante egiziano
Tra le tecniche più usate dai trafficanti per nascondere gli uomini c’è quella di ricavare spazi all’interno dei cruscotti o nei vani di cortesia. Un altro trucco consiste nel ricavare un loculo dentro il sedile, svuotato dell’imbottitura e lasciato come scheletro. Oppure creare doppifondi nei camion o ancora imbarcare camper con finte famigliole che sembrano in vacanza. A volte la creatività dei trafficanti sfiora la rappresentazione teatrale: clandestini spaesati si trasformano in allegre famiglie in gita per l’Europa.
«Immaginate questa scena: nel retrobottega di un internet point, lontano da occhi indiscreti, c’è un gruppo di afgani un po’ spaventati. Tra di loro ci sono un uomo e una donna, entrambi sulla cinquantina. Più in là, in disparte, due ragazzi sotto i vent’anni. I membri dell’organizzazione li scrutano, sembra un casting. Puntano l’indice verso i quattro e fanno loro cenno di avvicinarsi. Parlano con tono deciso. Poco dopo uno degli organizzatori si presenta con vestiti di foggia occidentale, delle loro misure. Fanno fare loro una doccia. Li fanno pettinare e poi li vestono con quegli abiti. Dopo un paio d’ore l’aspetto dei quattro è assai diverso, l’aria un po’ meno spaurita. Gli organizzatori scattano alcune foto formato tessera. Poi li forniscono di biglietti del treno per il Nord, verso la Francia, e infine di carte d’identità. Tutti e quattro hanno gli stessi cognomi sui documenti. Un uomo e una donna di mezza età e due ragazzi, che viaggiano insieme: una famiglia perfetta».
Dobbiamo smettere di credere che i trafficanti siano piccoli criminali in cerca di facili e striminziti guadagni. Dietro all’immigrazione irregolare, dietro alle decine di migliaia di migranti che ogni anno arrivano in Europa c’è un’industria, fatta di piccoli delinquenti, sì, a volte di miserabili, ma anche e soprattutto di grandi professionisti del crimine, di gente in doppiopetto, veri e propri uomini d’affari il cui fatturato mondiale è secondo solo a quello della droga.
Lo scafista è solo la punta dell’iceberg. A volte, lui stesso è un migrante che si ripaga il viaggio mettendo a frutto presunte doti di skipper.
Per ogni migrante che arriva in Italia o in un altro paese dell’Unione europea, per ognuna di quelle facce sofferenti che i giornali sbattono in prima pagina, c’è un ricco imprenditore che ha intascato dai 1000 ai 10.000 euro.
Questo tipo di criminalità non è «organizzata». Io la definirei «separata». C’è un operatore, un altro, un altro ancora, e così via. Il primo conosce il secondo, ma il terzo non conosce il primo, capite? L’organizzatore non è conosciuto da tutti gli operatori e nessuno sa il suo vero nome. Questione di sicurezza e di sopravvivenza dell’organizzazione stessa. Gli scafisti, poi, non sanno quasi nulla. È un po’ come una rete sociale. È come Facebook.
Aleksandr, trafficante di uomini.
Lungo la strada ci sono gli «osservatori». Seguono il veicolo con la loro auto, di solito in due. Oppure vanno avanti con il taxi e aspettano che arrivi. Danno notizie. Scortano. Guardano e telefonano. Dicono se c’è la polizia. Comunicano se la strada è libera. Cercano di capire quale sia il momento giusto per far arrivare la barca a riva, quella che dovrà caricare i migranti. Aspettano che scenda la notte, quello è il momento migliore per imbarcarli. Lo spostamento dura quattro, cinque ore al massimo. Guadagnano tra i 700 e gli 800 dollari a viaggio. Se lo fanno tre, quattro volte al mese tirano su bei soldi. In Turchia se guadagni 2000 dollari fai una bella vita. Un pensionato ne prende al massimo 500 al mese. E poi non c’è grande pericolo, bisogna solo guardare, non è un lavoro rischioso. Chi ti può mettere in galera perché stai semplicemente osservando un pulmino passare?
Il sistema hawala è un metodo di pagamento che non si avvale di bonifici bancari e di assegni. È nato tra i mercanti nel mondo arabo mediorientale e asiatico: Emirati Arabi Uniti, Afghanistan, Pakistan. Non ha procedure che lascino traccia: ricevute, iban, matrici di assegni, colloqui con funzionari di banca, niente di tutto questo. Il sistema si è diffuso rapidamente anche fuori dal mondo dei mercanti. È perfettamente legale. Si fonda su una rete di dealer, gli hawaladar, e sulla fiducia. Il denaro si muove tra due dealer, ma mai fisicamente. È la parola che si muove, è la fiducia che viaggia tra una persona e un’altra. Per mezzo di un foglietto. Per mezzo di una cruda sequenza di numeri, che riassume il legame fiduciario (e a volte malavitoso) tra i nodi della rete.
Gli hawaladar muovono veri e propri fiumi di denaro. Nella primavera del 2008 la Digos di Frosinone s’imbatte nel gestore di un phone center a Roma, Musharaf. Nel corso delle indagini emerge che si tratta del referente italiano di un’organizzazione di trafficanti che lavora proprio con la formula dell’hawala. Il costo del viaggio dall’Afghanistan a un paese dell’Unione europea andava mediamente da 6000 a 10.000 euro. Venivano pagate le singole tratte e il loro prezzo variava a seconda del servizio: chi partiva da Atene con l’aereo e i passaporti falsi per arrivare a Roma o a Milano pagava intorno ai 3000 euro. Chi invece veniva caricato sul camion ne spendeva 1000. I conti del business sono da capogiro: grazie alle sue abilità Musharaf ogni mese faceva entrare illegalmente tra le duecento e le trecento persone, intorno ai tremila migranti l’anno, con un fatturato che si aggirava da un minimo di 18 milioni di euro fino a 30 milioni.
Le Nazioni unite, in un loro recente rapporto, stimano che il guadagno annuale degli smuggler che portano migranti dall’Africa all’Europa è di 150 milioni di dollari. Nello stesso rapporto si afferma che i trafficanti che trasportano clandestini negli Stati Uniti guadagnano ogni anno sei miliardi di dollari. Gli Usa e l’Europa sono sicuramente i due mercati più redditizi. In un rapporto dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni, invece, stilato nel 2011, si riporta che i proventi di questa attività si aggirano fra i tre e i dieci miliardi di dollari l’anno. Altre fonti parlano di un mercato dal valore annuo totale di venti miliardi di dollari americani.
Se un camion di migranti si perde nel deserto e i clienti hanno già pagato la tratta, chi se ne frega; se un barcone con quarantacinque clienti che hanno già pagato il «biglietto» affonda, chi se ne frega; se un afgano viene sorpreso su un camper greco tra Patrasso e Bari, in fondo, chi se ne frega, ma se perdo una partita di cocaina tra Bissau e Dakar, sono problemi seri. La gente, le persone, i migranti valgono meno della polvere bianca. Perché di gente, persone, migranti, clienti che vogliono andare in Europa è pieno il mondo: l’offerta di questa preziosa merce è inesauribile.
