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 2015  marzo 03 Martedì calendario

UNA NUOVA SPERANZA NELL’URNA


«Da quando è iniziata la guerra, ho la sensazione di non essere neanche qui», dice il mio vicino di casa dalle idee di sinistra, mentre il suo cane piscia sulla mia recinzione. «Cammino per strada e mi pare che le suole delle scarpe non sfiorino neanche lo schifo che c’è intorno. È come se levitassi a venti centimetri da terra. Non so se riesco a spiegarmi. Mi sento come un turista in un Paese straniero. È una sensazione bruttissima».
Non è la prima volta che sento parlare di questa esperienza: ritrovarsi improvvisamente stranieri nel proprio Paese. Più di un americano mi ha descritto una sensazione simile dopo che George Bush jr. è stato eletto per la seconda volta, mentre altri, all’estremo opposto dello spettro politico, raccontano di un’esperienza analoga in riferimento all’elezione di Barack Obama. La situazione in cui un cittadino preferisce un certo governo, ma deve accettarne uno diverso, è un fatto comune e normale in tutti i Paesi democratici, ma ci sono momenti, più rari e difficili, in cui un elettore sente che il governo in carica non solo non rappresenta le sue opinioni politiche, ma neanche lo spirito della nazione.
Nella storia recente dello Stato di Israele ci sono stati molti momenti di quest’ultimo genere, e si ha l’impressione che, con l’attenuazione della coesione sociale, si stiano ripetendo sempre più spesso, in modo sempre più intenso.
All’epoca degli accordi di Oslo, molti sostenitori della Grande Israele ritenevano che il governo di allora, con il suo piano di cedere ai palestinesi un territorio che loro, gli israeliani, avevano ricevuto in dono da Dio, stesse deviando dal mandato ricevuto. Questo senso di estraneità nei confronti del governo portò addirittura all’assassinio del primo ministro in carica. Un evento non meno traumatico per i sostenitori della Grande Israele fu il disimpegno da Gaza (2004- 2005): in quell’occasione, molti di loro videro nell’esercito, inviato a evacuarli con la forza, una crudele armata straniera, non certo i difensori del loro popolo.
Ora, invece, sotto il governo più destrorso e razzista della storia dello Stato di Israele, tocca a una diversa fetta dell’opinione pubblica sentirsi poco o per nulla rappresentata, estranea alla propria classe dirigente politica.
L’etichetta usata dai leader di destra per descrivere questa fetta dell’opinione pubblica, che ha subito minacce e boicottaggi la scorsa estate, è quella di “sinistra radicale”. Ma questa definizione demagogica è ben lungi dall’essere corretta. Lo dimostra il fatto che il presidente di Israele, Reuven Rivlin, uno dei principali esponenti della destra israeliana, figura tra i critici più spietati dell’attuale governo e della via anti-democratica su cui ci sta conducendo.
“Radicali di sinistra”, perciò, non è una formula adeguata a descrivere tutte quelle persone per cui lo spirito degli attuali leader politici nazionali si starebbe allontanando da quello del popolo. Potrebbero essere definiti, più precisamente, “liberali” e “democratici”, perché ritengono che l’uguaglianza e la libertà di espressione siano elementi vitali per la moderna società ebraica, soprattutto alla luce della persecuzione e delle discriminazioni che il nostro popolo ha sofferto nel corso della storia.
Negli ultimi sei mesi Israele ha vissuto molti eventi che hanno intaccato la sua connotazione democratica e liberale. A livello politico, durante l’operazione “Protective Edge” abbiamo sentito invocare, da parte del nostro ministro degli Esteri, un boicottaggio delle imprese arabe solo perché i loro proprietari avevano espresso solidarietà per le sofferenze dei civili a Gaza. Abbiamo assistito al provocatorio ingresso di famiglie ebree nei quartieri arabi di Gerusalemme Est e alla non meno provocatoria visita di un parlamentare della destra israeliana sulla Spianata delle Moschee. In ambito legislativo, sul tavolo della Knesset, il parlamento israeliano, sono arrivate diverse leggi molto controverse, fra cui spiccano per la loro gravità quella sull’immigrazione illegale e sulla ridefinizione di Israele come “stato nazionale del popolo ebraico”, entrambe fondate sulla discriminazione tra cittadini ebrei israeliani e coloro che professano fedi religiose diverse. Questa atmosfera bellicosa non regna, però, soltanto nei corridoi della Knesset.
Dopo il rapimento e l’omicidio dei tre giovani israeliani a Gush Etzion, nello scorso giugno, si è avuta un’ondata di crimini motivati da odio razziale, inaugurata dall’orrendo assassinio di un ragazzo palestinese, proseguita con le turbolente manifestazioni in occasione di un matrimonio fra un uomo arabo e una donna ebrea a Jaffa e culminata, lo scorso novembre, nell’incendio della scuola bilingue di Gerusalemme, che rappresentava uno dei più avanzati e toccanti esempi di coesistenza tra arabi ed ebrei in Israele.
Nulla più di una nuova campagna elettorale ha il potere di riportare con i piedi per terra il mio vicino di sinistra e il suo cane. Non può più nascondere la testa in un buon libro; sarà costretto a guardare in faccia la realtà e a mettere nell’urna la sua scheda in quelle che potrebbero rivelarsi le elezioni più importanti della storia di Israele. Se deciderà di rinunciare a questo diritto democratico sarà almeno in parte responsabile delle eventuali ingiustizie che ne seguirebbero. Nel profondo, tutti i cittadini di questo Paese sanno che le prossime elezioni determineranno non soltanto il futuro politico ed economico, ma soprattutto quello sociale e morale.
Intendiamo diventare – come pretendono gli estensori della nuova legge sulla definizione dello stato d’Israele – un Paese prima di tutto ebraico e solo in seconda istanza democratico, o cercheremo di essere una società egualitaria che non fa distinzioni discriminatorie tra cittadini che professano fedi religiose diverse?
C’è chi sostiene che, se non sceglieremo il Terzo Tempio, ci ritroveremo a Sodoma e Gomorra. Altri obiettano che se non resteremo fedeli al modello occidentale, ci ritroveremo in Iran.