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 2015  marzo 02 Lunedì calendario

Notizie tratte da: Claudia Roth Pierpont, Roth scatenato. Uno scrittore e i suoi

Notizie tratte da: Gianni Minà, Il mio Ali, Rizzoli – Rai Eri 2014, pp. 448, 18 euro.

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«Il mio Dio mi ha dato talmente tanto nei primi quarant’anni che, se adesso mi toglie qualcosa, sono sempre in pari con la vita».

«È dura essere un negro. Ti è mai capitato di esserlo? A me sì, una volta, quando ero povero» (Larry Holmes, ex campione del mondo dei pesi massimi ed ex sparring partner di Ali).

«Chi avrebbe mai dato retta a un ragazzo nero nato nel Kentucky, figlio di un artista di strada, se non avesse conquistato contro quel cattivo di Sonny Liston, nel ’64, il titolo di pugile più forte del mondo?».

Cassius Clay divenne campione del mondo superando Sonny Liston in due match che, probabilmente, furono truccati. È una storia che nella boxe americana ormai si racconta senza reticenze, perché non intacca il valore e neanche la buona fede di Clay, ma è anche una storia che Clay non ha mai accettato.

All’indomani del match con Sonny Liston del febbraio ’64 Clay annunciò di essere diventato ministro di culto dei Musulmani Neri e da quel momento non volle più essere chiamato Cassius Clay, nome ereditato dai padroni bianchi, ma Muhammad Ali, il nome della sua origine africana e musulmana.

«Io non ero un seguace di Malcom X. Chi mi ha conquistato è stata la fede islamica. Malcom X era uno studente della fede musulmana, come me. Aveva anche altre idee che non erano e che non sono le mie. Io credo che la verità sia nella fede islamica e in quello che predica Elijah Muhammad, l’uomo che noi riteniamo sia il messaggero di Dio per gli uomini che qui, negli Stati Uniti, sono chiamati “neri”».

Nel 1967 si rifiutò di prestare servizio militare nel Vietnam per «motivi religiosi e di coscienza». Lo difese con successo Chauncey Eskridge, il primo avvocato nero d’America, lo stesso che fece uscire dal carcere Martin Luther King dopo le marce della pace. A Clay fu però ritirata la licenza di pugile per tre anni, dal 1976 al ’70. Perse così il titolo mondiale conquistato nel ’64 contro Sonny Liston e, secondo i calcoli degli esperti, circa 10 milioni di dollari dell’epoca per l’inattività.

«Io non ho nulla contro questi Vietcong, non li conosco nemmeno e non vedo perché dovrei, come dice il governo, combattere per portare la libertà in Vietnam, quando questa libertà è ancora negata, in molte circostanze, a migliaia di fratelli neri negli Stati Uniti».

«Non ho mai avuto paura di andare in prigione. In questo Paese noi neri siamo abituati ad andare in prigione, siamo abituati a essere imprigionati senza motivo. Le prigioni americane sono piene di neri che non hanno un buon avvocato che provi la loro innocenza. E poi, se ci ripenso, Gesù Cristo è stato in prigione, e anche Mosè e Martin Luther King, e l’onorevole Elijah Muhammad, il nostro maestro e capo religioso, anche lui c’è stato per cinque anni».

«Io penso che ci siano due tipi di uomini: quelli che non prendono mai posizione e quelli che non hanno paura di compromettersi. Io appartengo a questa seconda specie. Bisogna soltanto essere consapevoli del prezzo che bisogna pagare. Gli ebrei hanno sofferto per anni e sono morti nelle camere a gas. I cristiani sono stati dati in pasto ai leoni perché non avevano voluto negare il loro Dio».

«A Roma ero diventato campione del mondo e credevo di rappresentare un vanto per il mio Paese. Ricordo che giravo tutto il giorno con la medaglia al collo e non me la toglievo nemmeno quando andavo a dormire. Finirono le Olimpiadi e partimmo per New York. Anche lì feste e complimenti, qualcosa sembrava davvero cambiato nella mia vita di povero nero di Louisville. Ma poi presi un altro aereo e andai a casa. Arrivai in città e presi un autobus; avevo sempre la medaglia al collo ma qualcuno, incurante, mi disse con molta freddezza che essendo nero era meglio che mi accomodassi in fondo alla vettura. Capii che nulla era cambiato nella mia vita, che nulla sarebbe mai cambiato. Rimasi di questa opinione finché non incontrai Elijah Muhammad».