Ecco le richieste dei trafficanti, espresse in dollari statunitensi: – Afghanistan-Regno Unito (Londra): 25.000 – Afghanistan-Iran: 700 – Africa subsahariana-Nordafrica: 2500 circa – Asia-Europa: 3000-10.000 – Asia-Usa: 25.000 circa – Bangladesh-Brasile: 10.000 – Brasile-Usa: 13.000-17.000 – Cina-Usa: 40.000-70.000 – Cina-Regno Unito: 41.800 – Cina-Italia: 15.000 – Corea del Nord-Corea del Sud: 6000 – Cuba-Usa: 10.000 – Guatemala-Usa: 7000 – Iraq-Regno Unito: 10.500 – Iraq-Germania: 7000-14.000 – Messico-Usa: 1000-4000 – Nordafrica (coste) – Italia (Lampedusa, Sicilia, Calabria): estremamente variabile dai 1500 ai 3000 – Pakistan-Usa: 22.000 – Somalia-Usa: 10.000 – Sudamerica-Usa: 8500 – Turchia-Italia : 2500-5000 – Vietnam-Europa: 28.500. Moltiplicate questi numeri. Moltiplicate per decine e decine di migliaia di disperati o, a volte, semplicemente persone che vogliono cambiare paese in cerca di opportunità che si servono di trafficanti ogni anno. Grandi e piccoli trafficanti.
La regola di base è che l’economia del trafficante di uomini è ancora principalmente affidata al contante.
Secondo il Gruppo di azione finanziaria internazionale (l’organismo intergovernativo, sorto nel 1989 in occasione del G7 di Parigi, il cui scopo è la promozione di politiche per il contrasto del riciclaggio di denaro di origine illecita) nella loro cash economy, rudimentale ma efficace, i trafficanti si differenziano in tre categorie, a seconda del modo in cui reinvestono i loro proventi: c’è il trafficante formica, che rimette il denaro nel proprio paese di origine (o di destinazione) per investire in business legali. Così diventa proprietario di ristoranti e bar, di immobili che, se preferisce, può affittare. C’è poi il trafficante cicala con il suo motto «l’importante è vivere bene». La criminalità paga, se corri il rischio e presto potrai finire in carcere, allora goditi la vita. Il denaro viene usato, nel paese di origine e di destinazione, per finanziare uno stile di vita stravagante, lussuoso, pieno di eccessi e di sperperi. Alla fine però si rischia di dare nell’occhio. Esiste anche il trafficante opportunista, che si serve dei soldi ricavati dal traffico di clandestini per investire in altre attività criminali nel proprio paese o in quello di destinazione.
I trafficanti che hanno iniziato grazie alla loro professione di autotrasportatore, possono attraversare le frontiere più e più volte alla settimana. Riescono a stabilire rapporti di conoscenza stretta con i poliziotti alla dogana, conoscono i loro turni e intuiscono chi è il più «malleabile» o il più «disattento». Devi avere delle capacità criminali, condizione necessaria ma non sufficiente, conoscenze del luogo dove operi, e allo stesso tempo devi saper sfruttare al massimo la situazione che ti si presenta. Un valico poroso, un confine con delle falle. Essere possessore di un taxi o di un camion. Avere un rapporto privilegiato con un doganiere. Una guerra, una rivoluzione, una crisi umanitaria possono essere tutte opportunità, se debitamente sfruttate. Il trafficante è un uomo la cui principale abilità è quella di saper cogliere le opportunità.
Le coste tunisine sono storicamente un punto di partenza per Lampedusa: l’isola è lì di fronte, a portata di mano, dista 64 miglia e se il mare è buono si raggiunge in dieci ore. Durante la Rivoluzione dei gelsomini del 2010-2011 le ondate di sbarchi si susseguono incessanti. La gente scappa a frotte, tutti verso le coste: chiunque abbia un peschereccio può essere l’uomo giusto per andare in Italia. Nel 2011 a Lampedusa, Linosa e Lampione, secondo la Fondazione Ismu, che ogni anno redige un rapporto sulle migrazioni in Italia, avvengono 452 sbarchi, il 59 per cento del totale di quell’anno, con 51.753 persone a bordo. Delle 760 imbarcazioni arrivate sulle coste italiane da gennaio a dicembre del 2011, 519 sono partite dalla Tunisia.
Durante il viaggio se vuoi mangiare, bere, fumare cannabis devi pagare di più. Niente birra o alcol, altrimenti scoppiano risse e casini.
«I clienti più tranquilli sono gli africani neri, sono timorosi, se ne stanno quieti in disparte. Le teste calde sono i tunisini, sono spesso delinquenti o galeotti che magari arrivano da Tunisi o dall’interno. Sono dei piccoli boss nella loro regione o nel loro quartiere. Io li massacro subito di botte, non ho scelta. Devono capire immediatamente chi comanda. E assesto loro subito due manate in faccia come si deve. Una volta mi è capitato un tunisino troppo agitato. Prima di salire sulla barca il mio assistente gli aveva trovato una lama di rasoio nascosta in bocca. Sapete a cosa serve, no? Se sei abile a tenerla in bocca, senza ferirti, la tiri fuori con la lingua al momento giusto e apri la faccia a chi ti sta davanti».
Emir, capitano e coordinatore
In occasione del 3 ottobre 2013 – data della strage poco a largo dell’isola dei Conigli, in cui sono morte 366 persone – i giornali impiegano un po’ a scrivere che non si trattava di migranti irregolari, ma di potenziali richiedenti asilo. Lo smuggling e la sua grande agenzia di viaggi non serve solo i clienti che non hanno titolo a entrare in Europa, ma anche quelli che lo avrebbero. Ma l’assenza di strutture di accoglienza, spesso di democrazie, in generale di situazioni adeguate in paesi come Libia, Egitto o Tunisia, non permettono a somali ed eritrei, ad esempio, di fare domanda di asilo politico prima di intraprendere il rischiosissimo viaggio. Col risultato che anche chi non dovrebbe si affida ai trafficanti.
Gheddafi usava gli sbarchi come leva politica per fare pressioni sull’Italia: i barconi partivano, gli smuggler lavoravano e il leader libico chiedeva cospicui finanziamenti in cambio di ferrei controlli delle sue coste. E la porta si chiudeva quando si perfezionavano gli accordi e Gheddafi arrestava l’esodo.
Trasportare gente da un capo all’altro del mondo richiede esperienza, tempo, mezzi, soldi e soprattutto conoscenza delle diverse regioni e delle frontiere che si attraversano, contatti con i doganieri e con le polizie dei vari paesi. Si agisce in gruppo e ognuno fa un «pezzetto» del lavoro occupandosi di una tratta o ricoprendo un ruolo. La rete è fatta di persone: più le persone stanno in contatto, collaborano e comunicano, più la rete funziona.
A volte dentro alla rete ci sono anche persone al di sopra di ogni sospetto, proprio perché il loro lavoro li rende indispensabili. È il caso di un’avvocatessa civilista del foro di Parma, al centro di un traffico di clandestini dalla Tunisia, emerso da un’operazione della squadra mobile di Parma sul finire del 2011. Favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, falsa testimonianza, simulazione di reato: questi i capi di imputazione a carico dell’insospettabile legale.
