Giampaolo Pansa, Libero 1/3/2015, 1 marzo 2015
LA PAURA DEI RAGAZZI DIVENTA UN ALIBI PER NON DARSI DA FARE
I partiti politici distruggono l’Italia e i giovani fanno finta di niente. Chi non diventa un ultrà del calcio oppure un antagonista rosso per il piacere di menare le mani, ha scelto la strada del lamento. Studiare non piace. Il lavoro non si trova. I genitori rompono. I vecchi non lasciano i posti migliori. Le donne si concedono soltanto a chi è ricco. Insomma il mondo è il loro nemico. Un avversario che fa paura. Il Pansa ha imparato da piccolo a non avere paure inutili. Prima di tutto del freddo che nella nostra città sul Po durava da novembre a marzo. Mia nonna Caterina mi aveva insegnato come si accende una stufa senza sprecare troppa legna. Idem per il camino. Il prete per scaldare il letto andava preparato con intelligenza: una dose giusta di brace e sopra la cenere, né troppa né poca. Nei lunghi inverni nessuno pretendeva di andare sbracciato. Bisognava coprirsi bene. Ho portato anche le mutande lunghe di lana. Il cappotto non doveva essere bello o all’ultima moda. L’imperativo era che tenesse caldo. Ho avuto un paltò marrone, colore che odiavo. La stoffa era un regalo dell’Unrra, l’ente delle Nazioni unite per il soccorso e la ricostruzione dei paesi colpiti dalla guerra. Aveva la cimasa con i colori della bandiera italiana. «Questo ce lo manda il presidente americano Truman» mi spiegò mia madre Giovanna, innamorata degli Stati Uniti. Il cappotto era importante perché bisognava andare a scuola con qualunque tempo, anche se la neve cadeva così tanta da sembrare pagata. Le aule delle elementari erano riscaldate poco e male da stufe in terracotta alimentate dagli scolari che dovevano portare da casa un pezzo di legno. Anche il maestro Dondero arrivava con il suo ceppo. Era un signore con gli occhiali dalla sottile montatura d’oro. Infaticabile nel sua missione di insegnarci che lo studio era la condizione prima per non avere una gioventù da sbandati e da poveri senza soldi. Lo sapeva bene mio padre Ernesto, penultimo di sei bambini orfani, che a nove anni era stato messo al lavoro come guardiano delle mucche. Mi raccontò che le vacche gli sembravano bestie enormi e facevano paura. Ma era costretto a conviverci perché Caterina aveva bisogno della sua piccola paga. A dieci anni Ernesto trovò un secondo lavoro: spazzino delle stalle. Poi diventò un aiuto muratore, quindi elettricista, infine apprendista guardafili del telegrafo. Arruolato nel Genio, si sciroppò quasi tutta la Prima guerra mondiale e si salvò per un pelo nella ritirata di Caporetto, dove buscò la malaria. Per lui e per mia madre Giovanna, arrivata alla quinta elementare e diventata a dieci anni la lavorante più piccola di una pellicceria, il maestro Dondero era un santo che andava venerato e obbedito. Quando la guerra stava per finire, suggerì a Ernesto e Giovanna di farmi saltare la quinta elementare. Diedi l’esame, lo passai e nell’ottobre del 1945 entrai in prima media. Avevo dieci anni e i miei compagni di classe erano più grandi e grossi di me. Faticavo a seguire i professori. Non capivo l’analisi logica. Ma a poco a poco mi rimisi in carreggiata. Ad aiutarmi furono i libri per ragazzi che mia madre mi acquistava di continuo. Diventai un lettore instancabile, divoravo uno dopo l’altro i romanzi della Scala d’oro. In terza media dissi a Ernesto che volevo scrivere anch’io un libro d’avventure. E dopo aver superato l’esame di licenza lui mi regalò una macchina da scrivere di terza mano, una Underwood americana del 1914. Il mio futuro di giornalista iniziò allora. Lo decisi da solo, visto che in casa papà e mamma mi ripetevano di continuo: «Arrangiati, datti da fare, devi contare soltanto