«Il mio modo di stare sul ring e di provocare l’avversario non sarebbe servito a niente se non avessi capito quasi subito che dovevo utilizzare i mezzi di comunicazione invece di farmi usare, se veramente volevo rendere manifesto il mio disagio, la protesta, il dolore, le richieste, l’orgoglio della mia gente. Dovevo utilizzare quei microfoni che mi buttavate davanti alla bocca, dopo le mie vittorie».

«Nessuno, nemmeno il presidente degli Stati Uniti, Jimmy Carter, richiama tanti giornalisti, televisioni, fotografi, quanto me».

«Sono arrivato a Mosca e ho suonato il campanello al Cremlino: sono Muhammad Ali, ho detto, e Breznev mi ha ricevuto subito».

«La boxe è un duello psicologico. La sera precedente del match con Foreman, nel ’74, durante le operazioni di peso nel grande stadio di Kinshasa, capii che avevo già vinto. Io ero felice e l’aria di “Mamma Africa” mi riempiva i polmoni. George, invece, non sentiva il piacere di quelle radici. Era un giovane americano annoiato da un mese di clausura, senza tv, in un albergo dove per di più si parlava francese» (a Giovanni Paolo II, che lo ricevette in udienza privata nel maggio 1982).

La sera dell’81 in cui, a trentanove anni, tornò sul ring dopo tre anni di inattività e si fece picchiare senza sapersi difendere da Larry Holmes. Nella conferenza stampa dopo il match Holmes non finiva di elogiarlo: «Quest’uomo mi ha insegnato la boxe, mi ha insegnato la dignità, mi ha insegnato a vivere…». Alì allora prese il microfono e guardando Holmes disse: «Ma allora perché mi hai menato». La sala stampa scoppiò in un applauso fragoroso.

«Tutti i pesi massimi che ho incontrato dovrebbero ringraziare il loro Dio perché io sono nato e sono il presuntuoso che sono, o che voglio apparire. Se io non fossi così, loro non avrebbero mai conosciuto una vera notorietà e non avrebbero mai guadagnato per il fatto di aver potuto aspirare a essere un avversario del mio successo».

«Non fumo, non mi ubriaco, non mi avvilisco nella caccia alle donne bianche come fanno molti fratelli neri. No, qui non è il caso di domandarsi se la fede musulmana mi ha ripagato dei sacrifici che ho fatto in suo nome; sono io, invece, che domando quanto devo essere grato alla religione che mi ha fatto riscoprire la mia dignità di uomo».

Ali rivolto a Frazier, nel gennaio 1974, alla vigilia della rivincita al Madison Square Garden: «Io non sono un nero come te che compri pellicce di visone e Rolls-Royce…». E Frazier: «Io però non vado in Rolls-Royce nei ghetti…». E Ali. «Tu nei ghetti non ci vai proprio, hai troppi amici bianchi».

Il match del secolo tra Foreman e Ali a Kinshasa era costato al dittatore dello Zaire Mobutu Sese Seko 14 milioni di dollari (5 milioni a testa solo ai due pugili). Aveva riunito più di un milione di telespettatori in tutto il mondo, ma in Zaire era stato visto al massimo da seimila persone, più o meno quanti nel Paese avevano un apparecchio televisivo.

Per prepararsi al match con Foreman, Ali si era preso in affitto una casa in riva al fiume Congo, quello della tradizione dei neri arrivati schiavi a Bahia, a Cuba o a New Orleans, e si sedeva spesso davanti al fiume, da solo.

Quando di solito doveva preparare un match importante, Ali si preparava a Deer Lake, un paesino di mezza montagna, poco lontano da Filadelfia, dove con le sue mani aveva costruito le baracche di legno che formavano il quartiere d’allenamento. C’erano anche enormi massi con dipinti i nomi dei più grandi pugili della storia.

Nel 1955 a Louisville qualcuno aveva rubato la bicicletta di Cassius Clay, fuori da un locale dove era in programma un concerto rock. Cassius andò allora a lamentarsi alla stazione di polizia che stava lì a fianco e un poliziotto gli consigliò di imparare a tirar cazzotti se voleva davvero vendicarsi. Lo accompagnò poi nello scantinato sottostante dove c’era una palestra e gli aveva fatto firmare un foglio. Iniziò così la carriera di pugile di Cassius Clay.

Belinda, ex cassiera di un supermercato, seconda moglie di Ali (lo ha sposato a 16 anni), da cui ha avuto quattro figli: «Nella casa di un musulmano, l’uomo è la star. Per questo io sto sempre in seconda linea. Se Ali è il campione del mondo dei pesi massimi, devo lasciarglielo essere. Se lui combatte, io me ne sto un po’ indietro, perché non sono sportiva e non sono Ali».