Le frontiere europee sono in continuo mutamento. Ogni volta che un nuovo paese si unisce all’Unione i confini cambiano e i luoghi caldi, strategici dove operano gli smuggler variano con essi. Oggi i passaggi più imponenti avvengono tra la Grecia e la Turchia, tra le coste nordafricane e quelle italiane e tra quelle – interne al Vecchio continente – della Manica, tra Francia e Inghilterra. Per la gente che conosce questi territori, far parte di una rete che collabora e comunica significa fare affari d’oro.
La regione greca di Evros, al confine con la Turchia, è diventata negli ultimi anni la nuova porta d’accesso al sogno europeo. Si entra dalla Penisola anatolica, un tempo via mare, ora via terra. La rotta greca è quella preferita da siriani, afgani, pachistani, curdi, magrebini, ma anche da migranti dell’Africa subsahariana come ghanesi o nigeriani. Arrivare a Istanbul è facile: un visto per la Turchia non lo si nega quasi a nessuno così i migranti si concentrano lì. Oppure a Smirne, sulla costa: nelle baracche, nei sobborghi, in attesa di ripartire. E poi si tenta il passaggio. Fino al 2011 i dati ufficiali di Atene parlavano di 512.000 clandestini entrati in Europa attraverso la Grecia.
Andiamo al commissariato di polizia di Alessandropoli, il capoluogo della regione, dove un giovane investigatore, tra sigarette e caffè frappè, ci confida che sempre più greci entrano nel «giro» dei trafficanti. Alcuni agricoltori che hanno i campi proprio a ridosso del fiume, e quindi del confine, hanno iniziato a farsi pagare per trasportare gente. Cinquecento euro a testa. Gruppi di dieci migranti alla volta per un paio di attraversate al mese, a dir poco. Il canotto o la barchetta piena all’inverosimile, tutto in nero, tutto esentasse. In tempi di crisi c’è di che fregarsi le mani. Sono semplici passeurs gli agricoltori greci, ma facilitano notevolmente il passaggio e spesso si mettono al servizio di grandi reti criminali.
I ruoli all’interno di un’organizzazione di trafficanti di migranti sono: coordinatore o organizzatore, cioè l’amministratore delegato, i componenti del Cda; investitore, chi ci mette i soldi o i mezzi (una barca, le armi, i camion); il reclutatore o agente, che sostanzialmente è il venditore del servizio, il commerciale; il trasportatore, ossia il guidatore (di camion, di auto o di gommoni o barche); la persona che si occupa anche di mantenere l’ordine (se si portano gruppi numerosi bisogna avere le armi pronte); i fornitori di servizi o personale di supporto in loco; la persona che si occupa del recupero dei crediti; il riciclatore di denaro; il pubblico ufficiale corrotto o protettore. Quando le reti di trafficanti ricercano persone per ricoprire queste posizioni, spesso le trovano nel mondo «legale». Servirsi di individui incensurati, che svolgono un lavoro regolare, che provengono dalla sfera, almeno all’apparenza, lecita è un modo molto comune di operare dei gruppi di smuggler.
«In alcuni villaggi dell’Egitto mi vogliono morto. Se andate lì e dite che mi conoscete, vi sparano. All’istante. Sapete perché? Perché a volte le barche affondano. E la gente muore. E i parenti dei ragazzi che erano nelle barche affondate mi vogliono fare la pelle». El Douly trafficante egiziano.
I punti di raccolta di chi vuole andare in Inghilterra illegalmente sono più o meno sempre gli stessi anche se negli ultimi mesi, complici i controlli della polizia francese, i migranti non dormono più dove erano soliti in passato. Secondo il governo britannico, in dodici mesi tra il 2012 e il 2013, sono stati bloccati undicimila accessi illegali. Secondo fonti giornalistiche inglesi, nel 2012 la polizia di frontiera di Sua Maestà ha intercettato ottomila migranti irregolari nascosti in camion. Sempre le stesse fonti stimano che le gang di trafficanti riescono a fare entrare almeno 30 migranti ogni giorno dalla sola Calais.
«L’altra notte stavo cercando di far passare tre di loro. Erano miei clienti. Sai come funziona, no? Vado nella piazzola di sosta dei camion, individuo quello giusto cioè quello che va in Inghilterra e quello in cui è facile salire. E poi faccio entrare di nascosto i ragazzi. Solo che prima devi tagliare il cavo di protezione del telone. È come una fascetta che assicura che il camion non sia stato aperto, e la merce è al sicuro, capito?»
El Douly trafficante egiziano
Una volta che il migrante riesce a infilarsi in un mezzo è a un terzo dell’operazione. E questo lo sanno fare, o meglio provano a farlo, anche i più squattrinati, costretti ad affidarsi al fai da te. Ogni notte, a gruppetti di due o tre, individuano un camion e ci si nascondono dentro. La maggior parte delle volte l’impresa finisce in disastro, c’è chi sbaglia camion e si ritrova in Olanda o, peggio ancora, in questura, dopo che l’autista li trova e chiama la polizia.
«Ognuno ha una strategia personale per eludere i controlli. C’è chi riempie dei sacchi a pelo di ghiaccio e ci infila dentro i migranti, così da renderli «invisibili» allo scanner termico e c’è chi, invece racconta di aver trovato un modo infallibile: avvolgere i suoi clienti con rotoli di alluminio, quelli argentati da cucina, per intenderci».
El Douly trafficante egiziano
«Ha camminato di notte, lui e il suo zainetto. Dentro c’è tutta la sua vita. Due paia di mutande, un pantalone, una camicia nera lucida e un paio di scarpe buone. Ai piedi ha un paio di infradito azzurre dalla suola consumata. Nella tasca anteriore dello zainetto, una busta con il passaporto e un foglietto con un nome e un numero di telefono da chiamare una volta raggiunta Kampala».
Felicien, cliente
P.M. sono le iniziali di un missionario congolese che ha una chiesa proprio nella capitale dell’Uganda, nel quartiere di Makindye. P.M. è di Bukavu, come Felicien. È lì, sulle sponde del lago Kivu, che il ragazzo ha sentito parlare per la prima volta di lui. P.M. è quello che fa arrivare la gente in Europa. Europa, quella dei bazungu (bianchi europei), delle ville, dei suv, delle tasche piene di soldi «fatti» proprio da loro, delle birre che ne bevi quante ne vuoi e di carne che ne mangi quanta ne vuoi. Mica come qui, a rompersi la schiena portando sacchi di farina sul chukudu, un monociclo di legno da trasporto, e prendere cinque dollari al giorno se va bene. Felicien pensa a quanti bocconcini di carne potrà mangiare in Europa. Mica come adesso, che al Petit Resto Chez Chou Chou ordini tanta manioca con solo il sugo della carne. Così che lo stomaco si gonfia bene e sei apparentemente sazio.
P.M. è un missionario. Mica per dire, è un Missionario vero ma con la «M» maiuscola. È un prete, non ha mai preso ufficialmente i voti, ma ha la sua chiesa a Kampala. In un quartiere della capitale ugandese affollato di rifugiati, ha fondato una chiesa protestante, frequentata da parecchi fedeli congolesi che scappano dai conflitti. P.M., il boss dello smuggling dal Congo all’Europa. Ma non chiamatelo così, a lui piace essere chiamato semplicemente «il Missionario». Lui, in fondo, fa del bene.
