Chiara Dino, IoDonna 28/2/2015, 28 febbraio 2015
PRATO, PROVINCIA DI PECHINO
Chinatown, Prato. È lunedì mattina, le strade sono un fiume pullulante di persone ma non ci sono pratesi. Tra via Filzi e via Pistoiese, le due arterie dell’immigrazione d’Oriente, i muri delle abitazioni sono scrostati, le insegne sono colorate di fucsia, di verde, di blu e ricoperte di sinogrammi. Molti i ristoranti e le agenzie che organizzano matrimoni all’interno della comunità immigrata. E poi i loro supermercati, le loro agenzie di viaggio, i loro bar. I negozi vendono abiti di qualità scarsa con commesse che in pausa pranzo mangiano dietro ai banconi. La vorano senza soluzione di continuità. Ragione prima di una comprensione stentata con gli italiani che hanno una cultura del lavoro integralmente diversa e abitano in altri quartieri, con altre insegne e altri negozi.
Ragione prima, ma non unica. Perché la storia del dialogo tra noi e loro, in questa strana città di confine che è la più cinese d’Italia, è fatta di chiaroscuri. Cosa che ci conferma anche il sindaco Pd Matteo Biffoni, che dice: «Una certa diffidenza tra noi e loro c’è ancora. Anche se i figli degli immigrati che frequentano scuola in città hanno più possibilità di dialogare con i compagni italiani e una padronanza della lingua che è già un elemento fondamentale di integrazione».
Dietro ai laboratori per i più piccoli, però, c’è la memoria recente del rogo del 1 dicembre 2013 nello stabilimento di Teresa Moda, dove morirono 7 immigrati, e c’è la piaga dei capannoni nella zona del Macrolotto, dove le fabbriche del tessile fioriscono senza regole e tutele per chi ci lavora. Per cercare di capire cosa accade a due passi da Firenze, abbiamo scelto di incontrare i cinesi di seconda generazione nati e cresciuti in Italia. Sono tanti se si pensa che, su circa 16mila presenti a Prato (190mila abitanti), il 30 per cento ha meno di 17 anni. Abbiamo scoperto che sì, certo, rispetto ai loro genitori sono più inseriti nel tessuto sociale, ma non per questo vivono in maniera leggera la loro doppia appartenenza.
Malia Zheng, 25 anni, blogger, è nata e cresciuta a Prato. Ha studiato Media e comunicazione a Firenze e adesso lavora a Pechino. Ma con il passaporto italiano, e solo quello, perché il governo cinese non concede la doppia cittadinanza: o di qua, o di là.
Ecco la prima evidenza: chi è nato in Italia e si sente anche cinese, come la bella Malia, sente però un richiamo nostalgico verso qualcosa che avverte come parte di sé. Malia è un perfetto esempio di integrazione a metà: «Ho optato per la cittadinanza italiana perché è questo il mio Paese» afferma. Ma poi precisa subito: «Anche se mi sono iscritta all’Associna, che è l’associazione che in Italia riunisce i cinesi di seconda generazione, ho deciso di fare ritorno alla base». E non si stupisce se, lì a Pechino, le chiedono di lavorare anche di domenica. In Cina, in fondo, ha ritrovato un altro pezzo della sua famiglia, anche se mantiene i contatti con i parenti rimasti a Prato, che hanno molto osteggiato la sua scelta di tornare in Oriente. Il fatto che ci sia comunque riuscita fa luce su un fenomeno singolare su questa comunità: sono le donne, più degli uomini, ad avere il coraggio di cambiare, di fare strappi drastici rispetto alle tradizioni.
Forse, a causa dell’impostazione patriarcale di quella cultura. Fatto sta che la scelta “obbligata” della cittadinanza, imposta da Pechino (o decidi di essere italiana o decidi di essere cinese) porta più gli uomini a scegliere quella del paese d’origine. E un motivo c’è: eventuali capitali da riportare in Patria vengono tramandati di padre in figlio. Questo, però, paradossalmente rende le donne più libere.
Gag He, che ha studiato al Polimoda di Firenze per diventare fashion designer, pensa già di tornare a Pechino, tra un po’. Come Malia: un’anima divisa in due. Un conflitto perenne, che emerge dalla pièce teatrale che Shi Yang Shi, volto cinese della nostra tv (Le Iene), ha portato in scena al Teatro Parenti di Milano e al Teatro Fabbricone di Prato. Lo spettacolo Tong Men-g. Porta di Bronzo: stesso sogno è inserito nel cartellone del Festival Mixité e nel programma di Expo in Città, quindi il 5 giugno torna a Milano, al Teatro Ringhiera. Racconta (in italiano e in cinese, dato che si rivolge a un pubblico misto) la storia di Yang, la scoperta dell’Italia sui banchi di scuola, la ricerca delle radici e «l’ineffabile sensazione di essere a mezzo» dice lui. Sdoppiato, come sdoppiata è la famiglia di Marco Wong, 52 anni, tutti trascorsi in Italia, Marco si è candidato per Sel al consiglio comunale di Prato. «Ho due figli, un maschio e una femmina» racconta. «Il primo lavora con me in azienda e studia Economia, la seconda fa il liceo ma sogna di andare a studiare in Canada. Perché no?». A conti fatti, lei è più libera di fare come le pare.
Eppure alle ragazze cinesi piace l’italian style. Forse ancora in cerca di status symbol più che di contenuti culturali, adorano (quelle ricche) vestire griffato, bere vino e pranzare in ristornati di lusso. Cristina Pezzoli, animatrice di Compost, centro culturale pratese che lavora da anni sull’integrazione, su questa possibile discrasia tra uomini e donne dà un’altra chiave di lettura: «La maggiore conoscenza della nostra cultura da parte delle cinesi immigrate è legata al loro ruolo di madre: frequentano le scuole e le altre mamme, e questo le mette in stretto contatto con noi». Giorgio Bernardini, che segue la comunità pratese per il Corriere Fiorentino, racconta la fatica di tenere insieme i due mondi in Chen contro Chen (Round Robin): «I ragazzi cinesi confliggono con i genitori perché portatori di culture diverse. Con i loro coetanei italiani condividono la lingua, il fatto di essere nativi digitali e di conoscere le regole, ma cultura del lavoro e senso dell’affetto fanno da spartiacque». Le coppie miste sono rare. Anche perché è diverso il modo di socializzare: «Quando non lavoro vado al ristorante o in un locale. Però cinese: con gli amici ci si diverte alla nostra maniera» dice il ventenne Angelo Hu, di Campi Bisenzio. Si cena, poi tutti al privée, a fare karaoke. Come fanno i ragazzi di Pechino, o di Shanghai.