«Io sono il più forte di tutti i tempi. Norton è riuscito a battermi una volta che non mi ero allenato e in cui ho scherzato troppo. Ho pagato, dice la mia religione, se non sei serio paghi…».

«Guardate ora la mia faccia. È proprio una bella faccia. Io so che sono bello, sono il più bell’uomo dello sport. Pensate che adesso persino Hollywood mi vuole. La Columbia ha pagato 5 milioni di dollari prima ancora di sapere se io potevo essere un grande attore o no. Il direttore della Columbia mi ha detto: “Tu hai recitato per anni, per anni hai preso in giro la gente, figuriamoci se posso avere dei dubbi sulle tue doti di attore».

«Il mio, quando arriva una certa età, è un mestiere barbaro, specialmente se, pur essendo piuttosto vecchio, vali ancora molto, o comunque vali per chi ti sta intorno. Io non adoro il denaro, ma serve non solo per me ma per tutta la mia gente».

Nel 1969 a Louisville, Kentucky, un giovanissimo Clay si presentò da Angelo Dundee, allora procuratore del campione del mondo Willie Pastrano. «Venne a trovarmi nell’albergo dove stavo con Pastrano. Lo feci salire. Era lungo e secco. Si presentò subito così: “Sono il più grande pugile che sia mai apparso sul ring. E siccome so che lei è il più bravo allenatore che c’è in America, io voglio farmi guidare da lei”. Mi misi a ridere, ma capii che quel ragazzo non mentiva».

Angelo Dundee, l’allenatore italo-americano di Ali, alla vigilia del match con Shavers nel settembre 1977: «Chill’è u’ pazzaglione, tiene ’a nausea della boxe, e ancor più degli allenamenti. L’ultimo training serio l’ha fatto nell’autunno di due anni fa per la terza sfida con Frazier».

«La boxe probabilmente finirà quando finisco io, almeno quella legata a questo show, in città-fabbriche del divertimento. Però lasciatemi qualche volta smettere, lasciatemi rientrare in me. Alla fine della mia carriera non posso rischiare di diventare una marionetta di me stesso» (alla vigilia del match con Leon Spinks, nel febbraio 1978).

«La gente mi ha conosciuto in un certo modo, e deve vedermi finire in gloria, danzando» (alla vigilia del match con Leon Spinks, nel febbraio 1978).

«Nella vita si vince e si perde e ci sono dolori ben più grandi. Ero abituato a vincere sempre. Adesso devo solo superare questo momento e vincere di nuovo. Ma una cosa è parlare, una cosa è essere dentro il ring» (dopo la sconfitta con Leon Spinks, nel febbraio 1978).

«Io sono il più grande spettacolo del mondo; come me ci sono solo i Mondiali di calcio e le Olimpiadi, ma c’è una differenza, là ci vogliono mille attori per fare l’avvenimento, per il mio spettacolo basto solo io».

Il dottor Pacheco, che molti anni aveva seguito Ali all’angolo, si defilò quando il pugile decise di tornare a combattere contro Holmes: «Ali non è più quello di una volta. La vita, le vicende che ha dovuto affrontare, la stessa lunghezza della sua carriera lo hanno usurato. Una preparazione tremenda come quella sostenuta per ritornare in peso e in condizioni possibili per affrontare Holmes lo hanno distrutto. Se è vero che ha anche abusato di diuretici e altri farmaci allora è pazzo. Stanno giocando con la sua pelle».

Nino Benvenuti, commentando la sconfitta con Larry Holmes dell’ottobre 1980: «Ali ha combattuto praticamente solo con gli occhi, con quello sguardo incredibile che per anni ha condizionato, ha ipnotizzato avversari anche più potenti e più duri di lui. Poi anche i suoi occhi si sono fatti stanchi, non per le botte ma per l’usura di una vita vissuta di corsa, senza guardarsi mai indietro».

«Ahora parece un cura» (adesso sembra un sacerdote) disse Gabriel Garcia Marquez la sera del 1982 in cui incontrò Muhammad Ali in un ristorante di Trastevere.

Ali accusò i primi sintomi del Parkinson nel 1982. Nel 1987 spiegò: «Non so perché dicono che sto tanto male. Certo sono stanco, spesso molto stanco, ma ho vissuto quarantacinque anni come se fossero cento; ho corso, ho viaggiato, ho dato tanto. Per me sarebbe impossibile essere come una volta, ma non sono ancora da buttare via».