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 2015  marzo 03 Martedì calendario

PARADISI FISCALI? I BIT DI GOOGLE

Irrompe ancora una volta sulle prime pagine dei giornali il tema delle reti infrastrutturali, quelle televisive e di telecomunicazioni, sempre confinate al dibattito fra gli addetti ai lavori. Non è casuale in questi giorni il sovrapporsi dell’opas pressoché totalitaria lanciata da Ei Towers (controllata dal gruppo Fininvest) su Rai Way e il preannuncio di una decisione del governo volta a dare attuazione alla strategia italiana per la banda ultralarga.
C’è uno scenario di investimenti a lungo termine al cui interno si iscrivono entrambi le questioni: l’uscita dalla crisi impone strategie nuove e investimenti conseguenti, tenendo conto delle evoluzioni tecnologiche e di quanto avviene in altri Paesi per quanto attiene alle modalità di consumo nelle comunicazioni e nell’entertainment. Si cercano progetti e investitori: il Piano Junker e il Qe della Bce hanno mosso enormi appetiti. La torta è gigantesca e i soggetti come Metroweb, in uno scenario in cui la competizione tra gli operatori di rete è service-based e non infrastructure-based, non hanno molto futuro.

Il problema non è tanto la già acquisita convergenza tra contenuti televisivi e reti di telecomunicazioni a livello di standard digitali, quanto l’effettiva disponibilità di banda ultra-larga sul territorio, a un livello di capillarità territoriale e di accessibilità economica tali da rendere conveniente il lancio di nuovi servizi, come quello della Ip-Tv. Parliamo dell’evoluzione della rete fissa di tlc, che sfrutta le potenzialità della fibra ottica nelle diverse architetture, in funzione di una fruizione di servizi televisivi in alta definizione su grande schermo. Il cliente-spettatore sarà in grado di scegliere, anche in Italia, in un archivio pressoché sterminato di titoli, fra film e serial, vecchi e nuovi, e in prima visione, fruendone in tempo reale. Il passaggio è rivoluzionario: si passa da un mercato tradizionale, in cui il 20% dei contenuti editoriali fattura l’80% dei ricavi, a uno in cui l’enorme disponibilità di contenuti disperde questa polarizzazione. È tutto molto discutibile, visto che oggi anche gli operatori più famosi per operare secondo il criterio della «lunga coda», come ad esempio Netflix, sono stati costretti a divenire essi stessi produttori di serial di successo: la coda sarà pure lunga, ma il mercato chiede un traino sempre forte e propulsivo di novità. Nel mondo dei contenuti l’unica vera distinzione rimane tra eventi dal vivo (il calcio innanzitutto) e contenuti a fruizione non contemporanea e ripetibile, il cui valore degrada comunque nel tempo. Quello che prevale è solo il volume complessivo dell’offerta in abbonamento: quella più ampia spiazza le altre, sempre e comunque. Per i media italiani, giornali e periodici, i proventi sono crollati per via della crisi, con la riduzione di vendite e fatturato pubblicitario.