Il Missionario avrebbe facilitato il viaggio di almeno mille congolesi in pochi anni. I passi che il Missionario permette al migrante di compiere hanno ognuno un prezzo specifico. L’introduzione del dossier alla polizia ugandese costa dai 100 ai 150 dollari a persona. Seguire i documenti e il cliente dalla polizia all’organizzazione umanitaria InterAid da 150 a 200 dollari. L’intero processo (che dura fino a tre anni) per espatriare verso uno dei tre paesi che si possono indicare, da 5000 fino a 8000 dollari, nel caso di accelerazione del processo stesso. Questo è il prezzo da pagare per una nuova vita.
Il traffico di migranti si articola in tre momenti ben distinti: il reclutamento, il trasferimento e l’ingresso nel paese di destinazione. Un copione criminale di cui è essenziale non saltare nemmeno un passaggio. Proprio il reclutamento è la fase, per così dire, «commerciale» della potente e organizzatissima agenzia di viaggio illegale. È lo stesso agente che fa volantinaggio, che fa pubblicità con le super promozioni per l’Europa, che allestisce la vetrina con le irrinunciabili offerte per passare il confine, che confeziona il dépliant con tutte le rotte e le possibilità per cambiare vita. E con tutti i prezzi. Non hai denaro, ma vuoi o devi partire lo stesso? C’è l’offerta «base»: il minimo indispensabile a prezzi popolari. Puoi permetterti qualcosa di più e vuoi raggiungere l’Europa partendo da molto lontano? Il «tour di gruppo», allora, è l’ideale. Non è un servizio lussuoso ma è comodo, funzionale e permette di coprire lunghe distanze. Pensa a tutto l’agenzia: agli spostamenti e alle soste; al vitto e all’alloggio; ai trasporti, via terra e mare. Nessuna contrattazione in nessun luogo, sarà sempre l’agenzia a negoziare e a spuntare i prezzi migliori dai fornitori locali. In ogni nazione ci sarà un accompagnatore, una guida. Certo, si viaggerà in compagnia di altre persone, magari sconosciute. Sarete in molti e forse di tanto in tanto la situazione potrebbe diventare un po’ caotica, scomoda o pericolosa. Ti puoi permettere ancora di più, sei abituato a trattarti bene e hai fretta? Vuoi viaggiare comodo in aereo e da solo o con i tuoi cari? D’accordo. L’agenzia fornirà un’identità falsa e un documento contraffatto. Un titolo di viaggio, vero, ovviamente, collegato a quell’identità. Quando arrivi, se necessario, ti possiamo far trovare anche un’automobile per scomparire prima possibile. Vuoi un biglietto aereo di prima classe? Nessun problema. Facci solo sapere in quale paese vuoi entrare, perché i prezzi variano. Il conto potrebbe essere salato ma il lusso, la comodità e la sicurezza di arrivare a destinazione si pagano.
In generale, la maggior parte dei migranti che abbiamo incontrato negli ultimi sei anni racconta di aver usato il passaparola per arrivare a uno smuggler. Anche nei più piccoli e sperduti villaggi sulle montagne tra Afghanistan e Pakistan, quando una persona vuole partire, sa perfettamente a chi rivolgersi. Basta spargere la voce. C’è sempre qualcuno che conosce qualcun altro che si è già rivolto al tizio in questione. Oppure è sufficiente e anche rassicurante chiamare in Italia, dove altri connazionali, che hanno già affrontato il viaggio e usufruito dei servizi, spiegano chi contattare. Nella fase di reclutamento è fondamentale la fiducia che la gente ha del trafficante. Se uno smuggler è conosciuto per essere uno che porta le persone a destinazione, è facile che il suo business aumenti. Se il trafficante «fallisce» troppi viaggi, i clienti si rivolgeranno ad altri.
Cataldo Motta, capo della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Lecce, spiega che «è un po’ come era il contrabbando qui in Puglia tanti anni fa. La gente che fa finta di niente, che aiuta i trafficanti anche con piccoli servizi, magari perché non si accorge del disvalore della sua condotta, rappresenta una risorsa enorme per i trafficanti. Nella fase del trasferimento, come in quella dell’arrivo a destinazione, i trafficanti hanno bisogno di questa materia prima: le connivenze, gli appoggi, i posti dove tenere le persone. E questa gente che chiude un occhio non si accorge del contributo determinante che dà».
L’ingresso nel paese di destinazione può essere legale o illegale. Un visto per studenti o turistico può essere lo strumento per entrare legalmente. Stessa cosa se si possiede un permesso di soggiorno a scopo lavorativo, ottenuto con l’aiuto di cittadini o di imprenditori compiacenti che si prestano a fare da finti datori di lavoro.
Un mezzo legale per entrare nel paese è la richiesta di asilo politico una volta passata la frontiera. Con qualche limite, però. Solo alcune nazionalità infatti hanno diritto alla protezione internazionale. Una strategia tra le più utilizzate e suggerite ai migranti è quella di non dichiarare la propria nazionalità e fingersi proveniente da un paese in guerra. Ovviamente non tutti possono farlo poiché le polizie europee contrastano il fenomeno con interviste mirate, in lingua.
Chi è di etnia pashtun ma ha passaporto pachistano non ha diritto all’asilo politico. Ma se il pashtun pachistano getta il passaporto e dichiara di essere afgano (i pashtun vivono a cavallo della frontiera tra i due paesi), ecco che, come per magia, si spalancano le porte della protezione internazionale.
L’area transiti degli aeroporti è un gigantesco e sfuggente limbo dove i trafficanti mettono in opera alcuni dei loro trucchi più raffinati. È un complesso girone colmo di zone d’ombra in cui chi è capace di muoversi con discrezione e astuzia riesce ad attuare diaboliche macchinazioni e a infilare il grimaldello che spalanca le porte a migliaia di migranti irregolari. Qui si arriva in aereo, appunto, con un biglietto acquistato in un’agenzia di viaggi. Con un piccolo e leggero bagaglio nella mano sinistra, un passaporto stretto nella mano destra e una goccia di sudore che imperla la fronte. È in aeroporto che ci si gioca tutto, quando il poliziotto di frontiera fa un cenno al prossimo in fila, che avanza e porge il passaporto.
Eventi globali come le migrazioni clandestine assistite possono impattare con forza sulla dimensione locale: dai mercati di uomini su scala mondiale si passa alla paura sulle strade delle nostre città e alle strumentalizzazioni politiche. Spesso non prestiamo abbastanza attenzione a quanto i grandi fenomeni di criminalità transnazionale, come le reti di trafficanti di uomini, abbiano enormi ripercussioni sulle nostre città.
«Come strumento di comunicazione, fonte di informazioni, luogo di mercato, terreno per il reclutamento e servizio finanziario, Internet facilita tutti i generi di criminalità off line, incluse le migrazioni illegali. In particolare, l’anonimato offerto dalle tecnologie di telecomunicazione come le email, la messaggeria istantanea e la telefonia Internet (VoIP) ha fatto sì che esse vengano utilizzate in modo crescente dai gruppi organizzati come contromisura rispetto alle attività di individuazione e sorveglianza». Rapporto di Europol del 2011.