su te stesso». Cominciai a regolarmi così al ginnasio e poi al liceo classico. Nel frattempo sulla Underwood scrivevo la cronaca di inesistenti partite di calcio del Casale Fbc, i famosi nerostellati, e dei racconti che ripetevano le trame dei film di avventure che vedevo al cinema. Le prime femmine che desiderai erano le attrici. Accadeva anche ai miei amici. A turbarci era la formosa Yvonne Sanson in «Catene». Parlare di donne e di amori era il nostro spasso preferito. Le gite scolastiche non esistevano. Nessuno di noi andava in vacanza. Passavamo le estati ai giardini pubblici, sempre sulla stessa panchina. Immersi in lunghe discussioni sull’esistenza di Dio e sul tipo di femmina che ci faceva impazzire. Poi incontrammo la politica e scoprimmo di essere socialisti. Un giorno ci presentammo in quattro, tutti diciottenni, al Califfo. Chiamato così perché aveva ben tre cariche: sindaco della città, segretario del Psi e deputato. Il più loquace di noi gli disse che volevamo iscriverci al partito. Il Califfo ci ascoltò incredulo, poi si alzò di scatto e iniziò a urlare: «Farvi entrare nel partito? Non sono mica fesso. Vi conosco, siete dei rompi al cubo e non mi lascereste campare. Uscite subito da questo ufficio!». Ci vendicammo creando un circolo culturale intitolato a Piero Gobetti. Molto frequentato da ragazze snob che si facevano desiderare e non si lasciavano acchiappare. All’università di ragazze ne vedevamo tante, ma ci tenevano alla larga. Nel 1955 quella di Torino era l’Accademia dell’obbedienza. Il potere dei professori era assoluto. Alla prima lezione del suo corso, Luigi Firpo, un barone dalla cultura immensa, ci informò: «Qui comando io e faccio quello che mi pare e piace». Mio padre Ernesto segnava su un taccuino gli esami che superavo. Se non prendevo trenta, diventava malmostoso. Inutile spiegargli che esistevano docenti carogne che godevano a stangarti. Ernesto esclamava: «Sono sempre meglio delle vacche che cercavano di incornarmi!» Un gemello di Firpo era il direttore della Stampa, Giulio De Benedetti. Mi assunse alla fine del 1960 perché avevo vinto il premio Luigi Einaudi per la tesi di laurea. Lo stipendio era ottimo, ben più alto di quelli d’oggi. In compenso l’orario di lavoro andava dalle due del pomeriggio a mezzanotte, dieci ore filate. Se facevi un errore, ti arrivava una lettera secca di rimprovero. Se facevi più del tuo dovere, un’altra lettera ti annunciava un premio. De Benedetti aveva già passato i settanta, ma aveva l’energia di un giovane despota, sempre con la frusta in mano. Una sera mi chiese: «I professori della nostra università sono più severi di me?». Gli risposi: «No, direttore. Non c’è confronto con lei». Gidibi replicò: «Chi comanda deve stare tutti i minuti sul chi va là. Tanti anni fa, quando ho intervistato Hitler, lui non si è accorto di avere di fronte un giornalista ebreo». Quando mi dimisi per passare al Giorno di Italo Pietra, il suo congedo fu brutale: «Fa bene ad andarsene. Molti suoi colleghi sono sempre rimasti qui e adesso nessuno li vuole più». E oggi? Come sta la scuola, dove i ragazzi si confrontano con il mondo? Venerdì ho letto sulla Stampa la confessione di una insegnante di lettere nella media inferiore. Molti alunni devono essere aiutati a leggere. Non sanno decifrare moltissime parole. Al posto di «stanza» pronunciano «staza». Tanti non sanno scrivere senza errori. Scrivono «pancha» invece che «panca». «La scuola media è un vero campionario di somari» dice la prof. «I più svantaggiati sono i pochi alunni che hanno la colpa di capire che cosa spiega l’insegnante. Ma corrono il rischio di rimbecillire. Questa è la scuola pubblica di oggi». Ok, speriamo sia la volta buona per il destino dell’Italia.