La situazione è analoga nel settore televisivo a pagamento, come dimostrano i dati di Sky e Mediaset Premium. Ciò impatta anche sul ritorno degli investimenti recenti: il lancio del digitale satellitare da parte di Sky e la transizione dall’analogico al digitale terrestre sono stati finanziati dai rispettivi operatori. Metter su, ovvero adeguare, circa 5 milioni di parabole sui tetti delle case e digitalizzare tutto il sistema produttivo e trasmissivo è stato un processo lungo e costoso. Lo Stato è intervenuto nei primi tre anni solo per finanziare l’acquisto dei decoder per il digitale terrestre, misura contestata dalla Commissione Ue in quanto escludeva i decoder satellitari. L’opas su Rai Way si muove su un piano solido, dal punto di vista sia economico che finanziario per quanto riguarda il business delle torri di trasmissione televisiva. Le sinergie con Ei Tower ci sono, tant’è vero che la scelta di un operatore unico è stata adottata in altri Paesi come Francia (Tdf) e Gran Bretagna (Arqiva), ma anche in Alto Adige, sotto l’egida della Provincia. Il punto cruciale è che Rai Way , molto più di Ei Tower, è una vera e propria rete di telecomunicazioni, pensata e costruita come tale e non solo come un sistema di trasmissione e diffusione circolare del segnale televisivo. Non è un caso che le sedi regionali della Rai ne rappresentino veri e propri nodi di rete, circostanza del tutto ignorata da chi vuole chiuderle pensando che si tratti di edifici qualsiasi. Rai Way rappresenta una rete tendenzialmente alternativa a quella di Telecom, basata già sulla capacità trasmissiva a larghissima banda wireless, sempre più integrabile con le reti degli operatori mobili che sono i veri motori della innovazione digitale. C’è questo fenomeno, l’integrazione televisiva tra grandi e piccoli schermi: si assiste all’evoluzione della fruizione televisiva dalla postazione fissa a quella nomadica su piccolo schermo. Sempre più spesso si guardano film e partite televisive su tablet e smartphone: tra l’altro, sono venduti per categorie correlate alla dimensione dello schermo in pollici, come i televisori. La soluzione del Dvb-h, la televisione digitale sul telefonino, ha visto pioniera l’Italia, ma è stata abbandonata perché allora gli schermi dei telefonini erano troppo piccoli e soprattutto per l’ostilità degli operatori televisivi, che non accettavano di perdere a favore degli operatori mobili il contatto commerciale diretto con il «loro» cliente. In Italia la realizzazione di una rete fissa a banda ultra-larga strutturata per la distribuzione del segnale video, come se fosse una moderna televisione via cavo che mette a disposizione in tempo reale i contenuti della «lunga coda», potrebbe rottamare gran parte degli investimenti fatti dagli operatori televisivi per realizzare le proprie reti digitali, terrestri e da satellite, e da quelli mobili che stanno investendo sulla banda ultra-larga mobile.

L’investimento finanziario va letto in funzione di un posizionamento di mercato: un’offerta televisiva teoricamente illimitata, che passerebbe sulla rete fissa a fibra ottica, spiazza quella tradizionale. Soprattutto quella dei piccoli editori. La rete fissa a banda ultra-larga rappresenta un’evoluzione sistemica: come Internet, apre le porte a nuovi modelli di business. È ben noto il caso di Google, che non paga tasse sulla pubblicità raccolta in Italia. Non è un tema da poco, perché ne va di mezzo la struttura del mercato: le persone che usano internet leggono i contenuti editoriali gratuitamente, perché pagano solo la connessione agli operatori di rete. Google, che si limita a indicizzare quei contenuti per renderli disponibili su internet, guadagna con la pubblicità che dipende dallo sterminato numero di contatti che rende disponibile. Gli editori perdono lettori e proventi pubblicitari. Un gioco al collasso per gli operatori di rete e per gli editori: guadagnano solo i soggetti «over the top». A questo punto quando si parla di rete fissa a banda ultra-larga bisogna capire bene chi paga, per fare che cosa e dove vanno i soldi. Non solo quelli degli investimenti nelle reti, ma soprattutto quelli dei servizi che saranno offerti. Non basta: ci sono le implicazioni sulle reti televisive, digitali terrestri e via satellite, appena realizzate con i capitali dagli editori televisivi.

C’è infine l’impatto sulle reti a banda ultra-larga degli operatori mobili. Bisogna decidere se e quante tasse per i servizi di televisione su Ip saranno pagate e se contribuiranno al rimborso degli investimenti necessari per realizzarla. I veri paradisi fiscali non sono né la Svizzera né il Liechtenstein, ma le architetture del mercato dei media che drenano risorse a favore di un oligopolio tributariamente inafferrabile. Siamo al paradosso: si realizzerebbe una rete a banda ultra-larga con soldi pubblici, che rottama investimenti privati nel settore televisivo, su cui si pagano le tasse in Italia. Tutto questo al solo fine di rendere profittevoli servizi da parte di altri soggetti che non investono e neppure pagano tasse. Kazzenger!