Eric Teo, classe 1973, Singapore. Decine e decine di ingressi ogni anno, con una tecnica collaudata ed efficace. L’organizzazione di Eric possedeva una vasta banca di passaporti rubati o perduti: singaporiani, coreani e malesiani, che non necessitano di visto per l’ingresso in Europa. Passaporti con foto di gente che sembra cinese. Più lo sembra, meglio è. Eric Teo e il suo capo, la «Grande Sorella». All’inizio della tratta i documenti in mano ai migranti sono quelli veri, poi, a un certo punto del lungo tragitto, vengono sostituiti con passaporti falsi o altri documenti veri, ma che appartengono ad altre persone, riciclati ogni volta. Durante il viaggio, dunque, avviene la sostituzione del documento. L’Europa è spesso il transito per i cinesi che vogliono andare negli Stati Uniti. Una delle tratte classiche è da Hong Kong fino a Milano passando per Kuala Lumpur e Damasco. E poi via per Messico e Stati Uniti. Fino a Damasco (dopo l’inasprirsi della guerra civile siriana la sosta nella capitale è sempre meno frequente) i cinesi arrivano con i loro documenti. A quel punto li scambiano con quelli malesiani, coreani o di Singapore. La difficoltà è trovare un passaporto con una foto molto somigliante al clandestino che lo utilizzerà. Questo se lo si vuole autentico. L’altra strada è sostituire la foto. E qui, se il lavoro non si fa come si deve, la possibilità che i poliziotti se ne accorgano è più alta.
Le indagini di Giuseppina Petecca e della Polaria di Malpensa sulle organizzazioni cinesi hanno una svolta importante il giorno in cui dal Messico vengono respinti due cittadini malesiani. Vengono rispediti in Italia, atterrano proprio a Milano. La polizia fa le foto ai due e le confronta con quelle sul passaporto. Apparentemente sono loro, certo. Apparentemente. Poi però se si misura, ad esempio, la distanza fra gli occhi o fra naso e bocca, si trovano sottili differenze. Differenze di millimetri che modellano diversamente un viso, un’espressione. Se c’è il dubbio, scatta un secondo controllo: la telefonata all’ambasciata, in questo caso malese, per verificare se risultino passaporti rubati o smarriti. E si scopre l’inganno. È chiaro che facendo le prove e i paragoni biometrici tra foto del passaporto e foto di chi lo esibisce vengono fuori diversità magari non apprezzabili a occhio nudo. «Chi usa frequentemente questo escamotage sono i gruppi criminali della Nigeria: ci sono donne nigeriane naturalizzate italiane che prestano il loro passaporto alle connazionali che vogliono andare in Canada» ci raccontano gli agenti della Polaria di Malpensa. Naturalmente bisogna individuare donne che si assomiglino. E tanto, anche.
La «Grande Sorella» sfrutta le debolezze del sistema dei visti, la vulnerabilità di alcuni passaporti che possono essere falsificati più agevolmente, l’opportunità «biologica» creata dalla somiglianza di caratteri somatici tra persone appartenenti a nazioni differenti, o quella architettonica fornita dal modo in cui sono disegnati gli scali aeroportuali, le maglie larghe di una insufficiente protezione all’ingresso.
Il paradosso è che più il passaporto è usato e timbrato e più è credibile. Più timbri inducono all’errore il poliziotto di frontiera. Questo vale anche con quelli falsi. Per cui, se il trafficante e il falsario che lo ha aiutato hanno ingannato una volta un agente di frontiera, è facile che anche un secondo verrà raggirato, tratto in inganno dalla fiducia che il precedente collega ha riposto in quel documento. Dopo sei timbri, ad esempio, a chi viene in mente di pensare che diversi poliziotti, magari in paesi diversi, sono stati tutti raggirati e che il passaporto sia falso?
L’agente di polizia che ha di fronte Livia, brasiliana di quarantaquattro anni, ha un dubbio. Mentre la donna, guida turistica accreditata che parla anche un discreto italiano, non tradisce particolari emozioni, il gruppo che accompagna desta qualche sospetto. Sono tutte ragazze, tutte giovani e piuttosto nervose. Le mani intrecciate a tormentarsi i polpastrelli, gli sguardi bassi non appena il poliziotto li incrocia. Così l’agente della Polaria e i suoi colleghi fanno un controllo con la Tam, compagnia aerea brasiliana: il volo di ritorno per tutte e sedici c’è, destinazione Asunción, di lì a otto giorni. Ma ci sono anche altri quindici biglietti emessi per gli stessi nominativi: sette ragazze ripartono il giorno dopo da Malpensa e altre otto da Linate. Altro che Bologna, Firenze e poi Roma. Di vero c’è solo la notte a Milano. L’indomani le ragazze partiranno per Madrid. Perché da Malpensa a Barajas non c’è controllo di frontiera, Italia e Spagna sono due paesi «Schengen». Una volta passati i controlli italiani, infatti, si è liberi di muoversi nelle ventisei nazioni europee che a oggi hanno aderito agli accordi di Schengen. Il gruppo aveva dichiarato un viaggio turistico in Italia, ma il vero obiettivo era la Spagna. Per cercare lavoro lì e trasferirsi in cerca di una nuova vita. Ma se il gruppo si fosse presentato direttamente a Madrid sarebbe stato respinto dalle autorità spagnole. Livia e la sua organizzazione, paraguaiani e brasiliani insieme, giocano di sponda: tentano l’ingresso in un altro paese, un paese dove le forze dell’ordine siano meno in allarme. Un paese dal quale è facile transitare in vista della destinazione finale. L’organizzazione ti costruisce tutto, ti fornisce anche una guida turistica accreditata, che è fondamentale per ingannare i controllori alla frontiera. E compra biglietti aerei doppi per tutti. Spesso servono agenzie di viaggio compiacenti, perché è strano che quindici persone acquistino un biglietto andata e ritorno per l’Italia e, nello stesso periodo, anche un biglietto di sola andata dall’Italia alla Spagna.
Il punto più delicato per un trafficante che lavora negli aeroporti è creare una storia, un viaggio, una visita turistica, che, ovvio, non avverrà mai. È come scrivere un romanzo, un racconto. Più ci sono dettagli, più ci sono alberghi prenotati, luoghi da visitare, più la storia raccontata ai poliziotti sarà credibile. Livia deve essere scrittrice e anche un po’ attrice. E un po’ psicologa. E un po’ guida, appunto. Deve rassicurare i migranti che tutto andrà per il verso giusto, ma deve anche istruirli per bene. C’è però una componente che Livia e la sua organizzazione a volte non riescono a gestire, un fattore X: lo stress, l’ansia e la paura dei «clienti» che a loro si rivolgono. Perché dopo che hai pagato alcune migliaia di euro e hai scommesso tutto su quel viaggio, gli occhi dell’agente di frontiera che ti scrutano e tentano di comprendere se stai mentendo, se davvero è una vacanza la tua, se davvero hai i soldi per mantenerti, se davvero tornerai ad Asunción fra otto giorni, ebbene, quegli occhi, quello sguardo, possono fare paura.
Senza nulla togliere ai sudamericani, ma i più geniali rimangono sempre i cinesi. Giuseppina Petecca racconta di quando «in aeroporto, a Milano, è atterrato un ragazzo cinese respinto dalla Svizzera. Si chiamava Chen. Era senza passaporto, anche perché quello falso lo aveva trattenuto la polizia elvetica. Con sé aveva solo la carta d’imbarco in base alla quale risultava partito da qui, da Malpensa. A noi pero non risultava nulla. Dopo pochi giorni si verifica un episodio simile. Un altro ragazzo respinto da Zurigo. Un altro nome: Lin. Segnaliamo i due nomi agli ufficiali di frontiera. Alcune settimane dopo si presentano al controllo passaporti due ragazzi cinesi. O meglio, due cinesi naturalizzati austriaci che andavano in Svizzera. Si chiamano Chen e Lin... Dopo una settimana si ripresentano sempre loro per andare una seconda volta a Zurigo. Ci sono insomma diversi Chen e Lin: quelli respinti da Zurigo e quelli di fronte a noi, in possesso di regolari documenti. Scatta un controllo e nello zaino dei cinesi troviamo due passaporti falsi di Singapore, con i loro nomi, Chen e Lin, ma con foto diverse. Allora chiamiamo la polizia di Zurigo e inviamo loro le foto dei due passaporti falsi. I colleghi riescono a rintracciare nell’area transiti dell’aeroporto dei cinesi appena arrivati da Pechino, i cui visi sono quelli delle foto sui passaporti falsi». Una macchinazione estremamente sofisticata. I due Chen e i due Lin si incontrano velocemente nei bagni dell’area transiti di Zurigo. I «veri» danno ai «falsi» le loro carte di imbarco Malpensa-Zurigo (solo il talloncino che resta alla fine del volo). Poi i due migranti irregolari si presentano al controllo passaporti. Se il poliziotto svizzero non si accorge dei documenti contraffatti, i falsi Chen e Lin entrano in Svizzera direttamente da Pechino. Ed è fatta. Se invece la polizia scopre che sono falsi, chiede loro da dove arrivino. E prontamente rispondono: da Malpensa, esibendo il talloncino della carta di imbarco. In modo tale che al poliziotto svizzero non venga in mente di controllare la lista passeggeri del volo proveniente da Pechino. Così i due falsi Chen e Lin vengono rispediti a Milano, sebbene da lì non siano mai passati. Si avvia cioè un procedimento di espulsione verso un paese da dove di fatto non sono mai transitati. Il punto è che i due non vengono rispediti a Pechino, ma a Milano. Non ritorneranno in Cina, ma andranno in Italia. Momento chiave: la cessione della carta di imbarco. Nei bagni gli investigatori svizzeri hanno trovato i veri passaporti dei cinesi (senza titolo per entrare in Europa, perché hanno bisogno di un visto) buttati via per avere in mano solo i documenti contraffatti: quelli di Singapore che invece consentono l’ingresso.
Kabir non ruba barche a vela, non fa affondare barconi al largo di Lampedusa, non acquista gommoni con motori fuoribordo. Non fa morire migranti al freddo delle montagne slovene d’inverno o chiusi senz’aria dentro un camion con il doppiofondo in un traghetto d’estate. Non usa il Gps per non perdersi in mezzo al deserto, non ha bisogno di posti dove tenere i propri «clienti» per mesi in attesa di proseguire un viaggio pericoloso, non maneggia armi. I suoi «compaesani», come li chiama lui, arrivano in Italia al caldo, in aereo, direttamente a Fiumicino con un viaggio sicuro e certi di poter entrare. E lui rischia molto, molto meno degli smuggler, per così dire, «tradizionali». Il formidabile strumento di Kabir sono le norme italiane. Lui sa piegarle a proprio favore, le addomestica, le usa come gli conviene.
«Vengo da un piccolo villaggio ai confini con l’Afghanistan, dove vivono al massimo un migliaio di persone. Vicino a Peshawar, nel Nord del Pakistan. Sono di etnia pashtun. Parlo pashtu, quindi. E se riesci a parlare pashtu bene, puoi spacciarti come tale. Sì, perché loro possono chiedere asilo politico quando arrivano in Italia. È quello che dico sempre ai miei. Anche se prima bisogna arrivarci in Italia... In che modo? Ogni anno viene pubblicato il Decreto flussi e un imprenditore agricolo può fare richiesta di lavoratori stranieri stagionali entro la scadenza. La domanda è nominativa: è lo stesso agricoltore che va in questura e compila il modulo. Dice che vuole questa e quella persona, che ne ha bisogno. Scrive i nomi e paga quanto deve pagare. Mettendoci anche la marca da bollo è comunque un costo accessibile. Con la domanda si ottiene un nullaosta per lo straniero che può valere fino a nove mesi. Le persone chiamate vanno all’ambasciata italiana a Islamabad, con il loro passaporto regolare, e ricevono il nullaosta, così possono venire senza problemi a lavorare nei campi. Quando arrivano firmano il contratto con il datore di lavoro e ricevono il permesso di soggiorno stagionale. Fino a qui è la normale procedura, nulla di strano. Con questa trafila però puoi far arrivare chi vuoi, su ordinazione. Nome e cognome. Chi non sfrutterebbe questa fortuna? Così entrano in ballo i mediatori. Troviamo gli imprenditori agricoli che vogliono arrotondare, disposti a chiamare le persone che indichiamo noi. I nomi glieli forniamo noi e loro fanno il resto. Il modulo è su internet e lo compilano come vuole il mediatore. Dietro compenso, ovviamente. Tra i 1500 e i 3000 euro. Alcuni, ma raramente, vogliono anche 5000 euro in contanti. A volte trovi anche imprenditori onesti. Qualcuno mi dice che vuole aiutare dei disperati e che lo fa gratis. Che chiederà il nullaosta senza niente in cambio. Sì, capita. Molto raramente, ma capita. La maggior parte delle persone ci vuole guadagnare.
«La mia attività è trovare le imprese agricole i cui proprietari, per soldi, sono disposti a bucare la normativa sui flussi. Soltanto negli ultimi sei mesi, con questo metodo in una piccola provincia ho ottenuto oltre centocinquanta nullaosta. Ho coinvolto tanti italiani, i quali sembrano non temere i rischi. Quanto è fruttato questo giochetto? Più di 600.000 euro in sei mesi. Un milione 200.000 in un anno e una quota simile è finita nelle tasche degli imprenditori agricoli. Io sovvenziono l’economia nazionale, offro sussidi all’agricoltura. Io non faccio nulla di male, anzi faccio solo del bene, anche a voi italiani, e in più aiuto tanti onesti pachistani che vogliono venire in Europa in cerca di fortuna».
Kabir, mediatore
Conviene scegliere l’agricoltore con qualche accortezza, selezionare con cautela è importante. Una volta avevamo fatto una richiesta per diversi nullaosta con un imprenditore davvero piccolo, che non dichiarava quasi niente al fisco. Sì e no aveva un fatturato di 6000 euro all’anno. Lo hanno chiamato e volevano sapere di più. «Con 6000 euro in un anno non sfami nemmeno le tue galline» gli hanno detto. «Come fai a permetterti di dare lavoro a stranieri?» Avevano ragione. È stata una svista, l’ho capito subito e non ho più sbagliato. Da allora ho cercato sempre quelli con il fatturato abbastanza alto, almeno sopra i 50-60.000 euro. Loro possono permettersi tanti braccianti stagionali e stiamo tutti più tranquilli.
Per ogni persona portata in Italia Kabir tiene per sé dai 3000 ai 4500 euro. Complessivamente ogni pachistano sborsa almeno 7000 euro, incluso il volo di linea. Intere famiglie contribuiscono al viaggio, spesso vendendosi quasi tutto quello che possiedono. Con il nullaosta e il documento d’identità entri in Italia direttamente dall’aeroporto di Fiumicino. Ma appena esci devi correre al centro di accoglienza, devi distruggere il tuo passaporto, strapparlo, bruciarlo, mangiartelo. Questo diciamo a quelli che aiutiamo. Devi stracciarti le vesti, bucarti le suole delle scarpe, sporcarti di terra mani e viso, mostrarti affamato e disperato. E, parlando afgano (pashtu, per la precisione), dire che sei arrivato via mare dalla Grecia, rinchiuso nel fondo di un camion nel garage di un traghetto. Quelle cose che si leggono sui giornali, insomma, avete capito... Probabilmente ti faranno fare delle visite mediche. Forse capiranno la verità, ma non potranno dimostrare nulla. Ti dovranno credere e ti concederanno l’asilo. E da quel momento tu potrai muoverti indisturbato in tutta Europa. E questo perché sei un pashtun e sai parlare la lingua giusta, scappi dalla guerra e puoi chiedere asilo politico.
Ci viene da chiedersi se questi continui traffici di uomini non siano un pericolo per la sicurezza nazionale e internazionale. Un canale continuo, privilegiato e relativamente semplice in cui infilare terroristi alla volta dell’Europa. I nomi si inventano, si possono falsificare passaporti o, ancora più facile, se ne possono ottenere di veri. Documenti validi con nomi falsi. Terroristi da fare entrare, in modo facile e veloce, anche in business class.
«La crisi? So benissimo che questo non è il momento migliore per venire a vivere qui, ma le persone non mi ascoltano. Vi voglio raccontare una storia. Ogni volta che torno a casa, in Pakistan, incontro molta gente. Un giorno mi è venuto a trovare un mio caro amico con cui andavo a scuola insieme. «Aiuta mio figlio a venire in Italia» mi chiede. «Non è il momento» gli rispondo. Lui rimane in silenzio. «Tuo figlio cosa fa?» gli domando. «Ha un laboratorio di analisi. Lo gestisce e ha clienti.» Lo guardo negli occhi e gli faccio: «Che rimanga qui allora, è molto meglio, credimi. Cerca di convincerlo». Il giorno dopo il mio amico torna con le lacrime agli occhi. Mi dice che ha riferito al figlio le mie parole ma il ragazzo è disperato e vuole andarsene a tutti i costi. Che se non parte si uccide con un colpo di pistola alla testa. Il mio amico mi spiega che preferisce perdere i soldi del viaggio piuttosto che perdere suo figlio. Non vuole averlo sulla coscienza. Deve partire. Allora lo rassicuro, gli dico che ci avrei pensato io a fargli cambiare idea e vado a trovarlo nel suo laboratorio di analisi. Il locale è bello, abbastanza grande e pulito. Il figlio del mio amico veste un camice bianco, tutti lo chiamano «dottore» anche se è semplicemente un tecnico. Rimango poco a parlare con lui, ha molto lavoro da sbrigare. Gli ripeto il discorso che ho fatto al padre. Cerco di fargli cambiare idea, gli parlo di cosa troverà e di quello che lascerà. Gli faccio presente che in Italia non avrà mai quello che ha in Pakistan. Che sta sbagliando. Ma non c’è niente da fare: lui vuole lasciare tutto e cercare fortuna, non pensa ad altro che all’Italia. Io li ho avvertiti, sia il padre sia il figlio. Io sono onesto, li ho avvertiti, ma era come parlare con dei sordi. Va bene, allora. Ecco l’Italia. Il figlio è arrivato. L’ho rivisto due anni dopo; lavora in nero nei campi e fa quasi la fame. Mi ha detto che avevo ragione, che si è pentito di non avermi ascoltato. Che avrebbe fatto molto meglio a restare in Pakistan, che questa non è la terra delle opportunità. Ma, come vi ho spiegato, le opportunità bisogna saperle cogliere quando è il momento».
Kabir, mediatore
«Da quando mi hanno rinchiuso qui dentro, mi sono tagliato due volte le vene con la lama di un rasoio di plastica. Perché? Perché nessuno mi crede. Voglio essere ascoltato. Per ottenere qualcosa bisogna reagire in un certo modo, la mia è una strategia. Voglio ottenere ciò che mi interessa. Per voi è strano questo comportamento, però dalle mie parti si usa così. In circostanze del genere, se vuoi una cosa e nessuno ti ascolta, bisogna fare un gesto deciso ed estremo». Taras, capitano
Taras è un uomo sui cinquant’anni, con occhi di ghiaccio simili a quelli di un husky. Il viso scavato, un fascio di nervi. Magrissimo. Veste in jeans attillati e t-shirt stretta. Sull’avambraccio sinistro ha un vistoso cerotto di cui continua nervosamente a toccare il lembo, quasi a voler sottolineare, senza bisogno di parole, il suo ultimo tentato suicidio. Comincia subito a raccontare. E parla di morte, di sequestro, di barche, di talebani, di coltelli, di costrizione. Di una truffa e di giudici che non lo ascoltano, di ingiustizie. Come un fiume in piena vomita parole veloci sull’interprete che traduce e arranca dietro ai suoi discorsi, forse più confusi di quanto non arrivino a noi tradotti. Prima voglio spiegare perché sono finito in mezzo a questa brutta storia. In Ucraina non c’è lavoro, non riuscivo a trovare uno straccio di impiego. Io sono un capitano, uno skipper. Ho conseguito un diploma nautico per portare barche fino a trenta metri. Per sfruttare questa mia professione mi sono messo a cercare lavoro tramite internet, ho pubblicato un annuncio e ho trovato una richiesta di un tizio che voleva trasportare via mare gli effetti personali della sua famiglia. Si dovevano trasferire dall’Albania in Grecia. Sono arrivato a Tirana dall’Ucraina, il biglietto me lo ha pagato lui. Una volta sul posto l’ho incontrato, mi ha mostrato le cose da trasportare: mobili, tavoli, scatoloni e altro. Abbiamo caricato tutto sulla barca e sono salpato. In Grecia non potevo rimanere, non avevo il visto, dovevo ritornare subito indietro. Quando siamo arrivati a destinazione il proprietario della barca mi ha offerto alloggio in casa sua. Sarei dovuto scendere a terra ma io mi sono rifiutato, non volevo avere casini. Se qualcuno mi avesse fermato avrei avuto dei problemi. Io pertanto avrei dormito in barca e lui l’indomani mattina sarebbe venuto a portarmi i soldi per il lavoro. Saremmo poi andati insieme alle autorità, avremmo richiesto il mio permesso d’ingresso giusto per arrivare in aeroporto e da lì tornare a casa mia in Ucraina. Le cose però sono andate diversamente. Stavo dormendo in mare, credo da non più di un’ora. Mi sono svegliato di soprassalto per le botte. Mi stavano picchiando. Mentre mi proteggevo con le braccia, ho intravisto cinque o sei persone intorno a me che mi riempivano di calci e pugni. Parlavano una lingua che sembrava arabo, mi stavano massacrando di botte. Non capivo cosa stesse succedendo, facevano domande che non capivo. Chiedevano che lingua parlassi. «Do you speak english?» «Sprechen Sie Deutsch?» Io rispondevo in russo. Tra questi ce n’erano un paio che parlavano la mia lingua, mi hanno detto che avrei dovuto guidare la barca e fare quello che mi ordinavano. Ho provato a dire loro che la barca non era mia, che dovevano parlare con il proprietario, io mi ero limitato a fare un lavoro e che dovevo tornare in Ucraina. Gridavo, ma non mi sentivano, continuavano a massacrarmi di botte. Ho visto che venivano caricate sulla barca molte persone. Una, due, tre, quattro, cinque... alla fine sessantasei. Potevano essere pachistani, afgani, cingalesi. Tutti stipati su una barca a vela di quindici metri, e con un piccolo motore, che poteva contenerne al massimo otto... Quella gente probabilmente si è affiancata alla barca con un’altra imbarcazione carica di clandestini, che non poteva sostenere la traversata tra le coste greche e quelle italiane. Mi hanno chiesto di uscire in alto mare. Cercavo di fare capire loro che non sapevo neanche quanto carburante avessi a disposizione. Eravamo appena arrivati dall’Albania e non avevamo fatto rifornimento, rischiavamo tutti che finisse in tragedia. Non sentivano ragioni, minacciavano di accoltellarmi, mi tenevano le lame alla gola. Mi hanno obbligato ad accendere il motore e iniziare il viaggio. «Vai avanti» urlavano. «Dove avanti? Avanti c’è l’Africa» rispondevo. Così hanno preso la mappa e hanno indicato il tacco dell’Italia: il Salento. «Vai lì. Vai lì» mi ordinavano. Dicevano di essere talebani, senza scrupoli, abituati a uccidere. Pronti a tutto. Che per loro tagliare la gola è come tagliare un dito. Non potevo fare altro che partire. Mi hanno costretto. Ci abbiamo messo sessanta ore dalla Grecia alle coste italiane. Non c’era niente da mangiare, fumavo e bevevo caffè per non addormentarmi. Non ho chiuso occhio per tre giorni. Durante tutto il tragitto li ho pregati di lasciarmi libero, volevo tornare a casa. Ho moglie, due figlie e i genitori anziani. Loro parlavano di me, si riunivano in disparte, capivo che facevano discorsi tremendi su di me. Si chiedevano se e quando uccidermi. Probabilmente la decisione è stata quella di arrivare sino alla costa italiana e poi farmi fuori. È stato in quel momento che ho strappato la carta nautica, per non morire dovevo rendermi indispensabile. Quando ne hanno trovato un pezzettino per terra, si sono infuriati. «Uccidiamolo!» qualcuno ha detto. «Fate di lui quello che volete, ma dopo che siamo arrivati in prossimità della costa» immagino abbia risposto il capo. L’ho capito dal tono della voce, dai gesti. Un po’ me lo traducevano quelli che parlavano russo.
Quando è finito il carburante eravamo a cinque miglia dalla costa. A bordo c’era un gommone, lo hanno messo in acqua. «Prendi i tuoi effetti personali e sali sul gommone» mi hanno ordinato. Però non mi hanno lasciato solo, sono saliti anche tre di loro, con i coltelli puntati contro di me. Avevo capito che l’intenzione era di uccidermi e liberarsi del mio corpo per poi tornare sulla barca. Ci siamo allontanati per circa due miglia. All’improvviso abbiamo visto la guardia costiera avvicinarsi ed è stata la mia salvezza. Avvistata la barca hanno gettato i coltelli in mare. Delle armi non è rimasta alcuna traccia. Sulla costa ci aspettava già la polizia, ci hanno fermati tutti e quattro. Poi sono andati a prendere le altre persone sulla barca a vela. Quando mi hanno arrestato, ho chiesto un incontro con le autorità in presenza dei giudici. Volevo un confronto, volevo spiegare cosa fosse accaduto, ma ho ricevuto solo un rifiuto. Sono stato trascurato. L’avvocato si è presentato senza un interprete.
Dal decennio scorso diverse agenzie di intelligence e polizia, in varie parti del mondo, hanno scoperto che le organizzazioni terroristiche internazionali stanno entrando sempre più in contatto con le reti che trafficano clandestini. Nel corso degli ultimi anni diversi gruppi terroristici hanno ricavato ingenti quantità di denaro dalle operazioni di smuggling. Si sono inoltre appoggiati ai trafficanti o sui loro servizi per far entrare illegalmente terroristi in paesi occidentali e per trasportare armi.
Già nel 2004 il rapporto della Commissione nazionale sugli attacchi terroristici contro gli Stati Uniti (la cosiddetta «Commissione 9/11») intitolato 9/11 e il viaggio del terrorista metteva in guardia sul nesso tra traffico di clandestini e terrorismo globale. Il rapporto indicava che diversi terroristi provenienti da più di una dozzina di noti gruppi estremisti fossero già stati assistiti dagli smuggler nei loro viaggi transnazionali. La Cia in particolare ha allertato riguardo a legami fra il traffico di migranti e gruppi terroristici quali Hamas, Hezbollah e la Jihad islamica egiziana. Nel rapporto inoltre si legge che «con la loro ramificazione globale e le connessioni con produttori e venditori di documenti falsificati e con ufficiali governativi corrotti, i trafficanti di uomini hanno le “credenziali” necessarie per supportare il viaggio del terrorista. [...] Queste connessioni, unite a controlli di sicurezza e di frontiera deboli in molti paesi, rendono i trafficanti di uomini una strada attraente per i terroristi che hanno bisogno di un aiuto nel viaggio. A seguito degli attacchi dell’11 settembre sono emerse informazioni aggiuntive che legano Al-Qaeda ai trafficanti di persone.
Ansar Al-Islam, cellula affiliata ad Al-Qaeda e implicata negli attentati di Madrid dell’11 marzo 2004, è un esempio concreto della sovrapposizione fra terrorismo e traffico di migranti. Il gruppo guadagnava ingenti fondi attraverso una sofisticata attività di contraffazione di passaporti venduti per facilitare migrazioni illegali in Europa. E usava queste sue competenze anche per muovere i suoi membri in paesi dove avrebbero condotto missioni suicide, inclusi Spagna e Iraq. Di recente anche i servizi di intelligence canadesi hanno sottolineato che tra i migranti ci sono dei terroristi.
Sono sempre i pesci più piccoli a essere beccati, quelli che vivono e lavorano nelle aree calde, in cui il rischio è molto più alto. I trafficanti più importanti, i numeri uno, sono, al contrario, quelli che hanno meno problemi con la giustizia e che, se catturati, riescono spesso a cavarsela con poco. È perciò più probabile che sconti una lunga pena detentiva uno scafista, un factotum di medio livello, un operativo, uno che ricopre ruoli da gregario o da ausiliario. Gli organizzatori, i pesci grossi, restano nelle retroguardie, in avamposti sicuri.